RECENSIONE A "TRE PIANI DI NANNI MORETTI"

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13 ottobre, 2021 - 08:58
di: Rossella Valdrè
Anno: 2021
Regista: Nanni Moretti

Nanni Moretti, da tempo assente dalle sale e dunque molto atteso, deve avere amato molto lo splendido romanzo di Eshkol Nevo, Tre Piani (2017, Neri Pozza), per averne tentato la non facile trasposizione sullo schermo: da Tel Aviv a Roma, infatti, non fa alcuna differenza, la vicenda è talmente universale che sarebbe potuta accadere in qualunque città del mondo, in quanto il tipo di realtà oggetto del film, come del romanzo a cui è in quasi del tutto fedele, è la realtà interna. 

Unico film del regista che non si basi su un soggetto originale, si può considerarlo però un’operazione completamente riuscita, che qualche critico ha persino definito il suo miglior film, intendendo con ciò un Moretti maturo, svincolato da se stesso e dalla rappresentazione delle sue nevrosi e dei suoi tic, privo della consueta ironia e autoironia, per lasciare spazio ad una narrazione sobria e pulita, che lascia parlare gli attori e le emozioni, tutti a vario modo imprigionati nell’immenso dolore dell’esistenza. 

La scena si apre con un incidente mortale ai piedi di una palazzina borghese: un adolescente ubriaco ha ucciso, senza alcun pentimento, una donna per strada. Nel frattempo Monica, una giovane, diafana donna incinta stava chiamando un taxi per andare a partorire la sua bambina, sola, il marito lontano per lavoro. Nel frattempo ancora, una bambina, la figlia della coppia del secondo piano, Lucio e Sara, che viene lasciata a trascorrere parecchio tempo con l’anziano portinaio, quel giorno si allontana col vecchio, i due vengono ritrovati nel bosco, e da lì il padre della bambina, sospettando una violenza che la piccola avrebbe rimosso, non si dà più pace.  Questa giostra di personaggi abita i tre piani della palazzina, a volta la vita li fa incrociare, a volte no, le loro strade procedono per proprio conto, con destini paralleli e in parte intrecciati.  

Tre rapporti genitori-figli, tre rapporti di coppia, e tre funzionamenti mentali. I genitori dell’adolescente assassino, entrambi giudici (Moretti e Margherita Buy), sembrano piegarsi al dolore di vedere un figlio che non ha saputo integrarsi ai valori di un’etica condivisa e, forse, vittima di aspettative troppo alte; il fantasma dell’abuso porterà alla dissoluzione anche il matrimonio di Lucio (Scamarcio), che a sua volta, in una sorta di grottesca coazione a ripetere, si troverà coinvolto in un processo per un reato analogo con una minorenne e Monica (Alba Rorwacher), forse il personaggio più poetico, nel momento in cui mette al mondo la bambina, è già catapultata nei suoi fantasmi di diventare folle come la madre.  

Chi ha letto il libro (cosa non indispensabile per godere del film), ricorderà che l’autore aveva in mente, con la dicitura ‘tre piani’, la strutturazione della mente per come la conosciamo dalla seconda topica freudiana, divisa cioè in Io, Es e Super-Io. Tuttavia, tale esplicitazione psicoanalitica non aggiunge niente alla bellezza del romanzo e alla sua raffinatezza psicologica, ed è merito di Moretti essere riuscito a non trasporre nel film alcun intellettualismo, ma a farne invece un intreccio di vicende umane a forte impatto emotivo, con cui chiunque può identificarsi. Sappiamo che lo spettatore, e anche lo spettatore psicoanalista (anzi, forse soprattutto quello) non ama che si espliciti apertamente la ragione psicoanalitica, ma che l’artista riesca a tenerla sullo sfondo lasciandola emergere dall’anima e dai comportamenti dei personaggi: perché Lucio insiste tanto a voler cercare un atto di seduzione del vecchio verso la bambina che tutto sembra far sembrare non essere mai avvenuto? Perché tanto odio nell’adolescente borghese contemporaneo figlio di un padre che ha dedicato la vita alla Legge? Sarà realtà o fantasia, quel corvo nero che Monica vede nella sua sconfinata solitudine, sola con la sua bambina, timorosa di impazzire come la madre al non sentire mai la voce di adulti, tanto che ne fermerebbe uno per strada? Altri personaggi minori si intersecano a questi principali, venendo a comporre un affresco balzachiano di infelicità, tutte con una loro precisa, sebbene misteriosa, ragione interna, che lo spettatore segue con immedesimazione e passione. 

Film squisitamente psicoanalitico, lo si può apprezzare da più vertici di lettura. Al centro le dinamiche della famiglia, ognuna tolstonianamente infelice a modo suo, ma anche vitale a modo suo; poiché Moretti si prende la libertà narrativa di allungare cronologicamente il tempo della storia di diversi anni (espediente, a mio avviso, non necessario), il regista vuole forse mostrare come anche dalle rotture, dalle crisi, dalle nebbie della mente i personaggi trovino poi delle loro personali strade e soluzioni nel tempo. Il tempo, nel film, appare come una grande cura. Il rapporto parentale è anch’esso centrale, in tutti e tre i piani metaforici del racconto e concreti della palazzina: genitori vinti, o assediati da un’ossessione, o portatori di una follia proprio in quanto genitori. Al tempo stesso sarà proprio il diventare a sua volta genitore, in finale, a costituire l’unica evoluzione maturativa possibile per l’ex adolescente ribelle, col cui atto criminoso e irresponsabile si era aperto il film. La coppia sembra appartenere alla famiglia, al microcosmo fragile e al tempo forte della famiglia; se questa cede, è anche la coppia a frantumarsi. 

Benchè sia un’opera densa di fatti, si potrebbe obiettare persino troppi, non sta lì il cuore prezioso del film: Tre piani esplora il mondo interno dei personaggi, la lotta intrapsichica dell’Io alle prese da un lato con le pulsioni e dall’altro con il super-io, laddove tentazioni da una parte e sensi di colpa dall’altra sono sempre in agguato, per tutti noi.  

Racconto corale di un campione di umanità che rappresenta in fondo l’umanità tutta, si addolcisce sul finire con un ulteriore spunto poetico, che è maggiormente evidenziato nel libro: il bisogno umano di comunicare. Non importa che l’altro sia concretamente presente, importa che lo sia dentro di noi. Il personaggio di Dvora, la moglie del giudice che prende più spazio sul finire della storia quando lui viene a mancare, continua a parlargli attraverso la segreteria telefonica, in una sorta di simulacro di seduta analitica che elabora un lutto e nel contempo lo tiene vivo, come avviene per tutti i lutti importanti.  

 

“…Ma evidentemente la nostra anima non procede in avanti, solo in cerchi. E ci condanna a cadere e ricadere nelle stesse buche”. (Eshkol Nevo, Tre piani, 2017) 

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