LA VOCE DELL'INDICIBILE
I suggerimenti della rêverie degli Artisti
di Sabino Nanni

Baudelaire per il clinico – Parte III

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18 giugno, 2021 - 07:35
di Sabino Nanni
Sottotitolo: L’essenza curativa dei “Fiori del male”

               Parte III: Fleurs du mal – Révolte – La mort – Les épaves
 

        In queste sezioni dei Fleurs du mal, è chiaramente riconoscibile il paradosso della grande Arte: il Poeta riconosce fino in fondo (senza concedersi fughe nella fantasia) le realtà più crudeli e, fra esse, la più crudele di tutte: l’inevitabile fine dell’amore e della vita. Realtà che invano l’essere umano cerca di eludere ricorrendo a ciò che, in realtà, non fa che accelerare la sua autodistruzione: lo stravolgimento dell’amore nella perversione, la ribellione rabbiosa e sterile, l’idealizzazione delirante della morte. Tuttavia, nell’atto stesso in cui c’illustra tutto quest’orrore, ci offre l’esperienza della Bellezza: una realtà umana che non è precaria, perché può permanere per tutta l’esistenza e venire trasmessa a chi sopravvive; un’esperienza, quindi, che, a differenza delle altre, non può deludere. [Per una spiegazione del senso di queste note, si veda  la prima parte di "Baudelaire per il clinico - Parte I", già pubblicata in questa rubrica.]

  
IV Fleurs du mal
 
109 – La destruction – Pag. 208
 
Sans cesse à mes côtés s’agite le Démon ;
Il nage autour de moi comme un air impalpable ;
Je l’avale et le sens qui brûle mon poumon
Et l’emplit d’un désir éternel et coupable.
 
Parfois il prend, sachant mon grand amour de l’Art,
La forme de la plus séduisante des femmes,
Et, sous de spécieux prétextes de cafard,
Accoutume ma lèvre à des philtres infâmes.
 
Il me conduit ainsi, loin du regard de Dieu,
Haletant et brisé de fatigue, au milieu
Des plaines de l’Ennui, profondes et désertes,
 
Et jette dans mes yeux pleins de confusion
Des vêtements souillés, des blessures ouvertes,
Et l’appareil sanglant de la Destruction !
 

(Incessantemente, accanto a me, s’agita il Demonio; / aleggia intorno a me come un’aria impalpabile; / io l’inghiotto e sento che mi brucia i polmoni / e li riempie di un desiderio eterno e colpevole. // A volte prende, conoscendo il mio grande amore per l’Arte, / le sembianze della più seducente delle donne, / e con speciosi pretesti da ipocrita, / avvezza le mie labbra a filtri infami. // Mi porta, così, lontano dallo sguardo di Dio, / ansante, rotto dalla stanchezza, in mezzo / alle pianure profonde e deserte della Noia, // e getta, sui miei occhi pieni di confusione, / vesti lordate, ferite aperte, / e l’apparato sanguinoso della distruzione!)

 

[Il Demonio, personificazione della vita pulsionale rimossa, assume qui le sembianze di un oggetto arcaico, scisso da quello buono idealizzato, che accompagna costantemente il Poeta nel corso della sua vita, in quanto interiorizzato e parte del suo essere. Esso è l’eredità di una seduzione subìta e vissuta come violenza; ha, quindi, carattere seduttivo e distruttivo, ed è capace di attivare istanze autodistruttive: suscita desideri perversi che portano all’annientamento dell’affetto per tutto ciò che è altro da sé ed allontanano dall’oggetto arcaico idealizzato (da Dio) e dal suo sguardo vivificante. Il risultato è la noia, il vuoto interiore, la solitudine di chi si trova perduto e circondato da cose orribili ed infami]

 
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110 – Une martyre – Pag. 208, 210, 212
 
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Dans une chambre tiède où, comme en une serre,
L’air est dangereux et fatal,
Où des bouquets mourants dans leurs cercueils de verre
Exhalent leur soupir final,
 
Un cadavre sans tête épanche, comme un fleuve,
Sur l’oreiller désaltéré
Un sang rouge et vivant, dont la toile s’abreuve
Avec l’avidité d’un pré.
 
Semblable aux visions pâles qu’enfante l’ombre
Et qui nous enchaînent les yeux,
La tête, avec l’amas de sa crinière sombre
Et de ses bijoux précieux,
 
Sur la table de nuit, comme une renoncule,
Repose ; et, vide de pensers,
Un regard vague et blanc comme le crépuscule
S’échappe des yeux révulsés.
 
Sur le lit, le tronc nu sans scrupules étale
Dans le plus complet abandon
La secrète splendeur et la beauté fatale
Dont la nature lui fit don ;
 
…………………………………………..
 
Le singulier aspect de cette solitude
Et d’un grand portrait langoureux,
Aux yeux provocateurs comme son attitude,
Révèle un amour ténébreux,
 
Une coupable joie et des fêtes étranges
Pleines de baisers infernaux,
Dont se réjouissait l’essaim des mauvais anges
Nageant dans les plis des rideaux ;
 
Et cependant, à voir la maigreur élégante
De l’épaule au contour heurté
La hanche un peu pointue et la taille fringante
Ainsi qu’un reptile irrité,
 
Elle est bien jeune encor ! – Son âme exaspérée
Et ses sens par l’ennui mordus
S’étaient-ils entr’ouverts à la meute altérée
Des désirs errants et perdus ?
 
L’homme vindicatif que tu n’as pu, vivante,
Malgré tant d’amour, assouvir,
Combla-t-il sur ta chair inerte et complaisante
L’immensité de son désir ?
 
Réponds, cadavre impur ! et par tes tresses roides
Te soulevant d’un bras fiévreux,
Dis-moi, tête effrayante, a-t-il sur tes dents froides
Collé les suprêmes adieux ?
 
Loin du monde railleur, loin de la foule impure,
Loin des magistrats curieux,
Dors en paix, dors en paix, étrange créature,
Dans ton tombeau mystérieux ;
 
Ton époux court le monde, et ta forme immortelle
Veille près de lui quand il dort ;
Autant que toi sans doute il te sera fidèle,
Et constant jusques à la mort.
 

([…] In una camera tiepida dove, come in una serra, / l’aria è pericolosa e fatale, / dove mazzi di fiori morenti nelle loro bare di vetro / esalano il loro ultimo sospiro, // un cadavere decapitato versa, come un fiume, / sul guanciale saturo / un sangue rosso e vivo, di cui la tela s’abbevera / con l’avidità di un prato. // Simile alle pallide visioni che partorisce l’ombra / e che c’incatenano gli occhi, / la testa, con la massa della sua scura criniera / e i suoi gioielli preziosi, // sul comodino da notte, come un ranuncolo, / riposa; e, vuoto di pensieri, / uno sguardo vago e bianco come il crepuscolo / sfugge dagli occhi stralunati. // Sul letto, il tronco nudo senza scrupoli sfoggia / nel più completo abbandono / il segreto splendore e la bellezza fatale / di cui la natura le fece dono; // […] // Lo strano aspetto di questa solitudine / e di un grande, languido ritratto / dagli occhi provocanti come l’atteggiamento, / rivela un amore tenebroso. // Una gioia colpevole, delle feste bizzarre / piene di baci infernali, / di cui godeva lo sciame degli angeli dannati / che aleggiano fra le pieghe delle tende; // e tuttavia, a vedere la magrezza elegante / della spalla dal contorno tagliente, / l’anca un po’ puntuta e la vita guizzante / come un rettile irritato. // Come è giovane ancora! La sua anima esasperata / e i suoi sensi morsi dalla noia, / s’erano aperti alla muta assetata / dei desideri erranti e perduti? // L’uomo vendicativo che, da viva, non hai potuto / saziare, malgrado tanto amore / esaudì sulla tua carne inerte e compiacente / l’immensità del suo desiderio? // Rispondi, cadavere impuro! E per le trecce irrigidite / sollevandoti con braccio febbrile, / dimmi, testa spaventosa, ha egli sui tuoi denti freddi / impresso il supremo addio? // Lontano dal mondo schernitore, lontano dalla folla impura, / lontano dai magistrati curiosi, / dormi in pace, dormi in pace, strana creatura, / nella tua tomba misteriosa; // il tuo sposo vaga per il mondo, e la tua forma immortale / gli veglia accanto quando dorme; / senza dubbio, come te, ti sarà fedele / e costante fino alla morte.)

 

[Tragico incontro tra una vittima predestinata e il suo carnefice. L’animo della donna è esasperato dalla “noia”: ha perso, e probabilmente non ha mai acquisito del tutto, la capacità di valorizzare altri e d’essere valorizzata dai rapporti. Tuttavia, come apparirà nel corso delle sue vicende, in lei non è mai venuta meno l’aspirazione ad acquisire un sommo valore: ad identificarsi con una donna-madre arcaica idealizzata e “perfetta”, ossia capace di soddisfare ogni bisogno ed appagare ogni desiderio. Invano aveva cercato di colmare il suo vuoto interiore con la sensualità. Aprendosi alla “muta assetata dei desideri erranti e perduti” dei maschi, incontra un uomo che rivela un’avidità insaziabile; ciò risveglia, in lei, la tentazione temeraria di renderlo felice col suo amore. Vede, in costui, i suoi antichi desideri frustrati; illudendosi di poterli appagare, ella intravvede la possibilità di acquisire quel valore, sempre perseguito e irraggiungibile, l’aspirazione al quale rappresenta lo scopo della sua vita: il valore della madre “perfetta”, che non ha mai posseduto, e con la quale ambisce ad identificarsi. La promessa di un impossibile, totale appagamento non può essere mantenuta, e la vendetta per l’inevitabile frustrazione e delusione, a questo livello di passioni primordiali, non può che essere l’assassinio. Perché Baudelaire definisce “martire” questa donna? Ogni martire trova, nel suo sacrificio, il modo estremo per far trionfare i propri ideali, in contrasto con un mondo che li vorrebbe sopprimere; questa martire è tale perché, anche andando incontro alla morte, afferma la sua contrapposizione ad un mondo che distrugge ogni valore ideale: un mondo corrotto ed impuro che schernisce chi vi aspira; un mondo che, con la curiosità intrusiva dell’inquirente, dissacra e riconduce a realtà meschine qualsiasi tipo di fede. L’assassino, con il suo atto orribile, distacca dal corpo della donna (corpo che egli ha potuto possedere), la testa e la mente, che per lui sono state irraggiungibili. Con il suo bacio, egli tenta di ricongiungervisi. Una forma perversa di fedeltà accomuna la vittima ed il carnefice; quest’ultimo non potrà liberarsi della donna desiderata e frustrante assassinandola: il suo ricordo lo accompagnerà e lo tormenterà fino alla fine dei suoi giorni; e la condanna a morte rappresenterà, nei suoi confronti, un atto di pietà.]

 
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111 – Femmes damnées – Pag. 213, 214
 
Comme un bétail pensif sur le sable couchées
Elles tournent leurs yeux vers l’horizon des mers,
Et leurs pieds se cherchant et leurs mains rapprochées
Ont de douces langueurs et des frissons amers.
 
Les unes, cœurs épris des longues confidences,
Dans le fond des bosquets où jasent les ruisseaux,
Vont épelant l’amour des craintives enfances
Et creusent le bois vert des jeunes arbrisseaux ;
 
D’autres, comme des sœurs, marchent lentes et graves
A travers les rochers pleins d’apparitions,
Où saint Antoine a vu surgir comme des laves
Les sens nus et pourprés de ses tentations ;
 
Il en est, aux lueurs des résines croulantes,
Qui dans le creux muet des vieux antres païens
T’appellent au secours de leurs fièvres hurlantes,
O Bacchus, endormeur de remords anciens !
 
Et d’autres, dont la gorge aime les scapulaires,
Qui, recélant un fouet sous leurs longs vêtements,
Mêlent, dans le bois sombre et les nuits solitaires,
L’écume du plaisir aux larmes des tourments.
 
O vierges, ô démons, ô monstres, ô martyres,
De la réalité grands esprits contempteurs,
Chercheuses d’infini, dévotes et satyres,
Tantôt pleines de cris, tantôt pleines de pleurs,
 
Vous que dans votre enfer mon âme a poursuivies,
Pauvres sœurs, je vous aime autant que je vous plains,
Pour vos mornes douleurs, vos soifs inassouvies,
Et les urnes d’amour dont vos grands cœurs sont pleins !
 

(Come bestiame pensieroso, coricate sulla sabbia, / volgono i loro occhi verso l’orizzonte marino / e i loro piedi si cercano e le mani ravvicinate / hanno dolci languori e brividi amari. // Le une, cuori appassionati di lunghe confidenze, / nel fondo dei boschetti dove mormorano i ruscelli, / vanno a riparlare dell’amore delle infanzie impaurite / e scavano il legno verde dei giovani arboscelli; // altre, come suore, camminano lente e gravi / attraverso le rocce piene d’apparizioni, / dove Sant’Antonio ha visto sorgere come lava / i seni nudi e purpurei delle sue tentazioni; // Ce ne sono che, al chiarore delle resine stillanti / nel muto cavo di vecchi antri pagani / ti chiamano in soccorso delle loro febbri urlanti, / o Bacco che assopisci gli antichi rimorsi! // E altre, il cui petto ama gli scapolari, / che, nascondendo una frusta sotto le loro lunghe vesti, / mescolano, nei boschi oscuri e nelle notti solitarie, / la schiuma del piacere alle lacrime dei tormenti. // O vergini, o demoni, o mostri, o martiri / grandi spiriti spregiatori della realtà / assetate d’infinito, devote e baccanti, / ora piene di gridi, ora piene di lacrime, // voi che la mia anima ha inseguito nel vostro inferno, / povere sorelle, vi amo quanto vi compiango / per i vostri cupi dolori, le vostre seti mai saziate / e le urne d’amore di cui son colmi i vostri cuori!)  

 

[In modi d’essere di donne apparentemente diverse tra loro (ma tutte tenacemente anticonformiste e incomprese dai più), il Poeta descrive ciò che le accomuna: l’essere “dannate”, ossia esiliate da una realtà che esse disprezzano, alla ricerca di una dimensione grandiosa: lo “infinito”. Che siano “mostri” o “martiri”, devote o baccanti indemoniate, esse (ciascuna a suo modo) ricercano invano qualcosa che le affranchi da una realtà miserabile e squallida.]

 
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112 – Les deux bonnes sœurs – Pag. 214, 216
 
La Débauche et la Mort sont deux aimables filles,
Prodigues de baisers et riches de santé,
Dont le flanc toujours vierge et drapé de guenilles
Sous l’éternel labeur n’a jamais enfanté.
 
Au poète sinistre, ennemi des familles,
Favori de l’enfer, courtisan mal renté
Tombeaux et lupanars montrent sous leur charmilles
Un lit que le remords n’a jamais fréquenté.
 
Et la bière et l’alcôve en blasphèmes fécondes
Nous offrent tour à tour, comme deux bonnes sœurs,
De terribles plaisirs et d’affreuses douceurs.
 
Quand veux-tu m’enterrer, Débauche aux bras immondes ?
O Mort, quand viendras-tu, sa rivale en attraits,
Sur ses myrtes infects enter tes noirs cyprès ?
 

(La Dissolutezza e la Morte sono due amabili sgualdrine, / prodighe di baci e ricche di salute, / il cui fianco perennemente vergine e drappeggiato di stracci / in un eterno travaglio, non ha mai partorito. // Al poeta sinistro, nemico delle famiglie, / favorito dell’inferno, cortigiano mal remunerato, / tombe e lupanari mostrano, sotto le loro pergole, / un letto che il rimorso non ha mai frequentato. // E la bara e l’alcova, feconde di bestemmie, / ci offrono, di volta in volta, come due buone sorelle, / piaceri terribili e dolcezze spaventose. // Quando vuoi sotterrarmi, Dissolutezza dalle braccia immonde? / O Morte, sua rivale in seduzioni, quando verrai / ad innestare sui tuoi mirti infetti i tuoi neri cipressi?)   

 

[Il Poeta viene qui presentato come “favorito dell’inferno”, “cortigiano mal remunerato” al servizio della dissolutezza, “nemico delle famiglie”. Nell’opposizione tra famiglia (il tipo di unione al servizio dell’amore ed il cui scopo è riprodurre la vita) e dissolutezza (la forma di piacere legata alla distruttività ed apportatrice di morte) il Poeta sembrerebbe prendere posizione a favore di quest’ultima. Si tratta, in realtà, del carattere ambiguo di chi dissacra e, al tempo stesso, demistifica: rivelando la forza innegabile delle tendenze perverse autodistruttive (la cui meta ultima è la fine della vita), egli svela la fragilità e l’inconsistenza dell’esaltazione retorica, delle convenzioni e dei sentimenti correnti legati alla famiglia (ciò che, più di ogni altra cosa, dovrebbe legarci alla vita), ed il carattere mortifero della depravazione. Quest’ultima, quando riesce ad affrancarsi dai rimorsi, è apportatrice di “piaceri terribili” e di “dolcezze spaventose”. C’è qui il riemergere delle antiche passioni, le più sicuramente autentiche; passioni ambivalenti, la cui intensità, incontenibile, è fonte d’angoscia non meno che di piacere. Tutto questo può essere la premessa sia per la definitiva dissoluzione di ciò che è vitale, sia per una seria critica all’ipocrisia e alla falsità delle convinzioni e dei sentimenti che, di solito, legano alla vita, allo scopo di individuarne altri più autentici e convincenti.]

 
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113 – La fontaine de sang – Pag. 216
 
Il me semble parfois que mon sang coule à flots,
Ainsi qu’une fontaine aux rythmiques sanglots.
Je l’entends bien qui coule avec un long murmure,
Mais je me tâte en vain pour trouver la blessure.
 
A travers la cité, comme dans un champ clos,
Il s’en va, transformant les pavés en îlots,
Désaltérant la soif de chaque créature
Et partout colorant en rouge la nature.
 
J’ai demandé souvent à des vins captieux
D’endormir pour un jour la terreur qui me mine ;
Le vin rend l’œil plus clair et l’oreille plus fine !
 
J’ai cherché dans l’amour un sommeil oublieux ;
Mais l’amour n’est pour moi qu’un matelas d’aiguilles
Fait pour donner à boire à ces cruelles filles !
 

(Mi sembra, a volte, che il mio sangue si riversi a fiotti / come una fontana dai ritmici singhiozzi. / Lo sento riversarsi con un lungo mormorio, / ma mi tasto invano per cercare la ferita. // Attraverso la città, come in un campo recintato, / fluisce trasformando i selciati in isolotti, / placando la sete di ogni creatura, / e tingendo dappertutto in rosso la matura. // Ho chiesto spesso al vino ingannatore / d’addormentare per un giorno il terrore che mi corrode; / il vino rende l’occhio più chiaro e l’orecchio più fino! // Ho cercato nell’amore l’oblio del sonno; / ma l’amore, per me, non è che un materasso d’aghi / fatto per offrire da bere a crudeli sgualdrine!)

 

[Il Poeta descrive il suo essere preso dal mondo, in un rapporto fagocitante che lo dissangua. Egli non riesce ad opporre a tale attrazione una barriera di egoismo o di ottusità, come la maggior parte delle persone comuni. Invano egli cerca di contrastare questa sensazione ricorrendo al vino: qualcosa, in lui, reagisce trasformando l’ebbrezza torpida nel suo contrario, in un’aumentata vigilanza. Altrettanto inutile è, per lui, cercare l’oblio nell’amore: sia il mondo, sia la donna riproducono il rapporto fagocitante e dissanguante con l’oggetto arcaico, che il Poeta subisce come una condanna inesorabile.]

 
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114 – Allégorie – Pag. 216, 218
 
C’est une femme belle et de riche encolure
Qui laisse dans son vin trainer sa chevelure.
Les griffes de l’amour, les poisons du tripot,
Tout glisse et tout s’émousse au granit de sa peau.
Elle rit à la Mort et nargue la Débauche,
Ces monstres dont la main, qui toujours gratte et fauche,
Dans ses jeux destructeurs a pourtant respecté
De ce corps ferme et droit la rude majesté
Elle marche en déesse et repose en sultane
Elle a dans le plaisir la foi mahométane ;
Et dans ses bras ouverts, que remplissent ses seins,
Elle appelle des yeux la race des humains.
Elle croit, elle sait, cette vierge inféconde
Et pourtant nécessaire à la marche du monde,
Que la beauté du corps est un sublime don
Qui de toute infamie arrache le pardon.
Elle ignore l’Enfer comme le Purgatoire,
Et quand l’heure viendra d’entrer dans la Nuit noire,
Elle regardera la face de la Mort,
Ainsi qu’un nouveau-né, sans haine et sans remord.
 

(È una bella donna dalla ricca scollatura / che lascia la sua chioma fluire nel vino. / Gli artigli dell’amore, i veleni della bisca, / tutto scivola e si smorza al granito della sua pelle. / Ella ride della Morte e si beffa del Vizio, / questi mostri la cui mano, che sempre raschia e falcia, / pur nei suoi giochi distruttivi ha rispettato / la rude maestà di questo corpo sodo e dritto. / Incede come una dea, riposa come una sultana; / ha nel piacere la fede dei Maomettani, / e nelle sue braccia aperte, che i seni colmano, / richiama cogli occhi la razza degli umani. / Ella crede, ella sa, questa vergine infeconda, / eppure necessaria al cammino del mondo, / che la bellezza del corpo è un dono sublime / che ad ogni infamia strappa il perdono. / Ella ignora l’Inferno, così come il Purgatorio, / e quando verrà l’ora d’entrare nella nera Notte, / ella guarderà in faccia la Morte, / come un neonato, senza odio e senza rimorso.)  

 

[Al centro di questa poesia c’è una donna i cui vizi non hanno neppure scalfito la sua vivacità interiore e la sua bellezza. Né la natura, né la riprovazione morale hanno piegato la fierezza o alterato l’aspetto di questa persona “infeconda” (incapace di produrre qualcosa che si separi da lei stessa), eppure “necessaria al cammino del mondo”; necessaria perché ciascuno, proiettandosi in lei, può gustare “per procura” il piacere della depravazione impunita, della bellezza che tutto fa perdonare. Le vicende della sua vita (più precisamente, quanto della sua vita appare agli altri) costituiscono una “allegoria” di una forma d’esistenza cui ciascuno di noi è costretto a rinunciare: un modo d’essere in cui l’“onnipotenza” originaria non ha incontrato alcuna limitazione né nelle frustrazioni che suscitano odio, né negli scrupoli morali, e neppure nella morte, manifestazione estrema della precarietà e della vanità di tutte le cose.  Siccome costei si comporta (o dà a vedere di comportarsi), al posto degli altri, come fosse l’incarnazione del “puro Io-piacere”, gli altri possono accettare meno a malincuore di non farlo, ed il cammino del mondo può procedere.]

 
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115 – La Béatrice – Pag. 218, 220
 
Dans des terrains cendreux, calcinés, sans verdure
Comme je me plaignais un jour à la nature,
Et que de ma pensée, en vaguant au hasard,
J’aiguisais lentement sur mon cœur le poignard,
Je vis en plein midi descendre sur ma tête
Un nuage funèbre et gros d’une tempête,
Qui portait un troupeau de démons vicieux,
Semblables à des nains cruels et curieux.
A me considérer froidement ils se mirent,
Et, comme des passants sur un fou qu’ils admirent,
En échangeant maint signe et maint clignement d’yeux :
 
« Contemplons à loisir cette caricature
Et cette ombre d’Hamlet imitant sa posture,
Le regard indécis et les cheveux au vent.
N’est-ce pas grand’pitié de voir ce bon vivant,
Ce gueux, cet histrion en vacances, ce drôle,
Parce qu’il sait jouer artistement son rôle,
Vouloir intéresser au chant de ses douleurs
Les aigles, les grillons, les ruisseaux et les fleurs,
Et même à nous, auteurs de ces vieilles rubriques,
Réciter en hurlant ses tirades publiques ? » 
 
J’aurais pu (mon orgueil aussi haut que les monts
Domine la nuée et le cri des démons)
Détourner simplement ma tête souveraine,
Si je n’eusse pas vu parmi leur troupe obscène,
Crime qui n’a pas fait chanceler le soleil !
La reine de mon cœur au regard nonpareil,
Qui riait avec eux de ma sombre détresse
Et leur versait parfois quelque sale caresse.
 

(In terreni di cenere, calcinati, brulli, / un giorno, mentre mi lagnavo con la natura, / e vagando senza meta, del mio pensiero / affilavo lentamente il pugnale sul cuore, / vidi, in pieno mezzogiorno, discendermi sulla testa / una nube funebre e gravida di tempesta, / carica di un branco di demoni viziosi, / simili a nani crudeli e curiosi. / Si misero a guardarmi freddamente / e, come fanno i passanti con un pazzo di cui si stupiscono, / li sentii ridere e bisbigliare tra loro, / scambiandosi segni e ammiccando. // “Guardiamola a nostro piacere questa caricatura / quest’ombra di Amleto di cui imita l’atteggiamento, / lo sguardo incerto ed i capelli al vento. / Non fa pena vedere questo bellimbusto, / questo pezzente, quest’attorucolo disoccupato, questo buffone, / che, poiché sa sostenere il suo ruolo in modo artistico, / pretende d’interessare, al canto dei suoi dolori, / le aquile e i grilli, i ruscelli ed i fiori, / e persino a noi, autori di queste vecchie storie, / vuol declamare urlando le sue tirate pubbliche?” // Avrei potuto (il mio orgoglio alto come i monti / domina la nube e il grido dei demoni) / distogliere semplicemente il mio sguardo, / se non avessi visto, in mezzo a quella turba oscena, / - crimine che non ha fatto vacillare il sole - / la regina del mio cuore, dallo sguardo incomparabile, / che rideva con loro del mio cupo sconforto / e che offriva loro qualche sporca carezza.)

 

[Il contatto con una Madre Natura arida e ostile risveglia, nel Poeta, una fantasia in cui s’esprime una parte del suo mondo interno: una folla di “demoni viziosi” simili a nani curiosi (intrusivi) e crudeli, lo assale con cinico accanimento schernendolo, svilendo le sue qualità d’artista, deridendo il suo “cupo sconforto”. Si tratta di quegli aspetti del mondo primitivo che, in quanto persecutori, vengono isolati, frammentati e scissi dall’esperienza di una madre amorevole, comprensiva, capace di capire e valorizzare le qualità del figlio. Uno psicotico verrebbe travolto da questi nemici interni, che si manifesterebbero sotto forma di allucinazioni uditive a carattere ingiurioso. Una persona più sana, dotata di una fierezza di sé che si oppone a simili umiliazioni, potrebbe volgere altrove il suo sguardo, ignorare questi aspetti disturbanti del mondo interno. Il Poeta sceglie una terza via. Il suo attaccamento all’antico oggetto d’amore, non meno forte del suo orgoglio, gl’impedisce di distogliere l’attenzione dalla sua vita interiore. Dante risolse il conflitto ritrovando l’oggetto arcaico nella sua forma più idealizzata e incorrotta: Beatrice, che, attraverso un’esperienza purificatrice, lo (ri)conduce a Dio. –  il Poeta vi allude nel titolo della poesia – Baudelaire, che in tale esperienza purificatrice non crede (o che non si sente in grado di attraversare) riafferma il suo amore antico, anche se colei che ne è l’oggetto è alleata coi suoi nemici, rientra tra i suoi nemici.]

 
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116 – Un voyage à Cythère – Pag. 220, 222, 224
 
Mon cœur, comme un oiseau, voltigeait tout joyeux
Er planait librement à l’entour des cordages ;
Le navire roulait sous un ciel sans nuages,
Comme un ange enivré d’un soleil radieux.
 
Quelle est cette île triste et noire ? – C’est Cythère,
Nous dit-on, un pays fameux dans les chansons
Eldorado banal de tous les vieux garçons.
Regardez, après tout, c’est une pauvre terre.
 
     Ile des doux secrets et des fêtes du cœur !
De l’antique Vénus le superbe fantôme
Au-dessus de tes mers plane comme un arome,
Et charge les esprits d’amour et de langueur.
 
Belle ile au myrtes verts, pleine de fleurs écloses,
Vénérée à jamais par toute nation,
Où les soupirs des cœurs en adoration
Roulent comme l’encens sur un jardin de roses
 
Ou le roucoulement éternel d’un ramier !
Cythère n’était plus qu’un terrain des plus maigres,
Un désert rocailleux troublé par des cris aigres.
J’entrevoyais pourtant un objet singulier !
 
Mais voila qu’en rasant la côte d’assez près
Pour troubler les oiseaux avec nos voiles blanches,
Nous vîmes que c’était un gibet à trois branches
Du ciel se détachant en noir, comme un cyprès.
 
De féroces oiseaux perchés sur leur pâture
Détruisaient avec rage un pendu, déjà mûr,
Chacun plantant, comme un outil, son bec impur
Dans tous les coins saignants de cette pourriture ;
 
Les yeux étaient deux trous, et du ventre effondré
Les intestins pesants lui coulaient sur les cuisses,
Et ses bourreaux, gorgés de hideuses délices,
L’avaient à coups de bec absolument châtré.
 
Sous les pieds, un troupeau de jaloux quadrupèdes,
Le museau relevé, tournoyait et rôdait ;
Une plus grande bête au milieu s’agitait
Comme un exécuteur entouré de ses aides.
 
Habitant de Cythère, enfant d’un ciel si beau,
Silencieusement tu souffrais ces insultes
En expiation de tes infâmes cultes
Et des péchés qui t’ont interdit le tombeau.
 
Ridicule pendu, tes douleurs sont les miennes !
Je sentis, à l’aspect de tes membres flottants,
Comme un vomissement, remonter vers mes dents
Le long fleuve de fiel des douleurs anciennes ;
 
Devant toi, pauvre diable au souvenir si cher,
J’ai senti tous les becs et toutes les mâchoires
Des corbeaux lancinants et des panthères noires
Qui jadis aimaient tant à triturer ma chair.
 
Le ciel était charmant, la mer était unie ;
Pour moi tout était noir et sanglant désormais,
Hélas ! et j’avais, comme un suaire épais,
Le cœur enseveli dans cette allégorie.
 
Dans ton île, ô Vénus ! je n’ai trouvé debout
Qu’un gibet symbolique où pendait mon image…

  • Ah ! Seigneur ! donnez-moi la force et le courage

De contempler mon cœur et mon corps sans dégoût !
 

(Il mio cuore, come un uccello, volteggiava gioioso / e planava liberamente attorno al cordame; / il battello procedeva sotto un cielo senza nuvole, / come un angelo inebriato da un sole radioso. // Che isola è mai quella, così triste e nera? – È Citera, / qualcuno ci dice, un paese famoso nelle canzoni, / banale Eldorado dei nostri vecchi giovanotti, / ma guardatela dappresso: è una ben povera terra. // Isola dei dolci segreti e delle feste del cuore! / Il fantasma superbo dell’antica Venere / si libra al di sopra dei tuoi mari come un aroma, / e riempie gli spiriti d’amore e di languore. // Bella isola dai verdi mirti, piena di fiori sbocciati, / venerata in eterno da ogni nazione, / dove i sospiri dei cuori adoranti / corrono come l’incenso su di un giardino di rose // o come il tubare infinito di un colombo! / Citera non era che un magro terreno, / un deserto sassoso turbato da stridule grida. / Tuttavia intravvedevo un oggetto singolare! // Non era un tempio dalle ombre silvestri, / dove la giovane sacerdotessa, amante dei fiori, / andava, il corpo bruciato da segreti ardori, / socchiudendo la sua veste alle brezze fuggitive; // ma ecco che, rasentando la costa da vicino / così da turbare gli uccelli con le nostre vele bianche, / ci apparve una forca a tre bracci / che si stagliava nel cielo, nera come un cipresso. // Feroci uccelli appollaiati sulla loro pastura / distruggevano con rabbia un impiccato, già logoro, / ciascuno piantando, come un attrezzo, il becco impuro / in tutti gli angoli sanguinanti di quel marciume; // gli occhi erano due buchi, e dal ventre sfondato / i pesanti intestini gli colavano sulle cosce, / e i suoi carnefici, ingozzatisi di orribili delizie, / l’avevano, a colpi di becco, completamente castrato. // Sotto i piedi, un branco d’invidiosi quadrupedi, / il muso alzato, volteggiava e s’aggirava; / una bestia più grande in mezzo s’agitava / come un boia circondato dai suoi aiutanti. // Abitante di Citera, figlio di un cielo così bello, / in silenzio sopportavi tutti questi oltraggi / in espiazione dei tuoi infami culti / e dei peccati che t’anno negato una tomba. // Ridicolo impiccato, i tuoi dolori sono anche i miei! / Alla vista delle tue membra oscillanti, sentivo, / come un vomito, risalire ai miei denti / il lungo fiume di fiele degli antichi dolori; // davanti a te, povero diavolo così caro al ricordo, / ho sentito tutti i becchi e tutte le mascelle / dei corvi lancinanti e delle pantere nere / che un tempo amavano triturare la mia carne. // Il cielo era incantevole, il mare calmo; / ma per me tutto, ormai, era tenebre e sangue, / ahimè! E, come in un pesante sudario, avevo / il cuore sepolto in questa allegoria. // Nella tua isola, o Venere, non ho trovato, ancora in piedi / che una forca simbolica da cui pendeva la mia immagine… / Ah! Signore! Dammi la forza e il coraggio / di contemplare senza disgusto il mio cuore e il mio corpo!)    

 

[Contrasto tra il valore evocativo di Citera, l’isola di Venere, e la sua miserabile realtà attuale. Citera evoca l’amore, ossia l’origine della vita e la forza che con la vita dovrebbe riconciliarci. Il Poeta, al contrario, trova soltanto un luogo squallido, sterile; e, in più, lo spettacolo orribile di un impiccato divorato da uccelli rapaci e da belve. In tutto ciò, egli vede una metafora della sua stessa esistenza: da un lato, la dimensione grandiosa, sublime (l’amore che diede inizio alla vita e che ispirò la sua poesia), d’altro lato, le miserie che affliggono il suo corpo e la sua anima: tutto ciò a cui la vita sembra essersi ridotta, anche in conseguenza della corruzione prodotta dalle colpe. Egli si chiede dove possa trovare la forza e il coraggio di contemplare tutte queste miserie senza provare disgusto e, per questo, invoca il Signore; tuttavia, è anche la sua stessa poesia che gli offre una risposta.]

 
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117 – L’Amour et le crâne – Pag. 224, 226
 
Vieux cul-de-lampe
 
L’Amour est assis sur le crâne
De l’Humanité
Et sur ce trône le profane,
Au rire effronté,
 
Souffle gaiement des bulles rondes
Qui montent dans l’air,
Comme pur rejoindre les mondes
Au fond de l’éther.
 
Le globe lumineux et frêle
Prend un grand essor,
Crève et crache son âme grêle
Comme un songe d’or.
 
J’entend le crâne à chaque bulle
Prier et gémir :
« Ce jeu féroce et ridicule,
Quand doit-il finir ?
 
Car ce que ta bouche cruelle
Eparpille en l’air,
Monstre assassin, c’est ma cervelle,
Mon sang et ma chair ! »
 

(L’Amore sta assiso sul cranio / dell’Umanità, / e da quel trono profano, / col riso sfrontato, // soffia gaio delle bolle rotonde / che s’innalzano nell’aria, / come per raggiungere i mondi / al fondo dell’etere. // Il globo luminoso e fragile / prende un grande slancio, / scoppia e suta la sua anima gracile / come un sogno d’oro. // Sento il cranio, ad ogni bolla, / pregare e gemere: / “Questo gioco feroce e ridicolo / quando deve finire? // Perché quel che la tua bocca crudele / sparpaglia nell’aria, / mostro assassino, è il mio cervello, / il mio sangue, la mia carne!”

 

[L’Amore, la forza che, più di ogni altra, ci lega alla vita, si rivela, ad ogni episodio, splendido e fragile come una bolla di sapone. C’illude con il suo aspetto luminoso e con il suo librarsi nell’aria, al di sopra delle cose terrene, come teso a raggiungere “i mondi delle profondità dell’etere”; ma poi, come una bolla di sapone, “scoppia”, si disintegra, restituendoci (“sputandoci”) soltanto il nucleo inconsistente della sua natura (la sua “anima”). È un’esperienza crudele e “ridicola”: l’illusione del “tutto” che si risolve in nulla, che ruba e consuma la vitalità del nostro corpo (ogni volta che muore, porta con sé una parte di noi), che ci conduce alla morte. Baudelaire, qui, ci parla del motivo di estremo sconforto per ogni essere umano: tutto ciò che amiamo nella nostra vita terrena sembra prometterci l’eternità, ma si rivela fatalmente precario e deludente. In questa poesia è particolarmente evidente il paradosso della grande Arte: riconosce fino in fondo (senza concedersi fughe nella fantasia) le realtà più crudeli e, fra esse, la più crudele di tutte: l’inevitabile fine dell’amore e della vita; tuttavia, nell’atto stesso in cui ce le illustra, ci offre l’esperienza della Bellezza: una realtà umana che non è precaria, perché può permanere per tutta l’esistenza e venire trasmessa a chi sopravvive; un’esperienza, quindi, che non può deludere.]

 
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 V Révolte
 
118 – Le reniement de Saint Pierre – Pag. 230, 232
 
Qu’est-ce que Dieu fait donc de ce flot d’anathèmes
Qui monte tous les jours vers ses chers Séraphins ?
Comme un tyran gorgé de viande et de vins,
Il s’endort au doux bruit de nos affreux blasphèmes.
 
Les sanglots des martyrs et des suppliciés
Sont une symphonie enivrante sans doute,
Puisque, malgré le sang que leur volupté coute,
Les cieux ne s’en sont point encore rassasiés !
 
Ah ! Jésus, souviens-toi du Jardin des Olives !
Dans ta simplicité tu priais à genoux
Celui qui dans son ciel riait au bruit des clous
Que d’ignobles bourreaux plantaient dans tes chairs vives.
 
Lorsque tu vis cracher sur ta divinité
La crapule du corps de garde et des cuisines,
Et lorsque tu sentis s’enfoncer les épines
Dans ton crâne où vivait l’immense Humanité ;
 
Quand de ton corps brisé la pesanteur horrible
Allongeait tes deux bras distendus, que ton sang
Et ta sueur coulaient de ton front pâlissant,
Quand tu fus devant tous posé comme une cible,
 
Rêvais-tu de ces jours si brillants et si beaux
Où tu vins pour remplir l’éternelle promesse,
Où tu foulais, monté sur une douce ânesse,
Des chemins tout jonchés de fleurs et de rameaux, 
 
Où, le cœur tout gonflé d’espoir et de vaillance
Tu fouettais tout ces vils marchands à tour de bras,
Où tu fus maitre enfin ? Le remords n’a-t-il pas
Pénétré dans ton flanc plus avant que ta lance ?
 
Certes, je sortirai, quant à moi, satisfait
D’un monde où l’action n’est pas la sœur du rêve ;
Puissé-je user du glaive et périr par le glaive !
Saint Pierre a renié Jésus… il a bien fait !
 

(Che se ne fa Dio di quel fiotto di bestemmie / che sale tutti i giorni verso i suoi cari Serafini? / Come un tiranno rimpinzato di carne e di vini / Egli s’addormenta al dolce rumore delle nostre terribili bestemmie. // I singhiozzi dei martiri e dei suppliziati / sono senza dubbio una sinfonia inebriante / poiché, malgrado il sangue che costa la loro voluttà, / i cieli non ne sono ancora sazi! // Ah! Gesù, ricordati dell’Orto degli Ulivi! / Nella tua ingenuità ti pregavi in ginocchio / colui che nel suo cielo rideva al rumore dei chiodi / che ignobili carnefici piantavano nella tua carne viva. // Quando vedesti sputare sulla tua divinità / la feccia del corpo di guardia e delle cucine, / e quando sentisti affondare le spine / nel tuo cranio in cui viveva l’immensa Umanità; / quando il peso orribile del tuo corpo spezzato / allungava le tue braccia distese, quando il tuo sangue / e il tuo sudore colavano dalla tua fronte che impallidiva, / quando tu fosti, davanti a tutti, posto come un bersaglio, // sognavi tu i giorni così luminosi e belli / in cui venisti ad adempiere l’eterna promessa, / in cui calcavi, in groppa ad una dolce asinella, / strade cosparse di fiori e rami, // il cui, il cuore gonfio di speranza e di coraggio, / fustigavi , con tutta la forza delle braccia, tutti quei vili mercanti / fosti infine padrone? Il rimorso non è / penetrato nel tuo fianco più a fondo della lancia? // Certo, quanto a me, uscirò volentieri / da un mondo in cui l’azione non è sorella del sogno; / possa io usare la spada e perire di spada! / San Pietro ha rinnegato Gesù… ha fatto bene!)

 

[Il Padre Eterno è qui descritto come cinico tiranno, capace soltanto di compiacersi dei sacrifici dei martiri in Suo nome, senza sentire il bisogno di premiarli, del tutto indifferente alle proteste e alle bestemmie: è un primitivo Dio pagano, che non ha nulla in comune con quello di cui parlava Gesù Cristo. Di questo “padre”, Baudelaire ci offre una descrizione che porta all’estremo ed ingigantisce le imperfezioni di ogni genitore terreno. Gesù è come un bambino ingenuo che sogna la possibilità della Redenzione, che s’illude che il proprio sacrificio possa salvare l’umanità. Ma il rumore dei chiodi piantati nella Sua carne provoca soltanto il riso beffardo e sadico del Padre. La conclusione del Poeta è che, in questa vita, il sogno insopprimibile di un mondo dominato da amore e fratellanza è irrealizzabile: l’essere umano riesce ad essere autenticamente “buono” solo in una condizione di completo appagamento dei suoi bisogni fondamentali ed in assenza di qualsiasi minaccia. Si tratta del recupero del “Paradiso perduto”, ossia della situazione originaria intravista da ciascuno di noi alle origini della vita: una situazione che non tornerà mai più. L’ideale di rapporti umani dominati dall’amore non può essere conciliato con le esigenze della vita pratica: l’azione non può essere “sorella del sogno”. Con gli irriducibili nemici (anche noi nemici di noi stessi), non c’è altra possibilità che ferire di spada, e perire di spada. Se S. Pietro, insieme a Gesù, ha disconosciuto anche la Sua promessa di un’impossibile Redenzione, egli “ha fatto bene”.]

 
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120 – Les litanies de Satan – Pag. 234, 236, 238
 
O toi, le plus savant et le plus beau des Anges
Dieu trahi par le sort et privé de louanges.
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
O prince de l’exil, à qui l’on a fait tort,
Et qui, vaincu, toujours te redresses plus fort,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
Toi qui sais tout, grand roi des choses souterraines,
Guérisseur familier des angoisses humaines,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
Toi qui, même aux lépreux, aux parias maudits,
Enseignes par l’amour le goût du Paradis,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
O toi qui de la Mort, ta vieille et forte amante,
Engendras l’Espérance, une folle charmante !
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
Toi qui fais au proscrit ce regard calme et haut
Qui damne tout un peuple autour d’un échafaud,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
Toi qui sais en quels coins des terres envieuses
Le Dieu jaloux cacha les pierres précieuses,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
……………………………………………………
 
Toi dont la large main cache les précipices
Au somnambule errant au bord des édifices,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
…………………………………………………..
 
Toi qui, pour consoler l’homme frêle qui souffre,
Nous appris à mêler le salpêtre et le soufre,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
………………………………………………….
 
Bâton des exilés, lampe des inventeurs,
Confesseur des pendus et des conspirateurs,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
Père adoptif de ceux qu’en sa noire colère
Du paradis terrestre a chassé Dieu le Père,
 
O Satan, prends pitié de ma longue misère !
 
                          Prière
Gloire et louange à toi, Satan, dans les hauteurs
Du Ciel, où tu régnas, et dans les profondeurs
De l’Enfer, où, vaincu, tu rêves en silence !
Fais que mon âme un jour, sous l’Arbre de Science,
Près de toi se repose. A l’heure où sur ton front
Comme un Temple nouveau ses rameaux s’épandront !
 

(Oh tu, che sei il più sapiente e il più bello degli Angeli, / Dio tradito dalla sorte, privato d’ogni lode // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // O Principe dell’esilio, cui è stato fatto torto, / e che, pur vinto, ti rialzi sempre più forte, // // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // Tu che sai tutto, grande re del sottosuolo, / guaritore abituale delle angosce umane, // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // O tu che, persino ai lebbrosi, ai paria maledetti / insegni, con l’amore, il gusto del Paradiso // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // Tu che dalla Morte, tua vecchia e forte amante, / generasti la Speranza, questa folle affascinante! // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // Tu che dai al proscritto quello sguardo calmo e altero / che danna tutto un popolo attorno ad un patibolo, // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // Tu che sai in quali angoli delle terre invidiose / Dio, geloso, ha nascosto le pietre preziose, // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // […] // Tu, la cui lunga mano nasconde i precipizi / al sonnambulo vagante ai bordi delle case, // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // […] // Tu che, per consolare l’uomo fragile che soffre, / c’insegnasti a mischiare il salnitro e lo zolfo, // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // […] // Sostegno degli esuli, lume degli inventori, / confessore degli impiccati e dei cospiratori, // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // Padre adottivo di coloro che con cupa collera / Dio Padre ha cacciato dal paradiso terrestre, // O Satana, abbi pietà del mio lungo penare! // – Preghiera: Gloria e lode a te, Satana, nel più alto / dei Cieli, dove tu regnasti, e nelle profondità / dell’Inferno dove tu, vinto, sogni in silenzio! / Fa’ che un giorno la mia anima, sotto l’Albero della Scienza, / riposi accanto a te, nell’ora in cui sulla tua fronte / i suoi rami si spanderanno, come un nuovo Tempio!)

 

[Satana, traditore-tradito ed esiliato da Dio, pur nella sua scelleratezza, ha mantenuto qualcosa dell’originario carattere angelico e divino, ed un atteggiamento a suo modo protettivo nei confronti del genere umano. Egli è “principe degli esiliati”, “padre adottivo” dei figli ripudiati: lebbrosi, paria, proscritti. Ad essi egli presta la sua potenza diabolica che consente loro di evitare il crollo completo, di affrontare a fronte alta il patibolo, di trarre dalle condizioni più sciagurate (persino dalla morte stessa) un motivo di speranza. Egli è fonte della temerarietà che, ad esempio, spinge il sonnambulo ad “ignorare i precipizi” (e, par di capire, ad evitare che i pericoli frenino le iniziative più ardite) e fonte della capacità di non arrendersi, di fronte agli ostacoli opposti dalla Natura, che consente all’inventore di trovare modi geniali per dominarla. Satana è un oggetto interno, prodotto dalla scissione dell’oggetto arcaico idealizzato, che condivide con il soggetto la sorte di esiliato e dannato (e che, perciò, ha volto nel suo opposto il carattere “buono” dell’oggetto arcaico), ma che conserva in parte l’onnipotenza originaria ed il carattere idealizzato; questo coinvolge, in modo perverso, la malvagità. A differenza dell’oggetto “buono”, ha mantenuto una sua solidarietà con il soggetto. Egli è l’estrema risorsa ed il protettore di chi è stato “dimenticato da Dio e dagli uomini” e che, per la sua reazione rabbiosa, non suscita alcuna pietà. Perciò, queste “litanie” rivolte a Satana, al di là del loro carattere volutamente blasfemo, rappresentano l’unico tipo di “preghiera” possibile per chi è stato abbandonato dai suoi simili, ed ha perso Dio.]

 
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 VI La mort
 
122 – La mort des pauvres – Pag. 242, 244
 
C’est la Mort qui console, hélas ! et qui fait vivre ;
C’est le but de la vie, et c’est le seul espoir
Qui, comme un élixir, nous monte et nous enivre,
Et nous donne le cœur de marcher jusqu’au soir ;
 
A travers la tempête, et la neige, et le givre,
C’est la clarté vibrante à notre horizon noir ;
C’est l’auberge fameuse inscrite sur le livre,
Où l’on pourra manger, et dormir, et s’asseoir ;
 
C’est un Ange qui tient dans ses doigts magnétiques
Le sommeil et le don des rêves extatiques,
Et qui refait le lit des gens pauvres et nus ;
 
C’est la gloire des Dieux, c’est le grenier mystique,
C’est la bourse du pauvre et sa patrie antique,
C’est le portique ouvert sur les Cieux inconnus !
 

(È la Morte che consola, ahimè, e che fa vivere; / è lo scopo della vita, e l’unica speranza / che, come un elisir, ci solleva e c’inebria, / e ci offre il coraggio d’arrivare a sera; // attraverso la tempesta, la neve e il gelo, / dà un vibrante chiarore al nostro nero orizzonte; / è la locanda famosa di cui parla il libro, / dove si potrà sedere, e mangiare, e dormire; è un Angelo che racchiude fra le sue dita che attirano / il sonno e il dono dei sogni estatici, / e che rifà il letto alla gente povera e nuda; // è la gloria degli Dei, il granaio mistico, / è la borsa del povero e la sua patria antica, / è il portico aperto sui Cieli sconosciuti!)

 

[Nelle persone prive di ogni altra speranza o forma di sollievo (i poveri all’estremo, i malati terminali, gli internati in un campo di sterminio, i gravi depressi) emerge chiaramente una realtà interiore che, benché nascosta, appartiene con ogni probabilità a tutti: l’idea e il sentimento della morte come consolazione estrema. In casi più fortunati, la vita offre altre forme di conforto e di motivi per vivere: gli agi materiali, il soddisfacimento delle ambizioni, il nostro avvicinarci alle mete ideali, l’amore, ecc. La morte rappresenta, oggettivamente, la fine irrevocabile di tutto questo. È, quindi, logico e realistico che, il più delle volte, si abbia paura di questa realtà oggettiva. D’altra parte, tutto ciò che ci concilia con la vita, per la maggioranza delle persone ha carattere precario, s’impoverisce col passare degli anni, finisce per esaurirsi. Resta solo la consolazione di un’idea delirante della morte che, di fatto, afferma la nostra immortalità: la fine della vita intesa come ritorno allo stato di quiete e beatitudine anteriore alla nascita. Le persone molto anziane negano con forza la possibilità di poter morire. C’è, tuttavia, motivo di pensare che tale negazione della realtà oggettiva serva a proteggere non solo dal terrore della fine, ma anche dall’idea inconscia allettante della morte come nuovo inizio. Come c’illustra l’esperienza di Primo Levi ad Auschwitz (e i versi di Baudelaire) l’idea che, a dispetto di tutte le sofferenze del presente, esiste pur sempre la possibilità (anzi, la certezza) della consolazione estrema della morte, spinge paradossalmente le persone che posseggono ancora risorse interiori residue a continuare a vivere.]  

 
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123 – La mort des artistes – Pag. 244
 
Combien faut-il de fois secouer mes grelots
Et baiser ton front bas, morne caricature ?
Pour piquer dans le but, de mystique nature,
Combien, ô mon carquois, perdre de javelots ?
 
Nous userons notre âme en de subtils complots,
Et nous démolirons mainte lourde armature
Avant de contempler la grande Créature
Dont l’infernal désir nous remplit de sanglots !
 
Il en est qui jamais n’ont connu leur idole,
Et ces sculpteurs damnés et marqués d’un affront,
Qui vont se martelant la poitrine et le front,
 
N’ont qu’un espoir, étrange et sombre Capitole !
C’est que la Mort, planant comme un soleil nouveau,
Fera s’épanouir les fleurs de leur cerveau !
 

(Quante volte dovrò scuotere i miei sonagli / e baciare la tua fronte bassa, cupa caricatura? / Per colpire il bersaglio di natura mistica, / quante frecce, o mia faretra, dovrò sprecare? // Logoreremo la nostra anima in sottili complotti, / e demoliremo più d’una pesante armatura, / prima di poter contemplare la grande Creatura / di cui l’infernale desiderio ci riempie di singhiozzi! // C’è chi non ha mai conosciuto il suo Idolo, / e quegli scultori dannati e segnati da un affronto, / che si danno di martello sul petto e sulla fronte, // non hanno che una speranza, strano e oscuro Campidoglio: / che la Morte, sospesa come un sole nuovo, / farà sbocciare i fiori dal loro cervello!)

 

[L’Artista, a differenza degli altri comuni mortali, non ha perso la speranza d’entrare in contatto con la dimensione grandiosa originaria della sua vita. Con la sua opera, egli la ricostruisce, spesso dopo un lungo travaglio, facendone un oggetto di venerazione, il suo “idolo”. Rispetto a lui (e rispetto alla persona comune, che vive immersa nella realtà prosaica della vita, senza più sogni), particolarmente infelice è il mancato artista: colui che, avendone intuito la possibile esistenza, cerca disperatamente, e invano, di ricrearsi il suo “idolo”. Non si dà pace, maledice sé stesso per la sua incapacità. La sua unica speranza è che, sacrificando con la morte la sua esistenza individuale e limitata, il suo cervello in decomposizione, tornando a fondersi con Madre Natura, possa finalmente diventare fecondo, e produrre Bellezza.]  

 
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124 – La fin de la journée – Pag. 244, 246
 
Sous une lumière blafarde
Court, danse et se tord sans raison
La Vie, impudente et criarde.
Aussi, sitôt qu’à l’horizon
 
La nuit voluptueuse monte,
Apaisant tout, même la faim,
Effaçant tout, même la honte,
Le Poète se dit : « Enfin !
 
Mon esprit, comme mes vertèbres,
Invoque ardemment le repos ;
Le cœur plein de songes funèbres,
 
Je vais me coucher sur le dos
Et me rouler dans vos rideaux,
O rafraîchissantes ténèbres!»
 

(Sotto una luce livida / corre, danza e si torce senza ragione / la Vita, impudente e chiassosa. / Così, appena all’orizzonte // sale la notte voluttuosa, / placando tutto, anche la fame, / cancellando tutto, persino la vergogna, / il Poeta si dice: “Finalmente! // Il mio spirito, come le mie vertebre, / invoca ardentemente il riposo; / con il cuore pieno di sogni funebri // mi coricherò sulla schiena / e mi avvolgerò nei vostri tendaggi, / o tenebre che mi date refrigerio!”)  

 

[La fine della giornata è qui equiparata alla fine della vita. La morte è vista come sonno ristoratore, come ritorno allo stato, anteriore alla nascita, di quiete, beatitudine, totale e pronto appagamento di ogni bisogno. Uno stato capace di placare i disagi del corpo, come la fame, e quelli dell’anima, come la vergogna prodotta dall’urto con una realtà esterna, ostile ed umiliante.]

 
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125 – Le rêve d’un curieux – Pag. 246
 
Connais-tu, comme moi, la douleur savoureuse,
Et de toi fais-tu dire : « Oh ! l’homme singulier ! »
J’allais mourir. C’était dans mon âme amoureuse,
Désir mêlé d’horreur, un mal particulier ;
 
Angoisse et vif espoir, sans humeur factieuse.
Plus allait se vidant le fatal sablier,
Plus ma torture était âpre et délicieuse ;
Tout mon cœur s’arrachait au monde familier.
 
J’étais comme l’enfant avide du spectacle,
Haïssant le rideau comme on hait un obstacle…
Enfin la vérité froide se révéla :
 
J’étais mort sans surprise, et la terrible aurore
M’enveloppait. Eh quoi ! n’est-ce donc que cela ?
La toile était levée et j’attendais encore.
 

(Conosci tu, come me, il dolore gustoso, / e fai dire di te: “Che uomo singolare!” / Stavo per morire. Nella mia anima appassionata c’era, / desiderio mescolato ad orrore, un mio particolare male; // angoscia e viva speranza, senza alcun umore fazioso. / Più la fatale clessidra andava vuotandosi, / più la mia tortura si faceva aspra e deliziosa; / tutto il mio cuore si strappava dal mondo familiare. // Ero come il bambino, avido di spettacoli / che odia il sipario come si odia un ostacolo… / Infine si rivelò la fredda verità: // Ero morto, senza nulla di sorprendente, e la terribile aurora / m’avvolgeva. – E dunque, è tutto qui? / Il sipario s’era alzato, e io aspettavo ancora.)  

 

[La fine della speranza coincide con la morte; si può capovolgere il detto “finché c’è vita, c’è speranza” in “finché c’è speranza c’è vita”. La speranza è l’anima della vita: è la promessa di un recupero del “paradiso perduto” che ci consente di sopportare la nostra esistenza materiale e di renderla vivibile. Essa fa diventare persino l’avvicinarsi della morte un’occasione in cui s’intravede tale recupero. Si crea, così, un paradosso: l’angoscia di dissolversi nel nulla si fonde con l’aspirazione a ricongiungersi al “tutto”, a superare gli angusti limiti della nostra esistenza individuale. Ne risultano quel “desiderio mescolato ad orrore”, quella “tortura aspra e deliziosa” che si spengono solo con la definitiva disillusione. E questa è la vera morte.]

 
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126 – Le voyage
 
I – Pag. 248
 
Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes,
L’univers est égal à son vaste appétit.
Ah ! que le monde est grand à la clarté des lampes !
Aux yeux du souvenir que le monde est petit !
 
Un matin nous partons, le cerveau plein de flamme,
Le cœur gros de rancune et de désirs amers,
Et nous allons, suivant le rythme de la lame,
Berçant notre infini sur le fini des mers ;
 
Les uns, joyeux de fuir une patrie infâme ;
D’autres, l’horreur de leurs berceaux, et quelques-uns,
Astrologues noyés dans les yeux d’une femme,
La Circé tyrannique aux dangereux parfums.
 
Pur n’être pas changés en bêtes, ils s’enivrent
D’espace et de lumière et de cieux embrasés ;
La glace qui les mord, les soleils qui les cuivrent,
Effacent lentement la marque des baisers.
 
Mais les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent
Pour partir ; cœurs légers, semblables aux ballons,
De leur fatalité jamais ils ne s’écartent,
Et, sans savoir pourquoi, disent toujours : Allons !
 
Ceux-là dont les désirs ont la forme des nues,
Et qui rêvent, ainsi qu’un conscrit le canon,
De vastes voluptés, changeantes, inconnues,
Et dont l’esprit humain n’a jamais su le nom !
 

(Per il bambino, innamorato di mappe e stampe, / l’universo è grande come la sua vasta brama, / Ah! Come è grande il mondo alla luce della lampada! / Agli occhi del ricordo il mondo com’è piccolo! // Un mattino partiamo, il cervello in fiamme, / il cuore gonfio di rancore e di amari desideri, / e andiamo, seguendo il ritmo delle onde, / cullando il nostro infinito sul finito dei mari: // gli uni lieti di fuggire una patria infame; / gli altri l’orrore delle loro culle, e alcuni, / astrologi perduti negli occhi di una donna, / la Circe tirannica dai pericolosi profumi. // Per non essere mutati in bestie, s’inebriano / di spazio, e di luce, e di cieli infuocati; / il gelo che li morde, i soli che li bruciano, / cancellano lentamente il segno dei baci. // Ma i veri viaggiatori sono solo quelli che partono / per partire; cuori leggeri, simili a palloncini, / dal loro destino mai s’allontanano, / e senza sapere perché, dicono sempre: andiamo! // Coloro i cui desideri hanno forma di nubi, / e sognano, come il coscritto il cannone, / grandi voluttà cangianti, sconosciute, / di cui mai lo spirito umano ha conosciuto il nome!)

 

[Il viaggiare, l’allontanarsi dalla Madre Patria ripropone, sul piano simbolico, quel percorso che ci allontanò dal primo oggetto d’amore e di dipendenza della nostra vita, e che ci portò ad acquisire un’esistenza individuale autonoma. La volontà di scoprire nuovi luoghi nasce dal desiderio e dalla paura. Il desiderio è tanto intenso, quanto grandioso è il suo oggetto: è quello di (ri)entrare in contatto con l’universo, con il “tutto”. Man mano che il viaggio procede, si scopre che il mondo è molto più “piccolo” di come lo si era immaginato vedendolo sulle mappe. Tuttavia questo sogno grandioso persiste, ed è ciò che spinge a raggiungere altri luoghi. Si tratta della speranza di ritrovare quell’esperienza sublime che solo il neonato può vivere, e che l’opinione adulta, considerandola dall’esterno, banalizza: il ventre materno e poi l’abbraccio materno vissuti (come direbbe Amleto) come un “essere racchiuso in un guscio di noce, e sentirsi signore dell’Universo”. È anche una paura ciò che spinge alcuni ad inseguire un sogno ed a lasciare la madre nella sua realtà concreta. Si tratta del timore che un difetto, oppure un eccesso di cure materne possano guastare irrimediabilmente l’esperienza originaria di grandiosità e beatitudine; e, dato che la mamma è un essere umano imperfetto, come tutti, tale difetto e/o eccesso sono inevitabili. Se la madre (o la madre simbolica: la patria) è frustrante, se lo priva prematuramente delle proprie cure, da essere sublime essa diviene “infame”: per la vita affettiva infantile non esiste via di mezzo. L’individuo, perciò, cercherà luoghi più accoglienti. Se, viceversa, la genitrice (o una donna, quale sostituto materno) trattiene troppo a lungo il suo piccolo sul suo grembo, o nella culla, o nell’alcova, soddisfacendo in misura eccessiva e troppo sollecita i bisogni corporei del figlio/amante, ella diviene una “Circe” tirannica, che impedisce al bambino d’allontanarsi da una dimensione animalesca, e di crescere come essere umano. Il viaggio, in questo caso, ha il compito di temprare, di far entrare in contatto con quanto d’inospitale esiste in natura (il gelo, il sole cocente), cui l’individuo può contrapporre una sua risposta autonoma, allo scopo di cancellare l’effetto di “baci” troppo dolci e snervanti. Accanto a questi, esistono altri viaggiatori, quelli più autentici, per i quali il partire sembrerebbe uno scopo fine a sé stesso. Si tratta di coloro i cui desideri, intensi e tenaci, non riescono mai a precisarsi né a soddisfarsi. Sono individui destinati a perseguire instancabilmente una voluttà “senza nome”: un piacere, intravisto in un’epoca remota, che la coscienza non è mai riuscita a definire, e la cui ricerca in qualche parte del mondo è lo scopo della vita.]

 
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II – Pag. 248, 250
 
Nous imitons, horreur ! la toupie et la boule
Dans leur valse et leurs bonds ; même dans nos sommeils
La Curiosité nous tourmente et nous roule,
Comme un Ange cruel qui fouette des soleils.
 
Singulière fortune, où le but se déplace,
Et, n’étant nulle part, peut être n’importe où !
Où l’Homme, dont jamais l’espérance n’est lasse,
Pour trouver le repos court toujours comme un fou !
 
Notre âme est un trois-mâts cherchant son Icarie ;
Une voix retentit sur le pont : « Ouvre l’œil ! »
Une voix de la hune, ardente et folle crie :
« Amour… gloire… bonheur ! » Enfer, c’est un écueil !
 
Chaque îlot signalé par l’homme de vigie
Est un Eldorado promis par le Destin ;
L’Imagination qui dresse son orgie
Ne trouve qu’un récif aux clartés du matin.
 
O le pauvre amoureux des pays chimériques !
Faut-il le mettre aux fers, le jeter à la mer,
Ce matelot ivrogne, inventeur d’Amériques,
Dont le mirage rend le gouffre plus amer ?
 
Tel le vieux vagabond, piétinant dans la boue,
Rêve, le nez en l’air, de brillants paradis ;
Son œil ensorcelé découvre une Capoue
Partout où la chandelle illumine un taudis.
 

(Noi imitiamo – orrore! – la trottola e la palla / nei loro valzer e nei loro rimbalzi; persino nel sonno / la Curiosità ci tormenta e ci fa girare / come un Angelo crudele che frusta i soli. // Singolare sorte in cui la meta cambia continuamente posto, / e non trovandosi da nessuna parte, può trovarsi dovunque! / In cui l’Uomo, la cui speranza non è mai stanca, / per trovare riposo corre sempre come un pazzo! // La nostra anima è un tre-alberi che cerca la sua Icaria; / una voce echeggia dal ponte: “Apri gli occhi!” / Una voce, ardente e folle, grida dalla coffa: / “Amore… gloria… felicità!” Dannazione, è uno scoglio! // Ogni isolotto segnalato dall’uomo di vedetta / è un Eldorado promesso dal Destino; / ma l’Immaginazione, che già prepara la sua orgia / non trova che uno scoglio, alla luce del mattino. // O povero innamorato dei paesi di fiaba! / Bisogna mettere ai ferri e gettare in mare / questo marinaio ubriaco, inventore di Americhe, / il cui miraggio rende gli abissi più amari? // Così il vecchio vagabondo, che avanza lentamente nel fango, / sogna, naso in aria, luminosi paradisi; / il suo occhio ammaliato scopre una Capua / dovunque una candela illumini un tugurio.)

 

[Nella poesia precedente il Poeta, riguardo a ciò che spinge a viaggiare, pone l’accento sulla disillusione procurata dalla “terra madre”; qui, invece, si parla di un’inestinguibile illusione: quella di trovare “l’Eldorado promesso dal Destino” (la promessa narcisistica di ritrovare la beatitudine originaria); oppure di trovare, al proprio viaggio, una meta meno fortunata ma altrettanto grandiosa: Icaria, l’isola dove il figlio di Dedalo pose fine alla sua impresa temeraria; oppure Capua, la città fondata dall’esule, compagno di Enea, dove egli poté ricostruire la sua patria. Il rapido succedersi di illusioni e disillusioni provoca repentini e continui cambiamenti di meta: l’individuo si comporta come una trottola impazzita che vorrebbe andare in ogni luogo, e finisce per non andare da nessuna parte. Lo scopo illusorio che spinge a muoversi (nella vita come nel viaggio) è, oltre al recupero di una condizione di beatitudine, anche di una di quiete: nella fantasia, essendo stata raggiunta la meta, l’individuo può finalmente trovare riposo. Ciò crea un paradosso: l’individuo, animato da una speranza instancabile, passa freneticamente da una disillusione a una nuova illusione; tuttavia, lo scopo di tale moto frenetico è l’immobilità del riposo. Scopo che viene raggiunto solo con la fine della vita: lo “eureka!” pronunciato, al momento della morte, dal protagonista de “La ricerca dell’assoluto”.

 
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III – Pag. 250
 
Etonnant voyageurs ! quelles nobles histoires
Nous lisons dans vos yeux profonds comme les mers !
Montrez-nous les écrins de vos riches mémoires,
Ces bijoux merveilleux, faits d’astres et d’éthers.
 
Nous voulons voyager sans vapeur et sans voile !
Faites, pour égayer l’ennui de nos prisons,
Passer sur nos esprits, tendus comme une toile,
Vos souvenirs avec leurs cadres d’horizons.
 
Dites, qu’avez-vous vu ?
 

(Straordinari viaggiatori, quali nobili storie / leggiamo nei vostri occhi, profondi come i mari! / mostrateci gli scrigni delle vostre ricche memorie, / i gioielli meravigliosi, fatti d’astri e di etere. // Vogliamo viaggiare senza vapore e senza vela! / Per rallegrare il tedio delle nostre prigioni, fate / passare sui nostri spiriti, tesi come una tela, / i vostri ricordi con le loro cornici di orizzonti. // Diteci, che avete visto?)

 

[L’appassionato ed esperto di viaggi può soddisfare una necessità comune a tutti gli esseri umani e particolarmente intensa in quelli di età infantile o giovanile: quella di compiere percorsi interiori (senza vapore né vela) che, sul modello della narrazione del viaggiatore, riportino a quella “età dell’oro” dell’esistenza individuale, fatta di “astri ed eteri” preziosi come gioielli. Ciò rappresenta, per l’essere umano, il modo principale per evadere dalla prigione della vita adulta, fatta di noia e di tensione continua, e rientrare in contatto con la parte più grandiosa, intima, ed autentica di sé.]

 
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IV – Pag. 252
 
          « Nous avons vu des astres
Et des flots ; nous avons vu des sables aussi ;
Et, malgré bien des chocs et d’imprévus désastres,
Nous nous sommes souvent ennuyés, comme ici.
 
La gloire du soleil sur la mer violette,
La gloire des cités dans le soleil couchant,
Allumaient dans nos cœurs une ardeur inquiète
De plonger dans un ciel au reflet alléchant. 
 
Les plus riches cités, les plus grands paysages,
Jamais ne contenaient l’attrait mystérieux
De ceux que le hasard fait avec les nuages,
Et toujours le désir nous rendait soucieux !
 
La jouissance ajoute au désir de la force.
Désir, vieil arbre à qui le plaisir sert d’engrais,
Cependant que grossit e durcit ton écorce,
Tes branches veulent voir le soleil de plus près !
 
Grandiras-tu toujours, grand arbre plus vivace
Que le cyprès ? Pourtant nous avons, avec soin,
Cueilli quelques croquis pour votre album vorace,
Frères qui trouvez beau tout ce qui vient de loin !
 
Nous avons salué des idoles à trompe ;
Des trônes constellés de joyaux lumineux ;
Des palais ouvragés dont la féerique pompe
Serait pour vos banquiers un rêve ruineux ;
 
Des costumes qui sont pour les yeux une ivresse ;
Des femmes dont les dents et les ongles sont teints,
Et des jongleurs savants que le serpent caresse »
 

(… “Abbiamo visto astri / e flutti; abbiamo visto sabbie, pure; / e, malgrado tanti traumi e improvvisi disastri, / ci siamo spesso annoiati, come qui. // La gloria del sole sopra il mare violetto, / la gloria delle città nel sole al tramonto, / accendevano nei nostri cuori un inquieto ardore / ci spingevano a tuffarci in un cielo dai riflessi allettanti. // Le più ricche città, i più vasti paesaggi, / non possedevano mai l’attrattiva misteriosa / di ciò che il caso ricava dalle nuvole, / e sempre il desiderio ci rendeva angustiati! // Il godimento aggiunge forza al desiderio. / Desiderio, vecchio albero cui il piacere serve da concime, / mentre la tua scorza ingrossa e indurisce, / i tuoi rami vogliono vedere il sole più da vicino! // Crescerai sempre, grande albero più vitale / del cipresso? Tuttavia abbiamo, con cura, / colto alcuni schizzi per il vostro album vorace, / fratelli che trovate bello tutto quel che viene da lontano! // Abbiamo salutato idoli con la proboscide; / troni costellati di gioielli lucenti; / palazzi lavorati minuziosamente la cui pompa fiabesca / sarebbe, per i vostri banchieri, un sogno rovinoso; / costumi che sono per gli occhi un’ebrezza, / donne le cui unghie e i cui denti sono tinti, / e giocolieri sapienti che il serpente accarezza.”)

  
 

[La “attrattiva misteriosa” delle nuove scoperte è superata da quella delle immagini che la fantasia crea partendo dalle forme che le nuvole assumono casualmente. Ciò dimostra che le novità sono solo lo stimolo esterno ad un lavoro interiore: quello, costantemente presente, che consente di recuperare con l’immaginazione ciò che è perduto. Il desiderio dell’appassionato di viaggi è, in realtà, di trovare nel nuovo l’antico: la grandiosità e l’opulenza dell’età dell’oro della vita. Tale lavoro, frutto di un desiderio nostalgico, è sostenuto da esperienze di piacere: esse incoraggiano il desiderio in quanto offrono un’illusoria conferma che ciò che è perduto è recuperabile. Si crea, così, un paradosso: il piacere, anziché appagare il desiderio, lo alimenta. Il singolo piacere non sazia mai del tutto chi lo prova: esso allude all’impossibile recupero di una piena e perenne felicità, che coinvolgerebbe l’individuo in tutto il suo essere; felicità che, nella nostra vita, possiamo soltanto vivere fugacemente, o intravvedere.]

 
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V – Pag. 254
 
Et puis, et puis encore ?
 
(E poi, e poi ancora? …)
 
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VI – Pag. 254
 
… « O cerveaux enfantins !
 
Pour ne pas oublier la chose capitale,
Nous avons vu partout, et sans l’avoir cherché,
Du haut jusques en bas de l’échelle fatale,
Le spectacle ennuyeux de l’immortel péché :
 
La femme, esclave vile, orgueilleuse et stupide,
Sans rire s’adorant et s’aimant sans dégoût ;
L’homme, tyran goulu, paillard, dur et cupide,
Esclave de l’esclave et ruisseau dans l’égout ;
 
Le bourreau qui jouit, le martyr qui sanglote ;
La fête qu’assaisonne et parfume le sang ;
Le poison du pouvoir énervant le despote,
Et le peuple amoureux du fouet abrutissant ;
 
Plusieurs religions semblables à la nôtre,
Toutes escaladant le ciel ; la Sainteté,
Comme en un lit de plume un délicat se vautre,
Dans les clous et le crin cherchant la volupté ;
 
L’Humanité bavarde, ivre de son génie,
Et, folle maintenant comme elle était jadis,
Criant à Dieu, dans sa furibonde agonie :
‘O mon semblable, ô mon maître, je te maudis !’
 
Et les moins sots, hardis amants de la Démence,
Fuyant le grand troupeau parqué par le Destin,
Et se réfugiant dans l’opium immense !
Tel est du globe entier l’éternel bulletin.
 

(… “O cervelli infantili! // Per non dimenticare la cosa capitale, / abbiamo visto dovunque, e senza averlo cercato, / dall’alto fino al basso della scala fatale, / lo spettacolo tedioso dell’eterno peccato: // la donna, schiava vile, orgogliosa e stupida, / senza riderne, ama e adora sé stessa senza disgusto; / l’uomo, tiranno ingordo, dissoluto, duro e cupido, / schiavo della schiava e rigagnolo nella fogna; // il carnefice che gioisce, il martire che singhiozza; / la festa che insaporisce e profuma il sangue; / il veleno del potere che snerva il despota, / e il popolo amante dello scudiscio che l’abbrutisce; // tante religioni simili alla nostra, / che danno tutte la scalata al cielo; la Santità / che, come un individuo dai gusti delicati si sprofonda in un letto di piume, / cerca la voluttà fra i chiodi e il crine; // l’Umanità chiacchierona, ebbra del suo genio, / e folle ora come lo era un tempo, / che grida a Dio nella sua furibonda agonia: / ‘O mio simile, o mio maestro, ti maledico!’ // E i meno sciocchi, arditi amanti della Demenza, / che fuggono il grande gregge ammassato dal Destino, / e che si rifugiano nell’oppio senza fine! / Tale è l’eterno resoconto del mondo intero.”)

 

[Il viaggiatore, pur volendo scoprire in luoghi lontani soltanto un appagamento dei suoi segreti desideri, non può fare a meno di trovarvi anche il “peccato”: il vizio comune a tutti gli uomini, in ogni tempo e luogo. Si tratta del rapporto perverso tra uomo e donna, tra suddito e tiranno, tra credente e Dio, tra drogato e droga. Come in tutte le perversioni, la meta è il recupero onnipotente, tramite lo stravolgimento delle leggi della natura, di ciò che l’esame di realtà adulto ha decretato essere inaccessibile. Si tratta, tuttavia, di un recupero illusorio, e la condizione che viene a crearsi è degradata. Nel rapporto sado-masochistico tra uomo e donna, quest’ultima s’illude di trovare un appagamento narcisistico (l’essere voluta) in quella che, in realtà, è solo una condizione di schiavitù. Il suo uomo cerca di recuperare un assoluto dominio sull’oggetto d’amore; tuttavia, essendo la sua volontà dominata dall’ingordigia e dalla lascivia, egli finisce per diventare “schiavo della sua schiava” e completamente abbrutito. Analogo è il rapporto tra il despota sanguinario ed il popolo avvilito dalla frusta: il potere, sul tiranno, ha l’effetto “snervante” di un veleno, ossia esso assorbe tutte le energie dell’uomo e gl’impedisce di trarre, da rapporti empatici coi suoi simili, alimento alla propria vitalità interiore. Nel rapporto con Dio onnipotente, il popolo dei credenti s’illude di poter sconfiggere la morte, la maggiore nemica dell’orgoglio umano. Tuttavia l’essere umano, nell’ebbrezza della propria superiorità intellettuale, non si rende conto di cadere nella stupidità di chi crede di poter soddisfare, con Dio, istanze narcisistiche contraddittorie: la necessità di trovarvi un proprio simile in versione idealizzata, una guida ideale e, nello stesso tempo, qualcuno da maledire, attribuendogli la colpa delle proprie sconfitte. Tale stupidità è evitata dall’oppiomane, ma al prezzo di andare incontro al proprio annientamento.]

 
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VII – Pag. 256
 
Amer savoir, celui qu’on tire du voyage !
Le monde, monotone et petit, aujourd’hui
Hier, demain, toujours, nous fait voir notre image :
Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui !
 
……………………………………………………
 

(Amara conoscenza, quella che si trae dal viaggiare! / Il mondo, piccolo e monotono, oggi / come ieri, domani, sempre, ci mostra la nostra immagine: / un’oasi d’orrore in un deserto di noia!)

 
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VIII – Pag. 258
 
O Mort, vieux capitaine, il est temps ! levons l’ancre !
Ce pays nous ennuie, ô Mort ! Appareillons !
Si le ciel et la mer sont noirs comme de l’encre,
Nos cœurs que tu connais sont remplis de rayons !
 
Verse-nous ton poison pour qu’il nous réconforte !
Nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau,
Plonger au fond du gouffre, Enfer ou Ciel, qu’importe ?
Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau !
 

(O Morte, vecchio capitano, è tempo, leviamo l’ancora! / Questo paese co annoia, o Morte, salpiamo! / Se cielo e mare sono neri come inchiostro, / i nostri cuori, che tu conosci, sono colmi di raggi! // Versaci il tuo veleno, perché ci ristori! / Noi vogliamo, tanto il fuoco ci brucia il cervello, / immergerci nel fondo dell’abisso, Inferno o Cielo, che importa? / nelle profondità dell’Ignoto per trovarvi del nuovo!)

 

[Come il Poeta ha più volte ribadito, il desiderio segreto del viaggiatore è quello di trovare, in ciò che è più lontano nello spazio, ciò che è più lontano nel tempo: il paradiso perduto dell’inizio della vita. Tuttavia, l’esperienza del viaggio, prima o poi, porta ad un’amara conclusione: il mondo esterno non è altro che il riflesso di quello interno, in ciascuno di noi: “un’oasi d’orrore (di esperienza persecutoria, ossia di perdita minacciata o effettiva) in un deserto di noia (di assenza d’amore)”. Il segreto desiderio non può essere appagato; non resta che un’ultima tappa: il viaggio verso l’abisso dell’oltretomba. Resta ancora un’estrema illusione: quella di trovare, nella morte, quel “nuovo” che si è sempre cercato invano; un “nuovo” che, in realtà, è ciò che è più “vecchio” (nostalgia del “vecchio” quando per noi era ancora “nuovo”), vivo solo nei desideri inappagati, irrimediabilmente perduto.]

 
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VII Les Epaves
 
1 – Le coucher du soleil romantique – Pag. 262
 
Que le Soleil est beau quand tous frais il se lève,
Comme une explosion nous lançant son bonjour !
Bienheureux celui-là qui peut avec amour
Saluer son coucher plus glorieux qu’un rêve !
 
Je me souviens !... J’ai vu tout, fleur, source, sillon,
Se pâmer sous son œil comme un cœur qui palpite…
Courons vers l’horizon, il est tard, courons vite,
Pour attraper au moins un oblique rayon !
 
Mais je poursuis en vain le Dieu qui se retire ;
L’irrésistible Nuit établit son empire,
Noire, humide, funeste et pleine de frissons ;
 
Une odeur de tombeau dans les ténèbres nage,
Et mon pied peureux froisse, au bord du marécage,
Des crapauds imprévus et de froids limaçons.
 

(Com’è bello il Sole quando tutto fresco si leva, / e ci lancia il suo buongiorno come un’esplosione! / Beato colui che può con amore / salutare il suo tramonto più glorioso di un sogno! // Ricordo… Ho visto tutto, fiore, fonte, solco, / crogiolarsi sotto il suo occhio come un cuore palpitante… / Corriamo verso l’orizzonte, è tardi, corriamo veloci, / per afferrare almeno un raggio obliquo! // Ma io seguo invano il Dio che si ritira; / l’irresistibile Notte instaura il suo impero, / nera, umida, funesta e piena di brividi; // un odore di tomba fluttua nelle tenebre, / e il mio piede intimorito urta, ai bordi della palude, / rospi imprevisti e fredde lumache.)   

 

[La persona felice e capace di amare non si scoraggia di fronte alla precarietà delle cose: ama il sole, ne gode durante il giorno e, al tramonto, sa gustarne la luce e il calore fino alla sua scomparsa, fino all’ultimo raggio. Per il Poeta infelice ciò non è possibile: per lui già al tramonto incombe, senza che egli abbia la possibilità di resistervi, la notte fredda, mortifera, paurosa. In assenza dell’oggetto d’amore, non esiste alcun contatto con l’oggetto interno che lo illumini, lo riscaldi, e lo protegga da vissuti d’abbandono e d’annientamento.]

  
 
 

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