Il padre e lo straniero di Ricky Tognazzi

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2 ottobre, 2012 - 12:08

"Perché l’antica solitudine 
per un breve momento era stata interrotta 
dal fiato caldo di una comunione perduta 
e la nuova era senza rimedi".
Giancarlo De Cataldo

polit

E’ un film complesso, Il padre e lo straniero, che non esita a mettere in scena, tra le emozioni, anche le più profonde, a raccontarci il dolore, l’amore e il disamore….e poi, ancora, l’amicizia, il fascino e la diffidenza. E’ ricerca avventurosa, ricerca dell’anima, dell’identità. D’altra parte, Ricky Tognazzi dice di preferire già di suo i film densi e di aver amato così tanto il romanzo, da non volerlo tradire.

Non è che si sia mantenuto fedelissimo, ma rassicura il fatto che tra gli sceneggiatori c’è lo stesso De Cataldo, autore della storia, tristemente autobiografica, scritta ormai un po’ di anni fa.

Alessandro Gassman è Diego Marini, quarantenne ingrigito dalla monotonia del suo impiego al Ministero, ma soprattutto dalla realtà di un figlio disabile, Giacomino. Non riesce neanche a usare il suo nome: lo chiama semplicemente "Il bambino". E’ sempre impacciato Diego, con lui, con la moglie, con la vita ed è troppo bello Gassman, presente dalla prima inquadratura all’ultima, per sostenere tanta goffaggine! Eppure si è riusciti a renderlo rigido, intimidito e maldestro: con la cravatta indossata persino nel deserto, senza neanche allentarla un po’. Il Diego del romanzo è molto meno avvenente; quasi si vergogna a spogliarsi davanti agli altri per il suo fisico poco curato

L’attore egiziano Amr Waked è Walid, anche lui padre di un bambino disabile, Yusuf, più piccolo e ancora più indifeso di Giacomino. Walid per primo rivolge la parola a Diego nell’istituto riabilitativo in cui si incontrano: una sigaretta, una stretta di mano, un fascino mediorientale che cattura da subito: sguardo timido e sfrontato, voce carezzevole, modi di fare sfacciatamente seducenti, e seduttivi. Negli incontri che seguono, quando Walid dice: "Nel mio paese…", sappiamo già che le sue massime saranno un’apertura sul mondo e sulla vita, e, se riescono ad incantare noi, più diffidenti, immaginiamo quanto ne sarà conquistato Diego, così sprovveduto nelle sue labili difese. Certo è un po’ troppo sbandierata la saggezza di Walid, una sorta di malia, che incanta, rapisce, stordisce, e inquieta.

E’ sincero? Sulla sua ambiguità si fonda il senso di tutta la vicenda, perché di lui Diego si fida e gli si affida con una nuova innocenza; con lui solo prova quella voglia di dire, di esprimere ciò che finora è parso inesprimibile, di dare voce ad un dolore troppo intimo, capace solo di trasformarsi in rabbia. Nel romanzo, Diego se la prende con un dio nevrotico e insensato, un demone bizzarro, fino a sfogare la violenza contro Giacomino stesso, quando l’improvvisa sparizione di Walid diventerà insostenibile. Ora, come prima dell’incontro, Diego può ritornare a dirsi che "Nel dolore, così come nella rabbia, si è sempre soli e impotenti"

Lo abbiamo ripetuto troppe volte ormai che l’altro da sé può rappresentare l’Ombra, per cui risparmiamoci le citazioni consuete di Jung e di Hillman; stiamo di più con l’abbandono di Diego ad una realtà che si presenta così diversa dalla sua. Diciamo solo che i luoghi in cui Walid lo accompagna hanno tutti un valore iniziatico: dal bagno turco al locale con la danza del ventre, quella vera. Walid fa sperimentare a Diego odori e sapori nuovi, fino a quel magico e azzardato viaggio in Siria, quasi un rapimento, ma da fiaba. Nel suk siriano l’amico arabo scompare e ricompare, con una naturalezza sospetta e sembra voler forzare ancora di più l’amicizia, mentre continua ad offrire un modello di paternità inedito per Diego.

Già fin dai loro primi incontri, Walid non aveva freni nel parlare della dedizione al figlio, luce dei suoi occhi, e del suo cuore di padre come luogo sostitutivo di quel posto che Yusuf avrebbe dovuto occupare nel mondo. Amorevole fino allo struggimento.

E così, neanche lentamente, avviene il cambiamento del rapporto tra Diego e Giacomino. Avviene attraverso il contatto fisico, di cui solo la moglie finora è stata capace (nel libro, invece, è la parola il tramite riscoperto dal padre, un improvviso e inarrestabile raccontarsi al bambino che coglie le sfumature della voce e un po’, forse, sorride).

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Ma proprio quando tutto sembra andare per il meglio, ecco che il racconto muta di genere e siamo trascinati da un giallo spionistico nel quale Diego si trova suo malgrado coinvolto. Entrano in scena i servizi segreti e d’ora in poi la sua, la nostra domanda è la stessa: Walid è vittima o colpevole?

Il film ha dato molto spazio a questa seconda parte, facendone il teatro della consapevolezza di Diego, che sarebbe troppo affrettata senza le prove da superare, tipiche di ogni narrazione avventurosa. Uomo qualunque e pavido, Diego si scopre coraggioso: deve ritrovare Walid e, insieme a lui, quel bene che lo ha fatto crescere, che lo ha fatto diventare per la prima volta padre, per la seconda marito amante; deve pagare il suo debito di gratitudine, ma ancor più dare senso ad un’apparizione, perché non sia solo la fragilità di un sogno. Forse è Ricky Tognazzi stesso a dire che "La soluzione del giallo è averlo saputo vivere". Attraversarlo.

Ancor più del romanzo (forse perché anche l’autore-sceneggiatore è cresciuto negli anni), il film vuole essere l’attraversamento di una complessità. Le due scene del deserto (nella seconda finalmente Diego toglie la cravatta, a sottolineare una maggiore somiglianza con l’amico) non sono presenti nel racconto di De Cataldo: Walid scompare e ricompare semplicemente nel mercato multietnico di Piazza Vittorio. Si sono aggiunti mistero, esotismo, lontananze, perché l’attraversamento dell’anima non è cosa semplice; i suoi vagabondaggi non sono una passeggiatina sotto casa.

Luoghi altamente simbolici, quindi: dai locali bui di una Roma mediorientale sconosciuta, al Medio Oriente vero, alla luce abbagliante del punto in cui si vede il tramonto più bello dell’anno; dall’umidità del bagno turco alla secchezza del deserto; dagli interni asettici del Ministero al verde promettente di un’oasi.

E se è scontato definirli luoghi dell’anima o della mente, per lo meno possiamo dire che sono rappresentazioni esterne dell’identità frantumata di Diego, che cerca una sua difficile e possibile integrazione. Santini, il capo dei servizi segreti (un bravissimo, come al solito, Leo Gullotta) dice che qui "nessuno è quello che dovrebbe essere". Una ricerca identitaria, quindi, che Diego condivide anche con i personaggi femminili: la moglie Lisa (Ksenia Rappopor) e l’enigmatica Zaira (Nadine Labaki, regista e interprete del bellissimo film Caramel).

Di loro abbiamo parlato meno, perché lo sguardo su questa storia è volutamente maschile, come voluta è la nostra scelta di non insistere troppo sul disagio dei genitori di figli disabili, per pudore, per rispetto, per scarsa conoscenza e perché, come diceva qualcuno più saggio di noi, ciò di cui non si può parlaresi deve tacere.

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