IL CASO GEROLAMO RIZZO - RECENSIONE AL LIBRO

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13 agosto, 2020 - 06:20
Autore: FRANCESCO BOLLORINO E GILBERTO DI PETTA
Editore: Alpes Roma
Anno: 2020
Pagine: 124
Costo: €10.45

 

I. Questa “plaquette” ha due aspetti interessanti: uno, far conoscere l’immagine della follia, in un’Italia di epoca manicomiale, come vissuto specialistico e civico, così invitando a qualche riflessione storica; l’altro di offrire materiale per una riflessione psicopatologica che, volendo, può portare l’incomprensibile e storico demenzialismo lombrosiano di questo caso alla possibile comprensione attuale; un comprensione, tuttavia, molto diversa da quella psicologistica a cui propendono gli AA. e che, centrandosi sulla solitudine del paziente, ne lascia però in ombra l’essenziale risvolto ontologico.

II. Dal lato storico notiamo prima il fatto che la follia del maestro Rizzo è una forma ricca di manifestazioni comportamentali come l’irregolarità nell’insegnamento, la dromomania (il bisogno di spostarsi spesso da un posto ad un altro seppure in un circuito limitato; ci son dei dromomani che errano attraverso un continente se non più continenti), spesso l’espressione mimica alterata accompagnata da dialoghi ad alta voce in pubblico con un interlocutore assente. Per non dimenticare la sua esperienza vissuta chiaramente delirante che egli confida a qualche persona di fiducia per trovare comprensione per sé e esprimere sdegno contro i persecutori.

L’altro fatto interessante è come la follia del Rizzo, malgrado codesti aspetti vistosi e perlomeno sospetti se non inequivocabili, sia minimizzata dai suoi interlocutori come un malessere passeggero, un disturbo che con uno sforzo di volontà o con un adeguato periodo di riposo scomparirà (e in effetti la scuola di periodi di riposo gli sarà generosa, forse per il prestigio di quella famiglia di Insegnanti).

Ma ci si domanda come un malato di questo calibro non sia stato affidato ad uno specialista e non ne sia stata valutata la pericolosità. Una risposta in merito si può solo immaginare perché il saggio non è prodigo di notizie in materia. Ma codesto atteggiamento può derivare dal paradigma degenerativo che all’epoca imperava trovando unanime consenso negli alienisti e nella pubblica opinione e che sottintendeva l’impotenza terapeutica. Gli alienisti della dégénérescence puntavano semmai sulla prevenzione di quella tara ereditaria a evoluzione progressiva sia nel malato che nella intera sua famiglia e che sulla famiglia gettava un’ombra che metteva in particolare a rischio le chances coniugali delle donne del casato. Questa preoccupazione era soprattutto un vissuto della classe media borghese a cui appartiene la famiglia Rizzo, assai meno incidendo nella classe popolare e negli aristocratici; questi in particolare considerando il figlio o la figlia come trasmissore di titoli e averi, valutavano la sua eventuale follia2 un danno collaterale cui si poteva sempre far fronte.3 La follia di Rizzo viene affrontata con un atteggiamento minimizzante che sa un po’ di scaramanzia e un po’ d’ipocrisia, sullo sfondo della considerazione di cui godevano allora gli insegnanti, in quel torno di tempo anche aumentata dalla legge recentissima sulla istruzione obbligatoria.4 Questo forse spiega l’atteggiamento della famiglia che fino a un certo punto difende il maestro e che poi ne prende le distanze.

III. Dal punto di vista psicopatologico c’è nel saggio un’analisi di questo delirio in chiave psicoanalitica di Rita Corsa che, riferendosi alla macchina influenzante di Tausk, ben mette in risalto il carattere di disumanità del soggetto e del suo mondo che caratterizza questo come ogni delirio ben costituito. Ma il riferimento all’ipotesi di un apparato psichico che questa ottica comporta fa la distinzione rispetto ad un’analisi fenomenologica che, come dice Tatossian, non richiede apparati di riferimento e può quindi più liberamente spaziare; anche se questa affermazione, certa per la fenomenologia eidetica, suscita qualche riserva nel caso della fenomenologia genetica e della Daseinsanalyse come si potrà notare discorrendone.

Dal lato eidetico, questo delirio appare come il risultato di una coscienza di immaginario che intenziona il mondo vissuto secondo l’a-priori della propria monosemia coatta. Uomini e cose che essa man mano incontra tutti riduce e spersonalizza a figure funzionali al tema che essa al mondo vissuto ha imposto come a-priori ontologico. La fenomenologia eidetica descrive e non si cura di cause o genesi di quello che descrive.

Da notare che codesta intenzionalità non investe solo il significato culturale, umano e sociale di istituzioni e persone, tipo le riduzioni eidetiche alla Sartre, ma investe anche il corpo, proprio e altrui, di cui viene violato in modo precipuo il pensiero nella sua libertà, nella sua trasmissione, nella sua gelosa riservatezza. Le esperienze primarie qui presenti non ci mostrano però intrusioni nella struttura anatomico-viscerale del corpo, con relativi scambi, eliminazioni o aggiunte di organi; il corpo rimane integro supporto degli avatars del pensiero. Il disturbo rimane cioè ad un livello cognitivo da suggerire una forte componente paranoica di questo delirio malgrado il suo prevalente alimento dispercettivo che appartiene piuttosto al delirio schizofrenico.

Quanto al soggetto del delirio, in questa prospettiva eidetica se ne può solo avere un presentimento come cascame via via costituentesi dell’attività di una coscienza eidetica per definizione impersonale e le cui successive intenzionalità vengono montate in una sequenza narrativo-egoica grazie al collante della memoria: una tesi di cui noi psichiatri troviamo conferma in ciò che ci insegnano i nostri dementi. Una tesi che tuttavia il Sartre del L’imaginaire e de L’être et le néant rifiutava come psicologista convinto che la continuità del soggetto fosse garantita non dalla esecrata introspezione5 ma dalla continuità del quel mondo che ci appare ogni mattina aprendo gli occhi6 e solo nel quale il nostro “interno” si può conoscere facendosi ”esterno” di proiezione intenzionale che fa di pensieri e sentimenti l’adombramento semantico degli oggetti.7

Il soggetto come riferimento nucleare del delirio diventa invece esplicito nella fenomenologia non a caso chiamata egoica e che di esso propone tre declinazioni in termini di Ego, sottolineando esser queste funzioni e non entità malgrado la riserva di Sartre e di Lanteri-Laura che vi vedono in trasparenza una riedizione dell’Io assoluto dell’idealismo. Quale comunque che sia il significato di codesti tre Ego (empirico, puro, trascendentale) va detto che essi meglio aiutano a capire quel costituirsi del mondo delirante sul quale l’attività eidetica della coscienza rimaneva alla unilateralità di un deficit. In questi prospettiva invece l’attività eidetica dell’io trascendentale si articola dal suo stesso inizio con le altre istanze egoiche in tal modo che l’Io puro mette l’Io empirico in condizione di “prendere per un verso” l’eidos immaginario costruito dall’io trascendentale e realizzare come azione il programma che esso ha così solo impostato in astratto. Aiuta a capire in merito l’esempio del paziente Achtzig, citato da Tatossian, fiero di esser riuscito a “prendere il tram”, cioè a dire a prendere quella determinata vettura che passa a quell’ora da quella determinata fermata. Perché per uno che come Achtzig che vive “sotto il regime della riduzione”, il tram è un concetto astratto impossibile a prendere per un verso e di fronte al quale il paziente resta di una superiore indifferenza oppure bloccato in un perplesso apragmatismo.

Anche in questa ottica, il delirio appare come l’intenzionalità ipertrofica di una coscienza di immaginario ma con la novità di fare del delirio non un semplice deficit quale lo faceva la fenomenologia eidetica bensì lo sbilanciamento di una dialettica già predisposta a rimettersi in moto anche se non sempre capace di riuscirvi, grazie alla compossibilità operante delle tre istanze egoiche. D’altra parte questa fenomenologia precisa l’attività di esse in termini di flusso temporale vivente di gusto bergsoniano fa retentio, protensio e praesentatio situato al livello precategoriale della Lebnswelt e dove il delirio si concretizza come irrigidimento o disarticolazione di codesto flusso ineffabile che per esprimersi deve ricorrere, come diceva Minkowski, al “langage d’antan” e configurarsi in “giudizi” deliranti.

Da non trascurare che questa fenomenologia ritrova nei termini di un linguaggio filosofico più sofisticato la geniale intuizione che PInel esprimeva nei termini del suo più semplice sensismo come dialettica fra passione e ragione, comunque concordando sull’idea che la follia non è un incidente ma una potenzialità dello spirito umano.

 



 

 

L’ottica della Daseinsanalyse si centra ugualmente sull’attività eidetica della coscienza dato che la radice comunne di codesti indirizzi fenomenologici è l’idea che l’esistere umano comincia con l’impatto percettivo col mondo e conferendogli un senso.

L’idea del Dasein fa propria da un lato l’idea dell’attività eidetica della coscienza come attività impersonale (il Dasein non è né singolare né plurale, né maschio né femmina, né giovane né vecchio …) e, dall’altro, l’idea della follia come potenzialità intrinseca dell’esistere umano.

Il soggetto anche qui è un cascame dell’attività eidetica della coscienza che l’intrinseco slancio temporale del Dasein struttura per la sua stessa natura in senso narrativo ma non ego centrato, lineare e scontato. E questo perché il Dasein è per sua natura un ente intersoggettivo per cui il suo esserci è intriso di intenzionalità polemica –si direbbe eraclitea- verso l’altro fra costituire e esser costituito, fra intenzionare essere intenzionato. In questa ottica il delirare non appare più la stasi di una dialettica ma apre sulle due possibilità della megalomania da un lato, della persecuzione dall’altro, della attività e della passività come potenzialità di un esistere umano fra di esse sempre in bilico e fra di esse sempre alla ricerca di un equilibrio che ricorda quello del ciclista, costitutivamente dialettico fra due sbandamenti uno a destra e l’altro a sinistra.

IV. Al di là delle loro differenze, codesti indirizzi fenomenologici concordano sul centrare la soggettività delirante sui parametri che Tatossian indica come: Infallibilità, universalità e irrealtà; e che a mio avviso hanno il loro nucleo di senso nella nozione di immaginario. E questo malgrado le riserve dello stesso Tatossian sulla versione che dell’immaginario danno un Sartre o un Lanteri-Laura perché essendo centrata sulla neutralizzazione consapevole e in ogni momento reversibile del reale, si ridurrebbe a quel gioco di autoinganno che Sartre chiama “malafede” e che egli contrappone alla nozione di inconscio freudiano a cui Tatossian pare invece voler credere. Ma è chiaro che ciò che qui è in discussione non è la struttura immaginaria della coscienza delirante ma la sua fascinazione che sull’immaginario la irrigidisce, e questo problema lo lascio da parte, qui interessandoci solo il delirio come immaginario. Che letto nell’ottica della soggettività, fa apparire un soggetto onnipotente che imperversa nel campo dell’esperienza vissuta divorando via via ogni forma di diversità, ogni forma di autentica alterità che incontri, trasformando questo campo in un deserto dove egli giganteggia in solitudine circondato da quelle ombre che sono i vassalli della sua corte e che nulla hanno di autentica alterità.

A questo proposito si potrebbero rileggere con beneficio e con piacere le pagine che Elias Canetti8 dedica all’argomento presentando Hitler come il paranoico che contempla trionfante il mondo da lui desertificato (con la Bomba, appena l’avesse avuta) in cui egli è l’unico essere vivente sopravvissuto, i suoi scherani, puri automi, essendo appunto solo molecole proiettive del suo narcisismo grandioso.

V. Qui c’è la chiave di comprensione della solitudine in cui scivola sempre di più il Rizzo di Genova e non ha molto senso psicopatologico lamentare che essa rimanga incompresa da amici e conoscenti, dato che il paziente è il primo a non capirla. Questa solitudine è la trasformazione delirante della coscienza, è un a-priori ontologico che il Rizzo trova dentro di sé allo stesso titolo dell’umore nero che si ritrova il melanconico, anch’esso senza riuscire a capirne il perché.

Il Rizzo la sente chiaramente codesta solitudine spietatamente crescente tanto che cerca di aggrapparsi alla sodomizzazione passiva per sentirsi reintegrato nel consorzio umano a cui si scopre sempre più estraneo. Questo aspetto lo cito perché lungi dall’essere il folklore che sembra, è piuttosto un indice strutturale dell’evoluzione di codesti deliri. Lo trovai in un paziente di Lucca che tradusse il problema nei termini, più garbati di quella città dalle 111 chiese, del “fare la comunione” e chiedendo anche a fratelli e amici di somministrargliela (visto che quella del prete non sortiva il miracolo che lui chiedeva) ricevendo repulse comprensibili fra imbarazzate e ironiche. Finché rivolta la richiesta al neurologo che l’aveva preso in cura per codesti esordi del suo delirio, a richiesta di quello spiegò che la comunione consisteva in un rituale di sodomizzazione passiva da parte di un “superiore”(quale appunto poteva essere il dottore) e che l’avrebbe poi autorizzato a sua volta ad iniziare dei postulanti, in codesto modo sentendosi infine parte viva del consorzio umano. E al cortese rifiuto del neurologo chiese amareggiato conto di quella repulsa, anche perché –asseriva - tutti dovevan passare per quella via, e anche lui, il neurologo, c’era passato. Che reagì in modi che ci fan capire quanto poco la neuropsichiatria dell’epoca avesse a che fare con la psichiatria.

VI. D’altra parte, la struttura di senso che la soggettività delirante chiamata Rizzo imprime al suo mondo vissuto rivela una decisa struttura paranoica malgrado il suo alimentarsi più a base di esperienze allucinatorie che di esperienze interpretative. Di codesta soggettività possiamo ritenere due indici: il suo aspetto rivendicativo e lo statuto di istituzione e non di persona che essa da al persecutore.

L’atteggiamento rivendicativo pare esordire come erotomania nei confronti della signorina Ninetta seppure rimanendo una convinzione inespressa pare per una timidezza eccessiva del paziente; il quale per converso non esita ad affrontare prima la madre e poi il padre della ragazza in termini che paiono indicarli come adepti del partito ostile all’amore in questione e che, insieme ai fautori di esso, fanno i due partiti, immancabili a contorno strutturale e strutturante di ogni erotomania. Come dire che il Rizzo esordisce come delirante col reclamare un amore che egli sa presente nel cuore della donna e che gli è dovuto per una promessa più volte da lei reiterata seppure nel linguaggio criptico di cenni e allusioni necessario per frastornare gli invidiosi e gli ostili.

Il tono rivendicativo continua a scorrere nelle fibre del delirio anche quando esso vira alla persecuzione e porta il Rizzo a protestare in modo sgomento ma stenico contro l’ingiustizia che si sta perpetrando contro di lui agendo sulla sua libertà e sulla sua persona attraverso i vari influenzamenti di cui si sente l’oggetto. Di certo gli autori di codesti influenzamenti sono una corporazione tanto misteriosa quanto potente ma il Rizzo è ben lontano dal riconoscere il buon diritto della potenza che esercitano su di lui e di doversi a questa potenza sottomettere.

VII. Codesto percorso mi ricorda per differenza quello del famoso “Senatore” di Lucca che esordì anche egli come erotomane nei confronti di una vicina di casa, passò poi a rivendicare il posto del Prefetto di Lucca andando a trattare l’alto funzionario che l’occupava da usurpatore e, una volta serrato nel Manicomio, prese a rivendicare il posto del Direttore. Ma con una significativa differenza: che mentre la rivendicazione erotomane e quella querulomane le fece in prima persona (seppure una persona già alienata e in via di spersonalizzazione), la rivendicazione della direzione del Manicomio passò nelle mani di potenti e misteriosi “lorsignori” che ne davano contezza al Senatore attraverso i resoconti televisivi dei dibattiti parlamentari dove si confrontavano aspramente fautori e detrattori del Senatore stesso secondo il classico schema della psicosi passionale di Gatian de Clérambault. La soggettività del Senatore era così diventata decisamente impersonale e s’era ridotta al ruolo di spettatore capace al massimo di ”tifare” per i suoi sostenitori e di ridere delle figuracce dei suoi detrattori ma rimanendo ai margini del loro agire.

Correlativamente il Direttore usurpatore e gli Ispettori che gli portavano ogni mattina i registri da firmare perdevano progressivamente di realtà diventando prima delle comparse prezzolate (ovviamente da “Lorsignori”) che recitavano la commedia e poi non più esseri umani ma dei robots metallici che quella scena recitavano con la fissità gelida dell’automa inumano. Il delirio del Senatore da passionale s’era fatto prima decisamente paranoico, poi paranoide e si colorava infine di tratti parafrenici diventando, come diceva Lanteri-Laura, un delirio più narrato che agito.

VIII. D’altra parte, a favore del secondo tratto paranoico del delirio del Rizzo depone il fatto che i suoi persecutori siano classicamente delle Istituzioni, fra cui in particolare la Chiesa cattolica; le quali appaiono però non sul registro schizofrenico di entità di potere impersonale e misterioso ma attraverso loro ben riconoscibili rappresentanti in carne ed ossa. Certo codesti rappresentanti non sono più persone autentiche e questo non tanto, o non solo, per essere totalmente appiattiti sul loro ruolo ma per non conservare dietro a codesto ruolo quel sentore di umana biografia che si avverte nelle persone che suscitano in noi un riguardo aggiunto, ulteriore e diverso9. Rizzo dice infatti di non conoscere la sua vittima, di non aver mai visto quel prete, il quale , non avendo per lui una storia neppure ha un’identità, che insomma è solo un astratto eidos di persecuzione. Quello che però si può qui far notare è che questo eidos necessita di un corpo vivente come ineludibile supporto della sua presenza. E’ questo il risvolto complementare dell’eidos del persecutore della paranoia, che è sì un’entità astratta di malevolenza ma calata in una determinata persona anche caratterizzata da un determinato ruolo sociale.

Rizzo uccide non il prete ma un eidos persecutorio di cui il prete è il supporto incarnato e per questo non prova emozione davanti al suo delitto, non il dolore, non il rimorso d’avere ucciso una persona, non l’orrore del cadavere ma piuttosto la soddisfazione d’aver eliminato un male ingiusto.

A ulteriore sostegno del tratto paranoico di questo delitto viene in mente per differenza uno dei tanti aforismi del grande Tatossian e cioè che anche la morte, quando il delirio è sul registro paranoide, diventa un “flatus vocis”, una pura espressione verbale di quel costrutto narrativo che è il delirio stesso e che come pura espressione verbale si può sempre cancellare, ignorare, cambiare nel suo contrario. Del tutto diversa invece la situazione del delirio paranoico, o passionale, dove la morte deve fare i conti con la presenza ineludibile del cadavere che difficilmente può essere sussunta e eventualmente negata o riconvertita in vita nell’immaginario narrativo come fa il paranoide. Qui c’è da fare i conti con la presenza del morto, situazione capace di far risvegliare l’assassino da una sua trance passionale o fanatica. E appunto qui vengono in mente in particolare gli assassini passionali e la loro disperazione quando si trovano davanti al morto che hanno fatto nel trasporto della passione e che non vorrebbero aver fatto.

Il Rizzo invece rimane non solo indifferente davanti al corpo del prete ma ha l’aria di aver fatto il suo dovere, d’aver esercitato il suo buon diritto e di esserne anche soddisfatto. Qui siamo davanti alla paranoia di vecchio stampo tedesco aperta alle allucinazioni e semmai un po’ alleggerita nella rifinitura kräpeliniana, la paranoia processuale che sfocia, per ripeterlo in termini eidetici, su di un mondo dall’eidos profondamente disumano, su un sistema di asserzioni coerente con sé stesso e al tempo stesso autolegittimantesi così rivelando uno degli aspetti costitutivi fondamentali dell’autentico delirio.

Ma non è per questo che il Rizzo suscita la umana comprensione nei suoi confronti, non cioè per la sua soggettività delirante che svela anzi una struttura megalomane e disumana di sé attraverso il mondo che costituisce; la suscita semmai per il suo progressivo e ineludibile scivolare nella solitudine che il suo mondo egocentrato crea, come ho ricordato, distruggendo ogni forma di alterità, suscita la pietà come qualunque malato a cui la malattia sottragga pian piano la vita. Mentre il suo massacro da parte dell’altro ricoverato lascia veramente turbati perché vi si intrecciano una sedicente giustizia da psicopatici e una furia dove forse s’incontra la disarmonia e l’invidia del rozzo sentire di un déséquilibré alla Magnan.

Ma ancor più pietà suscita il prete ucciso che nemmeno è colpevole incolpevole come il Rizzo e che ci spinge a cercare una risposta per la via molto diversa di una trascendenza laica o religiosa che essa sia, che la chiamiamo Fato o Provvidenza e tenendo presente che è l’enigmatica trama di fondo su cui si disegna il nostro lavoro.

Dico per finire che non ho capito la richiesta di perdono che gli AA esprimono a nome della psichiatria del 1906 per non aver capito la follia del Rizzo con dei paradigmi che son venuti anni dopo quello che all’epoca dominava, per giunta col consenso quasi unanime che ho ricordato. Mi pare un inserto retorico che non giova certo alla credibilità della psicopatologia fenomenologica. Di questo passo il cristianesimo dovrebbe chiedere scusa alle anime relegate nel Limbo per aver esse ignorato una fede venuta secoli dopo di loro. Anche se il Cristo dantesco che scende risorgendo a far la cernita di quelle da liberare mi sia sempre parso un problema da confrontare con la “bontà infinita (che) ha sì gran braccia /che prende ciò che si rivolge a lei”. (Purg. III, 122-23), come dire un problema “politicamente corretto”.


 

2 Si sa qual’era lo stato mentale del re di Giovanna d’Arco, Carlo VI di Valois, rimasto regolarmente sul trono malgrado la sua nota follia e certe sue uscite arrivate fino al sangue.

3 E’ vero che Ulysses Trélat aveva scritto la sua “plaquette” del 1861 (La folie lucide) per sconsigliare anche i nobili da matrimoni combinati fra i loro figli squattrinati e le figlie di borghesi arricchiti dalla Rivoluzione, dalla vendita dei beni ecclesiastici e dalle predazioni napoleoniche, se i nubendi avessero segni anche leggeri di degenerazione. E con la sua casistica illustrava le vicissitudini di matrimoni del genere.

4 Che si pensa sia la Coppino del 1877 e che rimase invece un proclama che, ho letto da qualche parte, né le famiglie, né i direttori didattici né i carabinieri si peritavano di far rispettare essendo impossibile far accettare ai poveri la sottrazione al lavoro di braccia minorili che ne sarebbe derivata, determinanti pel sostegno della famiglia. La legge che ebbe vera applicazione è invece quella del Nasi del 1905, coeva della legge sul Manicomio, notoriamente del 1904.

La quasi contemporaneità della legge sull’istruzione obbligatoria e di quella sul Manicomio potrebbe suggerire qualche idea sulla piega pedagogica che prese il manicomio custodialista e quasi a zero come risorse farmacoterapiche; e che istituì scuola anche al suo interno della quale beneficiarono non solo i malati ma anche gli infermieri. Il dottor Giordano del Maggiano di Lucca notò come l’analfabetismo della popolazione era decisamente minore nei dintorni del Manicomio da cui provenivano inservienti e infermieri che della scuola manicomiale avevano potuto beneficiare. E tenendo presente che l’analfabetismo nella piana lucchese del primo ‘900, pur non raggiungendo i picchi delle valli bergamasche o del Sannio, doveva aggirarsi oltre il 50% della popolazione.

 

5 E’ anche divertente quello che Sartre dice dell’”umidiccio gastrico” della percezione psicologista intesa come assimilazione introiettiva-digestiva dell’oggetto percepito; e dei relativi rimandi al Journal intime di Amiel.

6 Una fede quasi eroica in un mondo di cui la guerra aveva appena cambiato i connotati e di cui la bomba atomica era apparsa a minacciare la “abitualità”.

7 Dice Sartre: Se voglio descrivere il sentimento dell’orrore non scendo dentro di me a frugare nell’umidiccio gastrico della coscienza psicologica a cercare il concetto di orrore ma vado fuori di me a descrivere la maschera giapponese che la coscienza eidetica percettiva mi presenta come orribile.

8 Mass und Macht, nella traduzione italiana Massa e Potere.

9 La mancanza di questo riguardo aggiunto la si vede verso molti politici dell’Italia di oggi che la gente disprezza per percepire, dietro al personaggio pubblico, non il galantuomo ma il lazzerone da galera.

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