Dalla polvere del tempo: recensione a "LA DOPPIA MORTE DI GEROLAMO RIZZO"

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1 marzo, 2021 - 07:41
Autore: Francesco Bollorino & Gilberto Di Petta
Editore: Alpes Roma
Anno: 2020
Pagine: 124
Costo: €10.45
Il testo “La doppia morte di Gerolamo Rizzo. Diario clinico di una follia vissuta” è un libro che sembra sussurrare dalla polvere del tempo, dello spazio e della vita.

Mi sembra di vederli gli autori di questo libro, Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta, chini, gli occhi colmi di curiosità e parole, nella penombra di una stanza, nella penombra di una “doppia morte”, quella di Gerolamo in cui si dispiega la storia di una follia vissuta, come riportato nel titolo. E qui, “in mezzo a queste due morti, quella data e quella subita – come gli stessi autori scrivono nelle prime pagine– c’è l’esistenza clinica e umana di Gerolamo” (p. VIII), un giovane insegnante di 30 anni, solitario e ombroso che all’improvviso scivola in un mondo spaventoso, tremolante e precario, impastato di voci e sangue, di angoscia e disperazione.


 

Gerolamo, protagonista di una sensibile relazione con il mondo, rivela questo carattere sensitivo in una qualunque notte d’estate del 1904 in uno scoppio allucinatorio che porta con sé l’odore acre e persistente di un delirio. Una serie di colpi alla porta della sua stanza, voci maschili che lo chiamano e lo minacciano chiedendogli di aprire la porta a una donna, è l’incipit di questo bombardamento. Un assedio in cui l’alterità si rivela bussando e urlando alla porta ma Gerolamo non apre, Gerolamo non comprende e allora le urla diventano più forti, più chiassose e si insinuano in ogni angolo, non solo dietro la porta della sua stanza. Giungono in strada, qualunque strada, attraversano i portici, salgono sul treno e lo scortano in ogni luogo servendosi di tutto e di tutti. Gerolamo prova a stancare il suo nemico con una serie infinita di andirivieni nell’hinterland ligure ma senza risultato. Ogni cosa è trasformata. La struttura del mondo di Gerolamo si incrina ogni giorno di più e scricchiola ogni notte più forte fino a tramortirlo, per poi conoscere il suo epilogo in sei bicchieri di cognac e un colpo di rivoltella.

La storia di Gerolamo, trovata tra la polvere di cartelle cliniche dell’ex manicomio di Cogoleto, sotterrata dagli anni e dal silenzio, è la storia di un uomo che “inciampa nei suoi stessi piedi” lungo una strada scoscesa che egli percorre al ritmo di una sensitività la quale rivela una progressiva crisi di relazione con il mondo. Questo ritmo risuona con quello che Ernst Kretschmer (1918) chiama “carattere sensitivo” (der sensitive Charakter), cogliendo una matrice di vulnerabilità costituita da un polo astenico (ipersensibilità alle offese) e uno stenico (disposizione a reagire con rabbia e talora violenza). Allo stesso modo di Gerolamo, queste persone vivono protetti da uno “scudo” che può tenere a bada per anni lo scrigno in cui è celato il segreto umiliante del sensitivo (Rossi Monti, 2009). Si tratta di un “guscio” (Gehäuse) (Jaspers, 1919) che da un lato rappresenta un irrigidimento di una visione del mondo (Weltanschauung), dall’altro costituisce un “dispositivo anti-crisi” (Rossi Monti, 2008).

 

La storia di Gerolamo scorre dietro questo “guscio” sotto l’insegna del sospetto. Il suo sguardo è guardingo, il mondo è un posto pericoloso, gli altri sono pericolosi. Egli abita un mondo in cui lo spazio va dominato e il tempo anticipato, un mondo in piena allerta che via via trova conferme deliranti. Sparisce il singolare che si addensa in un tutto impregnato dalla paura e dalla disperazione - lo stesso corpo accusa il colpo come egli stesso scrive “Ai tormenti dell’anima si aggiungevano i tormenti del corpo […] ero preso da nausee che mi duravano delle ore […] Ciò mi cagionava atroci sofferenze, mi venivano, dal patire, i sudori freddi e mi toglieva, quasi, la voglia di mangiare o desinare” (p. 14).

Non c’è alcuna zona franca nel mondo di Gerolamo, tutto è minaccioso, spaventante e anela a una conferma che trova il suo perno nel decadimento delirante che ingloba tutto, che si appella a ogni cosa, persino alla scienza. E così compare, in questo mondo frastagliato e sempre più permeabile alla conferma che ciò che Gerolamo pensa è indissolubilmente vero, il macrocacofono (un neologismo), come ultimo appello di comprensibilità nei confronti dell’assedio di cui si sente vittima. Questo neologismo elicita la comparsa del fantasma della “conoscenza totale” che rappresenta la “caricatura di un sistema scientifico” (Rossi Monti, 2009) e che si dà come crocevia di senso lungo la strada delirante percorsa da Gerolamo. Un ancoraggio di senso che ha una funzione opposta al dialogo e al confronto con l’alterità poiché la minaccia dall’altro lo conduce a un’estenuante ricerca di verità e conferma. La verità si eleva a matassa di senso, come fosse una rete, faticosamente intessuta nel tempo, in cui Gerolamo può finalmente intrappolare le insidie e le minacce della realtà.

La seconda parte di questo testo è arricchito di tre contributi che forniscono una chiave di lettura e di approfondimento. Rita Corsa intercetta il caos incalzante del mondo di Gerolamo, si appella brillantemente al saggio di Tausk sulla “macchina influenzante” ponendolo in dialogo con “l’apparecchio indecifrabile creato dalla mente di Gerolamo” (p. 47).

Pierpaolo Martucci intreccia la storia di Gerolamo con la storia del tempo tracciandone i confini sociali e culturali. Infine, Paolo Francesco Peloso che delicatamente si sposta di posizione: da “La città vista da Gerolamo” a “Gerolamo visto dalla città”.

 

La storia di Gerolamo è una storia ritrovata e portata alla luce dagli autori fedelmente, incarnando il desiderio del sapere dell’esperienza che affonda le sue radici nel dispiegamento del mondo della vita, nel fluire soggettivo delle increspature di una vita trafitta dalla sofferenza, dal deliro. Gli autori si limitano ad apporre note a piè di pagina tracciando un profilo sensitivo che rievoca Kretschmer (1918). L’intera storia è come dovrebbe essere: in prima persona. Viene, così, destituito ogni giudizio e pregiudizio, come ogni clinico dovrebbe fare di fronte ai propri pazienti. Viene così incarnato uno degli assunti di base della fenomenologia vale a dire dare la parola al paziente per descrivere la sua prospettiva, il suo mondo con in suoi occhi e il suo sentire. Viene così a costruirsi una patografia positiva (Stanghellini e Mancini, 2017) ovvero una narrativa che contempli e dia valore a ciò che è presente nel campo di esperienza di Gerolamo, che dispiegandosi rivela la struttura del suo mondo, la sua propria norma di significato.

Gli autori, in questa fedeltà alla storia, hanno lasciato a tutti la possibilità di intravedere la modificazione della struttura del mondo della vita di Gerolamo, cioè la cornice ontologica all’interno della quale è data l’esperienza. Inoltre, hanno lasciato al lettore un’altra possibilità, quella di leggere con uno sguardo molto prossimo a quello fenomenologico, dunque che osserva il mondo e il modo in cui esso si dà nell’esperienza di Gerolamo, invitando il lettore a vedere come Gerolamo vede il mondo - del resto “essere malati significa in sostanza per il paziente una nuova, malata visione del mondo” (van den Berg, 2015, p. 27).

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