77° MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA: CHAITANYA TAMHANE, UN REGISTA PREDESTINATO

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6 settembre, 2020 - 18:28
di: Bruno Pastorino
Anno: 2020
Regista: Chaitanya Tamhane

Torna a Venezia Chaitanya Tamhane, autore particolarmente amato qui in laguna. 

All'esordio, qui nel 2014, con Court, sbaragliò tutta la concorrenza vedendosi riconosciuto il Leone del futuro e soprattutto un ricco premio in denaro con cui proseguire la sua ricerca artistica. 

La mostra dovette in quell'occasione credere talmente in lui che due anni dopo, neppure ancora trentenne, lo volle in Giuria. Ora -con questa seconda sua presenza alla Mostra- a parere di alcuni potrebbe essere maturo  per il premio più ambito, avendo intanto nel frattempo visto persino includere il proprio nome nell'esclusiva e più ristretta classifica dei registi trentenni più interessanti nel pianeta. 

Parliamoci subito chiaro: quello di Tamhane non è un cinema facile e non ha nulla a che vedere con le  maggiori produzioni indiane che hanno magari ottenuto un qualche briciolo di fortuna pure dalle nostre parti. 

Tamhane è autore che richiede impegno (e una certa soglia di sacrificio) allo spettatore e pure questo sua ultima opera: The Disciple (Il discepolo), non fa eccezione. 

Se nel precedente Court, Tamhane raccontava della folle accusa di istigazione al suicidio intentata nei confronti di un musicista colpevole di cantare versi tragici e disperati,  stavolta il regista  torna ancora nel mondo della millenaria musica classica religiosa del suo paese, per mostrarci la vicenda di Sharad Nerulkar, giovane interprete deciso ad affermarsi nell'universo del raga, la principale struttura musicale di quelle sonorità, e a raggiungere la perfezione della frase sotto la guida del suo severo e povero guru e nell'osservanza dei rigidi e ascetici precetti di quella disciplina. 

“Canta per il tuo guru e per Dio”, è la norma cui Sharad è istruito dal padre fin da piccolo. Un precetto che non autorizza mediazioni, strizzate d'occhio al senso estetico prevalente e, soprattutto, scadenti compromissioni con il vario e frastagliato mondo dell'industria culturale. 

Chi canta quella musica -Sharad lo sa e il guru glielo ricorda anche nella sua desolante vecchiaia- è condannato alla miseria e alla scarsa fama. 

“Quando hai cantato la frase come meglio non potevi, non farlo più; cantane un'altra”, impone il guru a Sharad, quando questo crederebbe di poter finalmente ritenersi soddisfatto per una sua esecuzione. Un obbligo, quello che riceve, che impedisce di potersi specchiare nella propria bravura, imponendo invece una ricerca perpetua e senza fine, unico mezzo -forse- per avvicinarsi alla più profonda spiritualità e al senso di quella mistica. 

Nella modernità globalizzata di Mumbai non tutti intendono e comprendono quel percorso di vita. Non lo capisce una parte della famiglia che lo vorrebbe vedere sposato e sistemato e non ci riescono certamente neppure i frequentatori dei social che si dilettano a dileggiare le parti musicali che ostinatamente (e inopportunamente) lui inserisce su quelle pagine. 

Vasto poi è il mondo dei profittatori. Quello dei talent show, per esempio; identici ai nostri addirittura nelle scenografie e soprattutto nelle isteriche e innaturali reazioni degli improbabili giurati. In quelli può accadere che una promettente interprete di raga, apparentemente apprezzata e promossa nelle selezioni, in poche settimane venga divorata e trasformata nell'ennesima riproduzione della pop star a metà strada tra Brodway e Bollywood. Oppure il presunto esperto americano; ometto senza scrupoli che pretende di saperne più di maestri che a quella musica hanno dedicato un'intera vita e che promette riproduzioni di storiche esecuzioni che senz'altro non detiene e probabilmente neppure conosce. 

Raggiungere la perfezione del canto, però, richiede sacrifici, sottrazioni e soprattutto può non avvenire. 

Capiterà il momento in cui si dubiterà di sé e dell'avvicinarsi a Dio, se non addirittura della sua stessa esistenza. 

A questo sconforto non mancherà neppure Sharad, magari davanti all'ennesimo rimprovero del guru; oppure dinanzi al riconoscimento atteso e non ottenuto; o più semplicemente in quell'attimo di insopportabile solitudine che magari ci si illude di sublimare con un po' di autoerotismo. 

Ma quell'attimo deve passare e, come canta sulla metropolitana un artista di strada nella scena finale, “ci siederemo accanto al pozzo e continueremo a cercarlo”. 

Non credo che Tamhane parli solo della musica classica del suo paese. Il ricorso ad un'arte tanto antica gli serve forse da metafora per alludere, come scriveva Trotski a Bretton nel loro epistolario sul surrealismo, alle più antiche, reali e profonde aspirazioni dell'uomo. E raccontare di Sharad e della sua ostinata ricerca all'ascesi è probabilmente una maniera per descrivere il tormento e il dubbio di qualsiasi ricercatore, qualunque sia la natura e il percorso del suo viaggio. Per parlare magari del momento in cui ci si vorrebbe fermare; dell'attimo in cui non si ha certezza di sé e della propria scelta; di quella particolare circostanza in cui potrebbe accadere di voler ascoltare le suadenti voci della resa e della convenienza. 

E' grazie a ciò che Tamhane si conferma, con questo film, autore cosmopolita e universale; consegnandoci una pellicola importante dentro una rassegna che invece ancora fatica a decollare. 

 

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