Recensione a "Cartesio, l’errore mai commesso" Saggio di Patrizia Crippa

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27 settembre, 2021 - 18:31
Autore: Patrizia Crippa
Editore: Nep edizioni
Anno: 2020
Pagine: 204
Costo: €15.20

Questo piccolo ma denso saggio di Patrizia Crippa svolge una serrata e puntuale critica di quella sorta di luogo comune che da secoli è ormai invalso nell’ambito dell’antropologia filosofica e, più di recente, in quello delle scienze psicologiche al punto da essere accreditato, anche dal pubblico più profano, quale certezza assodata, secondo la quale colui che è ritenuto il fondatore del razionalismo moderno – precisamente R. Descartes –  avrebbe decretato, con la sua canonica distinzione di res cogitans e res extensa, la scissione radicale e irreversibile fra anima (mente) e corpo, quasi ad edificare il manifesto fondativo di una stagione saliente del moderno spirito europeo, che avrebbe poi avuto anche significativi e ‘tragici’ riverberi letterari, ad es., nell’opera di Shakespeare (Amleto) e di Goethe  (Faust), fino a culminare in tempi più recenti, se si vuole, nell’opera di Ronald D. Laing, ben noto agli studiosi di psicologia e psichiatria esistenziale, con le sue giovanili riflessioni su L’io diviso. 

La prefazione di Luciana La Stella instrada il lettore circa il valore del pensiero e la sua articolata tessitura che rende visibile la realtà delle cose, attivandone la comprensione. 

Il volumetto, Cartesio: l’errore mai commesso, è diviso in tre parti: la prima di carattere prettamente filosofico, incentrata sull’analisi del cogito come effettivamente traspare dai testi cartesiani esaminati (principalmente Discorso sul metodo e Meditazioni metafisiche). 

La seconda parte tende a ravvisare nel cogito un concetto performativo, ossia tende a mostrare come la sua stessa espressione linguistica metta in atto ciò che enuncia nel mentre viene pronunciata.  

La terza, che fra le opere cartesiane valorizza principalmente Le passioni dell’anima, misura l’attualità delle teorizzazioni di Cartesio nei confronti delle acquisizioni espresse dalla biologia e dalla neurobiologia contemporanee, mostrando come il suo genio abbia in qualche modo anticipato con salienti intuizioni l’intrisione profonda di mente e corpo, addirittura già nella simbiosi gravidica, cioè nell’esistenza prenatale. 
 



 

 

 

La filosofia come invenzione del concetto 

 

Vediamo di seguirne la traccia argomentativa. Nel mio commento al testo mi farei ‘scortare’, come lettore, dai riferimenti a un grande estimatore ed interprete di Cartesio, quale fu G. G. F. Hegel e quindi dalla sua autorità. 

Nella prima parte della sua opera (cap. I) l’autrice esordisce sottolineando il valore creativo dell’attività filosofica al pari delle arti o se si vuole, aggiungerei come lettore, nella pienezza di quelle dimensioni spirituali che nella terza sezione della sua Enciclopedia delle scienze filosofiche Hegel designava col termine’ spirito assoluto’ in quanto sciolto dai vincoli della finitezza, anche da quella entro cui trova saliente esistenza e spessore etico la libertà umana - ossia dalle forme fenomeniche della vita di relazione, a partire dalla famiglia e oltre, nella società civile come ambito economico e infine nello stato come sostanza etico-politica autoconsapevole.  

La filosofia non può che generare concetti e questi non sono altro che il frutto e le implicazioni plurisecolari di quella avventurosa metànoia, cui già nella sua primissima infanzia i primi poeti-pensatori diedero l’abbrivio nelle colonie ioniche della Grecia, attraverso procedimenti sorretti unicamente da osservazioni rigorose e da operazioni che oggi noi chiameremmo “formali”, per cogliere l’Arché – ossia lo stoikeion-elementum comune a tutte le trasformazioni della physis, rinvenendo in esse la  sua costante presenza e via via spogliandola delle accattivanti movenze fisio-nomiche del mito: per risolverle, infine, in unità: in una nuova visione, radicalmente “disincantata” che, mentre interrompe e rimuove il diretto e ingenuo coinvolgimento dell’osservatore nell’incanto delle loro belle forme, accoglie l’ormai disilluso e pur sempre meravigliato osservatore entro un piano di totale immanenza: un piano, come dice l’autrice, “da cui non si esce, come una gigantesca onda che contiene onde multiple e i loro movimenti” (pag. 23), nel quale, per così dire,  explanans eexplanandum sono reciprocamente coinvolti: l’unità integrale dell’esperienza, senza doppi fondi. 

È notoriamente la nascita del Lògos. La filosofia non è, direbbe sempre Hegel, se non l’invenzione del concetto: non solo una creazione sporadica, una trovata estemporanea, ma continua ri-creazione, che non potrà esser mai una riesumazione antiquaria del già pensato e sua venerazione. Possiamo immaginarla come la necessaria e mobile scatola-degli-attrezzi che ogni filosofo (e ogni uomo pensante), calato nella sua epoca, riutilizza aggiornandola ogni volta, per comprendere l’esistenza e il suo problematico contesto manifestativo, e tuttavia sempre entro un orizzonte immanente che non lo desitui proiettandolo verso un oltre, verso un “un dativo” – dice l’autrice - che lo sovrasti producendo uno hiatus fra sé e quello stesso orizzonte: “lo iato della trascendenza”. 

Questa premessa, per così dire vestibolare, introduce per l’autrice la corretta identificazione del Cogito ergo sum operata dall’ex discepolo del prestigioso collegio di La Fléche. 

L’immediata evidenza del nesso fra le componenti del cogito ossia il nesso: dubitare-pensare-essere aggetta nell’autocomprensione dell’Io in forma concettuale attraverso una preliminare esperienza tutt’altro che spassionata, vissuta in prima persona: un’esperienza alla quale nessuno che intenda essere fino in fondo e in modo spregiudicato amante-del-sapere si può sottrarre. È l’esperienza come sorprendente “venire a sapere” in senso fenomenologico (hegeliano e non-) della propria irrinunciabile identità di soggetti: soggetti i quali dubitano su sensazioni diverse; in-tendono l’essere nelle sue diverse qualità e pertanto “pensano”. 

Ma pensare non significa solo collegare fra loro lunghe catene di ragionamenti, così care a Cartesio, in sequenza algoritmica; non si riduce a un arido inter-ligare, che è proprio del sapere matematico. Pensare è in primis intuire (intus-ire, intus-legere) e quindi con-tenere vissuti psichici di varia qualitàpercezioni immaginazioni, appetizioni ripulse, che il fondatore del razionalismo non sapeva designare se non col termine “idea” in quanto esse objectivumsenza poter attraversare una fenomenologia più accurata che potesse distinguere, come avviene oggigiorno, l’intelligenza emotiva da quella cognitiva: cosa che nel ‘600 era impensabile, almeno nelle forme che ci sono note. 

L’autrice lo sottolinea con una certa ironia, pur nella fretta di demolire la fallace immagine di Cartesio “antesignano della mente computazionale, l’arido magnificatore della fredda razionalità astratta contro il calore delle emozioni” (pag. 29) attraverso accurati riferimenti biografici al filosofo francese, alla sua quasi ossessiva riservatezza personale, al suo essere schivo e amante di una quieta serenità non priva, tuttavia, di comodità e curiosità, ben alieno dalle seduzioni di una vita mondana e dalla possibile fama, seguendo l’insegnamento degli antichi maestri epicurei. 

Valorizzando il concetto di immanenza interpretato da Deleuze come “pietra di paragone di ogni filosofia” (pag. 33), l’autrice sottolinea come l’io-penso cartesiano non sorga su una landa psichica desolata quale interiorità vuota, priva di desideri, aspettative ed emozioni, ma costituisca il loro terminus ad quem, di cui quei molteplici contenuti sono il vissuto pre-concettuale che l’individuo attraversa nella sua immediatezza, mentre si scopre via via sempre più come soggetto (sub-jectus) per giungere al concetto di Io come “campo di coscienza”: un’area che sorge nell’interiorità di ogni vivente pensante, entro cui solo è possibile il costituirsi dell’esperienza umana come tessitura simbolica: un campus interior nel quale, nella determinatezza dell’individuo come esser-ci, i possibili ‘visa’ non possono che darsi in ogni caso ‘cogitata’. La propria instabile e incerta autopercezione si ribalta, quindi, in autocoscienza, Io, ossia nel proscenio della soggetttività. 

Penso, di poter interpretare questo evento che l’autrice accredita come esperienza ricca di senso, irrinunciabile per chiunque voglia pensare veramente e fino in fondo, come una pietra miliare della stessa storia della filosofia: di essa il succitato Hegel riteneva esserne anche  un nuovo radicale inizio: una sorta di ri-cominciamento ab imis, configurato nel passaggio storico e ideale dei filosofi, dalla comprensione dell’Idea – da intendere in senso platonico e cartesianamente come esse formale – alla comprensione dello spirito.  

Si tratta di un rovesciamento che connota in modo specifico la forma mentis della modernità. Ha ben inteso questo rovesciamento un grande storico della filosofia qual è Ernst Cassirer, quando scrive:  

 

“L’uomo non si trova più direttamente di fronte alla realtà; per così dire egli non può più vederla faccia a faccia. La realtà fisica sembra retrocedere via via che l'attività simbolica dell'uomo avanza. Invece di avere a che fare con le cose stesse (corsivo mio), in un certo senso l'uomo è continuamente a colloquio con se medesimo. Si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di quest’artificiale mediazione” (E. Cassirer , 1971, Saggio sull’uomo, Roma, Armando, pag.80). 

 

Non siamo certamente noi a creare il mondo: ne facciamo parte come creature viventi, ma - ci piaccia o no – siamo condannati a costituirne il senso ed esserne responsabili. Quale che esso sia, un tal senso non può che darsi nella coscienza, dato che il mondo non può parlare da solo in prima persona, come pensava un ingenuo realismo, in sé rispettabilissimo, quello stesso che, sempre secondo Hegel, caratterizza la filosofia come comprensione dell’Idea e che sostanzia la filosofia classica e medievale per lo più fino alle sue ultime battute, prima della grande crisi della scolastica che avverrà col divorzio-fede-ragione.  

Un’ingenuità che lo spirito “moderno” non si può più permettere, essendo sprofondata nel solco che divide ormai la conoscenza del ‘certo’ da quella del ‘vero’. Un’identità, quella di certezza e verità, anticamente affermata dalla epistéme classica’, ma che appariva sempre più problematica con l’insorgere delle diverse crisi che segnano il passaggio della civiltà europea alla modernità: la certezza di non poter più cogliere le cause remote (forme sostanziali) del divenire naturale, ma solo le sue cause prossime (fenomeni), richiederà una comprensione diversa: quella dello spirito, che segnerà la nascita della ricostruzione (moderna) dell’episteme stessa secondo un nuovo paradigma epistemologico. 

 

Il comando assoluto in un enigma abbagliante 

 

Alla luce di queste premesse, allora, parlare di Cartesio come semplice fondatore del razionalismo moderno è alquanto riduttivo: sarà anche vero. Tuttavia si tratta di una verità parziale, certamente utile nella didattica della materia in ambito scolastico; mentre è ancora vero e, soprattutto è sentito come vero da coloro che nutrano una vigile sensibilità gnoseologica o epistemologica, che non siamo generalmente propensi a ritenere, nei più diversi campi della nostra esperienza individuale e comune, che sempre le cose siano realmente come appaiono 

Verso questo enunciato, se dotati di una formazione educativa che non sia una passiva inculturazione ma una consapevole acculturazione, oggi siamo per lo più portati ad assumere, anche tacitamente, una certa precauzione scettica: uno scetticismo di certo non sistematico, assoluto né misologico, che condurrebbe all’afasia intellettuale, ma certamente uno scetticismo metodologico, una scepsi “che instrada”, simile a quella che ci è stata trasmessa anticamente da Sant’Agostino e, nella modernità, proprio da Cartesio. 

In sostanza, per Hegel, Cartesio con la sua ostinata determinazione a volersi lasciare alle spalle i pur nobili  e preziosi insegnamenti ricevuti nel collegio di La Flèche, volendo mirare unicamente all’evidenza di ciò che consta, a cogliere, cioè, l’idea in quanto chiara e presente ad una mente che vi attende, esprime l’esigenza profondamente umana di chi vuole ritenersi, egli stesso, presente e ben desto in tutto ciò che gli viene proposto come degno di essere appreso e tale da arricchire la sua dotazione intellettuale.  

In questa pretesa risiede l’ipoteca ontologica della nostra stessa dignità umana come soggetti: la nostra dignità spirituale; e certamente Cartesio l’ha avvertita. Non per nulla, dirà Hegel nella sua Enciclopedia …  “la conoscenza dello spirito è la più concreta delle conoscenze, e perciò la più alta e difficile. Conosci te stesso, questo precetto assoluto (…) significa … la conoscenza di ciò che è la verità dell’uomo, della verità in sé e per sé, dell’essenza stessa in quanto spirito” (Hegel, Enciclopedia delle ….,(Bari, Laterza,1967, vol. II, pg. 348). 

 Si tratta di un enigma abbagliante, la cui chiarificazione non può essere elusa ma che ha il suo punto di partenza sempre in una mente individuale e quindi incarnata in un corpo. Ivi l’autrice mostra, con i testi cartesiani, che è abbastanza arduo ritenere che in Cartesio l’io-spirituale possa essere facilmente dislocato rispetto all’io-corporeo. 

Soddisfare il monito delfico, Nosce te ipsum, secondo l’autore che gentilmente “mi scorta” nella lettura del testo di P. Crippa, significa ottemperare a un comando assoluto (absolute Gebot), inderogabile per ogni essere che si scopra “soggetto” e che intenda non essere assimilato ad altro. 

Non è una pretesa datata, ormai inattuale. Tutt’altro, soprattutto in questi nostri tempi, quando lo strapotere dei detentori dei mezzi di comunicazione di massa e delle loro fonti, insinua con pervasiva efficacia nelle nostre menti una congerie di “idee” che non sono state sottoposte alle ‘forche caudine’ di un’analisi che ne evinca l’effettiva trasparenza o meno e quindi la loro evidenza e plausibilità. Cartesio e i filosofi del suo tempo (ad es. John Locke) inaugurano, com’è noto dai manuali di storia della filosofia, una nuova epoca: quella della filosofia “critica”, che culminerà col criticismo kantiano, ma che in sostanza altro non è che la filo-sofia medesima, quella che ne ha caratterizzato la nascita e la sua prima infanzia.  

Nella costruzione complessiva di Cartesio traspare certamente un dualismo problematico. Un dualismo che, tuttavia, non può essere banalizzato nella dogmatica accusa a lui rivolta di aver prodotto la schizofrenia di mente e mondo, radice recondita del dissidio insito in un’intera civiltà nell’esordio del suo stesso svolgimento storico epocale.  

C’è ben altro: se è vero che ogni conoscenza di ciò-che-è non può darsi se non nel pensiero, almeno attraverso il pensiero – nel teatro della propria interiorità - il problema dominante non può che essere quello implicito nel rapporto fra l’essere oggettivo, il cogitatum (le idee, in quanto ea quatenus in nobis sunt, in nobis fiunt et de eis in nobis conscientia est – come recita un noto passo delle Meditazioni) e l’Esse formale, le Idee – platonicamente intese – come trascendenti il campo dell’autocoscienza e delle sue variegate rappresentazioni, In sintesi si tratta di non glissare sul rapporto fra cogitata e visa. Cosa riusciamo veramente a vedere? Possiamo veramente trascendere la cogitatio e vedere oltre?  L’autrice lo esprime in questo modo: 

 

“Resta così che questa facoltà attiva, ma relativa alle cose sensibili, risieda in una cosa "diversa da me", dice Cartesio, quel "me" (il cogito) per ora ipotizzato senza corpo, la cui corporeità va ancora, metodologicamente32, fondata. Però, a questa cosa "deve inerire - o formalmente o eminentemente - tutta la realtà che si trova oggettivamente nelle idee prodotte da questa facoltà"33. Vuol dire che questa cosa che produce le idee sensibili deve davvero contenere realmente, o come una sua parte, tutta la realtà che è contenuta nelle idee che lei produce in me. 

Ho voluto riprodurre il testo di Cartesio per avvertire il lettore del fatto che, sebbene il discorso cartesiano sia sempre scorrevole e totalmente scevro da sofismi, tuttavia occorre molta attenzione per seguirne la ricchezza d'articolazione e poter maneggiare, quando si presenti, la specificità linguistica. Questo, perché non si confonda ciò che è semplice con qualcosa di sofistico, e ciò che è complesso con qualcosa di semplice o addirittura semplicistico”. 

 

Ella esplicita questo concetto in modo diretto, non solo con l’intento di fugare l’immagine di Cartesio quale antesignano di una mente che sa solo inter-ligare senza saper prima intus-ligare  intus-legere. 

Che i corpi esistano, ossia che esista il “regno naturale” oltre il proscenio della propria coscienza individuale è non un semplice dato di fatto, per Cartesio: va giustificato come frutto di dimostrazione, con previo ricorso all’esistenza di Dio come garante della sua realtà, cioè a quell’Essere che non può non avere in sé stesso altrettanta realtà formale di quanto non manifesti di sé stesso su quel proscenio come esse obiectivum, come cogitatum 

Nel secolo della prima rivoluzione scientifica, segnato dalla lettura del mondo attraverso l’ideale della mathesis universalis, tale dimostrazione non poteva essere trasgredita secondo lo spirito del tempo. Non sarà infatti espressa solo da Cartesio, quasi fosse un vezzo intellettuale per lo più salottiero e ristretto ad un’aristocrazia di persone colte ma, notoriamente, sarà svolto anche da diversi altri filosofi coevi, pionieri come lui della nuova scienza, per poter finalmente conferire un’autonoma dignità ontologica a tale regno rispetto al “regno della Grazia”, e quindi con l’intento di studiarla “juxta propria principia” e non più secondo le allegorie che la flettevano alle aspettative di una lettura fondamentalmente religiosa e quindi obliqua.       

L’autrice lamenta l’evidente impreparazione “tecnica” di quei critici di Cartesio, che sbrigativamente imputano a lui l’origine della schizofrenia fra mente e mondo, sottolineando che ignorare l’opera di un filosofo non è reato, come non è reato ignorare l’opera di qualsiasi autore di letteratura, scienza o arte; ma fare di questa ignoranza un’ideologia, un vestito-di-idee senza fondamento “non è normale”. 

Come lettore condivido tale lamento, sebbene mi renda conto che ormai Cartesio, come lo è stato a suo tempo Aristotele, è un “topos”, un dèja vu, sebbene pochi lo abbiano visto, specie in tempi recenti: un termine di riferimento facilmente sdoganabile sul palcoscenico “scientifico” ed editoriale, soprattutto dai non adetti-ai-lavori,  che – beninteso -  non necessariamente devono dichiararsi filosofi per leggere i filosofi, quasi che questi ultimi fossero gelosi delle loro costruzioni teoriche e volessero rinchiudersi in un impenetrabile circolo autoreferenziale. Le cose stanno diversamente.  

A tanti ha fatto comodo ritenere Aristotele semplicemente “el maestro di color che sanno” piuttosto che verificare con i propri occhi se non fosse, invece, il padre del senso comune, come tanti suoi lettori ed estimatori hanno saputo cogliere. Si pensi solo all’acume aristotelico di una filosofa perennemente “errante”, come Hannah Arendt: sul piano teoretico e valoriale il suo aristotelismo, come ontologia e antropologia fondamentale, è ancora oggi la miglior arma vincente contro le insinuazioni delle ideologie totalitarie e dittatoriali, ovunque si originino, e il miglior antidoto contro le loro assurdità.  

Purtroppo il tarlo dell’ideologia agisce, ahimé, sempre nell’ombra e ammorba non solo le visioni del mondo che sorgono in vari ambiti: culturali, scientifici, letterari o anche estetici, ma sembra mettersi sempre più pericolosamente a suo agio nelle nostre stesse istituzioni e nella logica di potere dei soggetti che vi appartengono, spesso dalla psicologia ‘malformata’. E naturalmente la tentazione ideologica è una facile e promettente scorciatoia che esime dallo sforzo di volersi e potersi ritrovare veramente “presenti” in ciò che ammettiamo nel nostro bagaglio culturale, in tutto ciò che facciamo” nostro”. 

Come potrebbe rilevare ancor oggi M. Heidegger, viviamo nella dimensione massificata del Mitsein, caratterizzata dal trionfo dell’equivoco e della curiosità civettuola, tipiche di esistenze inautentiche: una condizione a cui non sembrano sfuggire oggi nemmeno le menti intellettualmente più “impegnate”.  

 I bersagli polemici prescelti e privilegiati dall’autrice sono autori come Siri Hustvedt (Le illusioni della certezza, 2018) e Antonio Damasio  (L’errore di Cartesio, Milano, 1995). Contro di loro Patrizia Crippa mostra, testi di Cartesio alla mano, che l’autore del Discorso sul metodo non elude la tematica del corpo, anzi ne esalta la dignità parlando della sua unità con l’anima che tutta lo pervade, al punto di essere implicata in tutti i suoi processi, quasi a figurare una loro “transustanziazione”: “transustanziazione naturale che avviene nell’uomo fisiologicamente attraverso il processo della nutrizione e della digestione” (nel testo, pag. 93). 

 

 

Un approfondimento critico proposto dal lettore 

 

Nel mettere i puntini sulle ‘i’, ”trattando del cogito, l’autrice implicitamente riabilita una tematica attualissima, che seppur sminuita e tacitata negli ultimi decenni dalla temperie culturale postmoderna, è tornata ad essere di importanza centrale nelle tematiche filosofiche ‘interferenti’ con le scienze psicologiche in quanto anche neuroscienze; con la psicoanalisi; nonché con le più variegate riflessioni di ordine sociologico che insorgono dall’analisi di un mondo sempre più liquido e complesso: si tratta  precisamente della questione del soggetto.  

Questa aveva notoriamente subìto un notevole oscuramento valoriale ad opera del credo strutturalista, che muovendo da un’iniziale prospettiva di ispirazione positivistica e neopositivistica, aveva indugiato sulle funzioni e sui valori inerenti le mutue relazioni degli elementi linguistici quali segmenti di una “struttura” di fenomeni costantemente interdipendenti ed interattivi.  

Le varie scuole linguistiche del ‘900 - quali ad esil Circolo di Praga, la scuola glossematica, funzionalista, distribuzionalista di Copehagen, e trasformazionalista di Noam Chomsky - hanno sviluppato in modo determinante il fattore-struttura, al punto da informare metodologicamente anche la psicologia della Gestalt e favorire il prender forma di quell’atmosfera filosofica francese tipica degli anni ’60, che ha avuto significative amplificazioni nell’antropologia culturale (Levy- Strauss), negli sviluppi del marxismo (L. Althusser), nonché  nella stessa critica letteraria e artistica (Gérard Genette), nella quale l'opera presa in esame (testo letterario, creazione pittorica o filmica) viene approcciata “come un insieme organico scomponibile in elementi e unità, il cui valore funzionale è determinato dal complesso dei rapporti fra ogni singolo livello dell'opera e tutti gli altri” (http://www.giacomobelloni.com/styled-57/page34/).  

L’oscuramento ontologico della soggettività avrebbe poi ricevuto un ulteriore sviluppo con il cosiddetto credo post-strutturalista, il quale non intendeva di certo ribaltare gli esiti della riflessione strutturalista ma, semmai, spingerli alle conseguenze più estreme.  

Conseguenze che possono essere rintracciate nelle strategie ermeneutiche di ispirazione  

(1) de-construzionista (J. Derrida) - per le quali, in qualsiasi testo, segno e significato sono costantemente affetti da un rapporto differenziale, da un inarrestabile scivolamento reciproco, cosicché nessun significato potrà mai essere pienamente presente in qualsiasi segno  e con esso congruente; oppure ( 

2) nell’epistemologia costruttivista, il cui esordio avvenne nel 1955 con il lavoro dello psicologo statunitense George A. Kelly (Psicologia dei costrutti personali), poi ampiamente sviluppatasi su un ampio raggio di prospettive ed approcci variamente connotati che, tuttavia, si riconoscono nella comune istanza di un’interpretazione riflessiva e auto-interrogativa del conoscere, volta a identificare di continuo i propri processi generativi, senza l’illusione di poter scindere il fenomeno osservato dal ‘sistema che osserva’, ossia il veduto dal vedente. Per dirla con Husserl, il noema dalla noesi 

Cosicché la “realtà” non è più concepibile come uno stato-di-cose “oggettivamente rispecchiabile” e indipendente dal modus observandi che lo relativizza. Sotto tale aspetto, nelle versioni costruttivistiche più radicali, la scomparsa del soggetto si esprimerebbe non tanto nella sua esplicita soppressione quanto nella proliferazione ipertrofica e indefinita dei soggettivismi, nonché nel moltiplicarsi e nel sovrapporsi dei vari linguaggi per lo più paratattici. 

In ogni caso, l’epoca post-moderna, con i suoi sfaccettati relativismi, non consente di poter intercettare un soggetto nei suoi contrassegni ontici, ossia nella consapevolezza dell’oggettivabilità della propria etero-relazione e della simultanea inoggettivabilità della propria autorelazione: quindi nell’indeducibilità della sua consapevole auto-presenza come immediata scoperta di sé. 

La critica di P. Crippa nei confronti degli equivocatori di Cartesio e del suo lascito dottrinale consente di riportare in primo piano, con intenti opportunamente polemici,  una tematica cruciale, che nell’ossequio del “comando assoluto” richiamato da Hegel, è stata via via vanificata negli ultimi decenni. Averne individuato almeno alcune radici notevoli fra i loro fraintendimenti e aver smascherato le loro false ragioni può consentire di coglierne anche solo indirettamente, se non in recto, la permanente e ricorrente attualità e ripercorrerla a ragion veduta. 

 

Concetto e referente 

 

Nella seconda parte del volumetto (cap. II) l’autrice espone sotto quali riguardi è possibile interpretare il nesso cogito-sum come un enunciato performativo. 

Assodato che essere esistenti non significa avere l’esistenza quasi essa fosse un bagaglio accessorio dell’essere come esserci, allo stesso modo pensare non può significare avere l’idea del pensiero, ma è sempre un atto immediato che contiene tutte le mediazioni in cui si articola: i vari contenuti come sensazioni, propensioni, immagini, repulsioni ecc. Il cogito non è il contenitore esterno ai suoi cogitata: è nei i suoi cogitata, anzi è i suoi cogitata. L’io-penso, nella ricchezza dei suoi possibili contenuti, mentre viene pronunciato mette in atto, attiva, ciò che pronuncia e ciò che pronuncia non può essere il non-essere. Per l’autrice ‘Io-penso’ è un enunciato performativo, nel senso divisato da Austin, è cioè tale che: 

  1. enuncia delle parole 

  1. in una determinata modalità e con una certa forza 

  1. per giungere a un obiettivo, per avere un effetto illocutorio, ossia una funzione comunicativa. 

Non è in conclusione un parlare a vuoto, senza contenuti significativi. Pertanto, nella locuzione “io penso” è di per sé evidente l’essere del parlante: fra essere e pensare non può esserci nessuno jato, nessun intermediante. ‘Io sono’ è di per sé ‘io esisto’: nessun pensante può essere inesistente. E ciò non può essere relativizzato solo all’epoca in cui venne pronunciata per la prima volta, ma vale in ogni tempo: direi in ogni istante della nostra autopercezione personale. In un linguaggio forse più adeguato potremmo dire che è un’asserzione di valore immediatamente trascendentale. 

 Lo stesso Agostino l’aveva già pronunciata nella locuzione “dubito ergo sum” contro gli scettici radicali (gli “accademici”) che, ai suoi occhi, erano atei, in un contesto storico ben diverso dall’età cartesiana e l’aveva enunciata dopo aver già contestato loro la possibilità di confutare la validità dei primi principi e delle verità matematiche. Nel “dubito ergo sum” egli esprimeva la contestazione massima dello scetticismo: lo scettico, cioè l'ateo, può dubitare di tutto, ma non del fatto di dubitare: non può negare l’evidenza. 

Il relativismo radicale è perciò una contraddizione in termini, una posizione estremistica e inconsistente, del tutto velleitaria, in quanto, di fatto, uno non può relativizzare il fatto di che star relativizzando tutto. In ogni caso non si può dubitare della propria esistenza, non potendo nello steso tempo porre ciò che si vuol togliere. Anche dubitando di dubitare, non posso che dubitare comunque e quindi non posso non esistere, sebbene l’esistere non dipenda da me ma, per Agostino, mi debba essere dato da Dio, perché solo se Dio mi ha creato io posso giungere all’evidenza del mio essere. Per scoprirlo, secondo il vescovo di Ippona, basta redire in se ipsos, in interiore homine. 

In Cartesio la sostanza delle implicazioni è la stessa: il saper di esistere; tuttavia manca di un pretesto dialettico polemico con degli interlocutori esterni, mentre l’esistenza come immediata scoperta di sé viene posta come conseguenza performativa del dubitare e del pensare: si autopone in un ambito per così dire monologico; (Dio è ancora nelle nebbie del dubbio metodico).  

Le illazioni neopositivistiche di Carnap che vedrà nel cogito ergo sum un semplice non senso (“esiste un x tale che x pensa”) non ne scalfiscono il valore, dato che – precisa l’autrice - si limitano a snaturarlo in totale sconnessione con l’esperienza di un soggetto vivente, confondendo concetto proposizione, annegando pertanto il referente della proposizione nella proposizione stessa: cosicché la logica semantica (il significato di un termine) e quella apofantica (cosa designa il rapporto tra i termini) vengono neutralizzate nelle semplici regole grammaticali. 

 Il referente del dire è, allora, solo beante. Vedendo la cosa più da vicino, ci è opportuno, in questa sede, indugiare ulteriormente su questo rilievo. In una proposizione si può distinguere il significato di un termine dal suo referente o denotato. Il significato rimanda al contenuto di pensiero ed esprime ciò che quel pensiero “vuol dire”; il referente, è invece l’oggetto che costituisce "ciò a proposito di cui" quel significato, quel voler-dire viene pensato. Ciò che li congiunge è l’intenzionalità. 

Non potendosi distinguere (né unire distinguendo), nella posizione di Carnap, il concetto dal giudizio (o proposizione, se non solo pensata, ma anche pronunciata o scritta) essa viene meno. Ora, mentre il significato attiene al linguaggio, il referente cade fuori del linguaggio: senza intenzionalità è inattingibile, cosicché senza referente il dire alcunché equivale al semplice parlare. 

 Ma il parlare può limitarsi ad essere un atto puramente fisiologico, un insieme acustico scomposto di suoni estemporanei: anche un semplice fracasso privo del benché minimo significato – e in tal senso anche gli animali “parlano” - o potrebbe essere anche un semplice scarabocchio, un insieme casuale di grafemi sovrapposti. Il dire presuppone ben altro. 

Nella locuzione “cogito ergo sum” l’ ‘ergo sum’ non è, allora, che il referente cui aggetta il “cogito” per intenzionalità immediata. Per questo motivo altro è dire ‘penso quindi sono’ e ben altro è dire ‘passeggio, quindi sono una passeggiata’. L’atto di passeggiare è impensabile senza presupporre l’esistere; ma l’esistere può esprimersi in una miriade di atti contingenti, di per sé inessenziali; non può esprimersi senza l’esserci che si scopre pensante ed autocosciente. 

 

Come rimettere le cose a posto 

 

Nel cap. III l’autrice prende di petto l’accusa di A. Damasio e l’errore che egli imputa a Cartesio mostrandone l’assoluta inappropriatezza e la sostanziale gratuità, derivante dalla mancata lettura dell’opera omnia del filosofo francese, compensata dalla sottolineatura di un passo del Discorso sul metodo (parte IV), peraltro citato in modo discontinuo, compiendo una sorta di macelleria testuale.  

Damasio, a dispetto delle sue iniziali osservazioni sul testo cartesiano, non riesce a cogliere  l’intento fondativo del discorso cartesiano: il suo essere volutamente una fictio methodologicaper rifondare ab imis il sapere, comunicando - mediante una confessione biografica, un esperimento mentale, volto a costruire  e a far ricostruire nell’eventuale, esperienza diretta percorsa dai lettori - il vestibolo attraverso cui si può accedere alla magna domus contenente i più diversi saperi. L’attraversamento del vestibolo è ineludibile e mira a raggiungere un punto fermo – il cogito ergo sum: un’evidenza irrefutabile e di per sé indifferente, nonché indipendente, a- e da qualsiasi pregresso principio di autorità acquisito con l’educazione. 

Per maggiore chiarezza può essere utile a riguardo un richiamo didattico all’antica scuola pitagorica e alla divisione che si sarebbe creata in essa fra i discepoli del maestro: da un lato gli acusmatici, ossia coloro che ascoltano fedelmente le teorie-prescrizioni del maestro in quanto ipse dixit, rispettandone l’autorità; dall’altro i matematici, coloro che non sono disposti a sorvolare sulle aporie insorgenti da quelle stesse teorie (ad es. la scoperta delle grandezze incommensurabili in rapporto ai lati di figure geometriche notevoli, quale la diagonale del quadrato, l’altezza del triangolo equilatero o l’angolo curvilineo) e vogliono andare più a fondo.  

Ma “andare a fondo”, nel linguaggio ordinario, può significare anche andare in rovina, soccombere, scivolando, nella fattispecie, sulle coltri del puro opinare. Eppure i filosofi accettano questo rischio, quand’anche si espongano all’eventualità di “cadere da qualche astro, diventare degli eterni stranieri” (la citazione è riportata nel testo dell’autrice, pag. 128); Accettano la sfida - prim’ancora che con altri interlocutori, soprattutto con se stessi - sebbene possano restare immobilizzati in un’angustiante impasse, senza la certezza preventiva di uscirne. 

 Questo A. Damasio non lo sa: probabilmente perché non lo ha mai provato di persona, non avendo un’anima filo-sofica. Non lo sa nemmeno l’altro bersaglio critico della nostra autrice – Siri Husvedt, che ignora la canonica distinzione di verita di fatto (o stati di fatto) e verità di ragione, equivocando il concetto di verità inteso da Cartesio.  

Figuriamoci se possano essere entrambi in grado di cogliere l’epocale rovesciamento della comprensione dell’Idea nella comprensione dello spirito suggerita dal maestro che in questa esposizione mi accompagna. La finzione di non avere un corpo, e precisamente un io corporeo, non è un dogma degno dei passivi acusmatici, ma solo un’ipotesi temporanea, mossa dall’iniziale scoperta di essere pensanti. 

Se ne evince che alcuni uomini e donne di scienza, oltre a ignorare la storia della filosofia, non avendo peraltro nemmeno preso la briga di andare a leggersi direttamente almeno alcuni testi filosofici senza limitarsi a sorvolarli, non denotano una minima circospezione epistemologica. Non sanno (o fingono di non sapere) che quando si entra in un campo disciplinare di-verso da quello che ci è familiare, occorre attraversarne lo specifico vestibuluml’atrio nel quale ci si spoglia delle categorie note e usuali e si indossano abiti mentali diversi: precisamente quelli inerenti la o le scienze cui si vuol accedere e i loro specifici referenti. (Non senza ragione, a proposito, un antico detto popolare milanese probabilmente riferito ai pasticcieri suona così: “felé fa’ el to mesteé”). 

Ma è certamente più comodo proiettare su Cartesio l’ombra di La Mettrie e la sua teoria dell’homme machine senza troppi distinguo.  

La lettura degli autori è tuttavia ineludibile.  

Patrizia Crippa riporta, a pagina 166 del suo studio, una interessante citazione da “L'errore di Cartesio” di Damasio. Scrive lo scienziato: “Non è solo la separazione tra mente e cervello ad essere mitica: probabilmente anche la separazione tra mente e corpo è altrettanto fittizia. La mente è incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello” (L'errore di Cartesio, 1995, pp.175-176). 

Ma riporta anche, subito dopo, le parole di Cartesio, là dove dice che la mente (o anima) “é veramente unita a tutto il corpo” (Passioni, art. XXX), anche se non ha l'estensione, e che “ io tutto, in quanto composto di corpo e di anima, posso ricevere svariati benefici o danni dai corpi che mi stanno intorno” (Meditazioni,cit., p. 275). 

 

Alla luce di queste parole, come si fa a parlare di Cartesio come responsabile della schizofrenia  mente-corpo o mente-cervello? A me esse suggeriscono una sottile e implicita consonanza con la teoria aristotelica dell’anima come forma del corpo che conferisce unità alle sue tre istanze: vegetativa, apprensiva-desiderativa e razionale. Nihil novi sub sole, sed renovata. 

Illuminante, a riguardo, è la postfazione di Pietro Andujar, il quale domina integrandole sia la disciplina in oggetto, la filosofia, sia quelle afferenti alla psicoterapia. Egli riconosce all’autrice il merito di aver svolto “un excursus storico sulle origini del pensiero e del concetto in ambito filosofico” e di aver ribadito l’importanza della filosofia come teoresi pura, la quale  cerchi di comporre un metodo di strutturazione del pensiero che sia attendibile e comunicabile. E' una dimensione totalmente trasgredita dalle “cattive ideologie” o, meglio, dalle miso-logie propalate da una certa pseudocultura, dove è sufficiente parlare per illudersi e illudere di dire qualcosa di probante oltre che interessante, mescolando una molteplicità massiva di referenti, di per sé indiscernibili. 

 

Una quaestio ancora aperta 

 

Forse una quaestio che potrebbe sembrare ancora irrisolta non è tanto il rapporto fra mente e corpo in Cartesio ma quello fra corpi viventi e corpi materiali. Non c’è ivi lo spazio per discuterne confrontando i testi cartesiani. Mi permetto tuttavia di insinuare il sospetto che nell’economia complessiva della sua filosofia, essa possa costituire un problema, considerando che egli, al pari dei suoi maestri gesuiti, professava ancora l’horror vacui, escludendo la dislocazione vettoriale dei corpi nel vuoto che sostituiva esplicativamente con la loro traslazione, ossia col loro scorrimento l’uno sull’altro secondo la teoria dei vortici di elementi corpuscolari (fuoco, aria e terra) di diversa densità misurabile su un gradiente differenziale. I tre elementi si differenziano solo per le loro qualità geometrico-meccaniche.  

Non senza motivo egli, per spiegare il moto orbitale dei pianeti attorno al sole, tendeva a riesumare la teoria aristotelica dei luoghi naturali. Certamente una fisica come la sua, consistente in un meccanicismo non-atomistico, data la riduzione della materia a pura estensione e movimento di corpuscoli infinitesimali (corpuscolarismo), ossia fondamentalmente al disseminarsi dei punti dello spazio geometrico-analitico, di per sé solo coordinabili, finiva per concepire la materia come divisibile ad infinitum, poiché gli atomi non esistono.    

In questa prospettiva la biologia tende ad essere un aspetto della fisica, anche perché Cartesio ricusava ogni teoria di tipo animistico-vitalistico. I presupposti per assimilare il corpo organico vivente a quello puramente fisico, certamente ci sono: ma non discendono certo dalle considerazioni che egli svolge nel Discorso sul metodo e nelle Meditazioni metafisiche . 

Per contestare le sue conclusioni Damasio e la Siri Hustvedt hanno cercato nel posto sbagliato. Certamente furono più probanti, com’è noto, le critiche di G. W. Leibniz che, con la sua monadologia, ossia con la sua teoria delle monadi come specchi viventi dell’universo, accettava la spiegazione meccanicistica dei fenomeni fisici per quanto “bene fundati”, ma solo apparenti, sulla base del presupposto ontologico che i principi generali della natura dei corpi e lelle loro relazioni meccaniche sono metafisici: pertanto non è la quantità di moto (=m*v) a rimanere costante, come pensava Cartesio,  bensì la forza motrice o forza viva che può essere espressa solo da punti di forza (le monadi), ossia da forme sostanziali individuate, tuttavia, in una prospettiva teorica nuova rispetto all’antica metafisica: solo ciò che è può agire come causa di qualcosa. 

Ma non c’è da stupirsi se Cartesio non abbia aderito alla teoria galileiana risolvendo totalmente la corporeità nella spazialità. Non esistono filosofi che nelle loro teorizzazioni non abbiano dei punti deboli e delle intriganti aporie. Incorrervi fa parte del gioco. Ciò che conta è aver ben operato, esercitando la ragione a tutto campo, senza arrestarsi di fronte a presupposti intoccabili; senza fermare la marcia di fronte a un castello di dogmi che pregiudichi il prosieguo dell’avventura noetica.  La sfera dei dogmi pertiene solo alla Rivelazione e alla sua trasmissione apostolica poiché, come pensava Galilei, altro sapere come vadano i cieli e altro sapere come andare in Cielo. 

Con quest’ultimo rilievo mi congedo dall’esposizione di “Cartesio: l’errore mai commesso” consigliandone caldamente la lettura: è un testo interessante, ricco di stimoli, che consente di rivedere certi troppo agevoli ‘topoi’ e ricorda che prima di giudicare una tesi a partito preso, bisogna ascoltare (o leggere) chi la professa, ripercorrendo in prima persona, senza deleghe implicite, il percorso che propone evitando, così di ri-cadere nella censura perpetrata, a suo tempo, contro Galilei, che fu condannato solo perché sosteneva una tesi. 

Idealmente mi accomiato anche da G.G. F. Hegel e dai suoi “consigli” gratuitamente elargitimi durante il mio viaggio espositivo e interpretativo. Buona lettura! 

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