Euphoria, di Sam Levinson, Serie TV HBO

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26 gennaio, 2022 - 05:38
di: Riccardo Dalle Luche
Anno: 2022
Regista: Sam Levinson
L’interesse per gli psichiatri cinefili di questa  serie, genere “teen drama”, ora alla seconda stagione, è duplice. Il primo è di ordine professionale, perché ci mette immediatamente in relazione con i modi di sentire, comportarsi , vivere la sessualità, progettarsi nel mondo, di un gruppo di giovani americani tra la fine del liceo e gli inizi del college, che è molto diverso da quello tradizionale. Abbiamo infatti davanti un campione di giovani che sono plasmati da alcuni fattori culturali generazionali di primaria importanza: innanzitutto sono nativi digitali, e quindi vivono la loro vita in una dimensione ibrida, reale-immaginale ed  immersi in una molteplicità di relazioni contemporanee,  presenti, a distanza, e in rete; sono sostanzialmente estranei alla cultura tradizionale, col suo carico di precetti etici, religiosi, patriottici, e di riferimenti letterari; non li si vede infatti mai leggere e studiano ben poco; rappresentano una società ormai maturamente multietnica; vengono in maggioranza da famiglie mutilate per perdite o abbandoni, e da nuclei familiari non convenzionali, spesso avendo come riferimento un solo genitore (madri  e padri a loro volta gravate di molteplici problematiche);  fanno del loro corpo e dell’apparire il medium comunicativo principale della loro vita; vivono in modo estremo la scissione adolescenziale  tra sessualità, sentimenti e relazioni, sono gender fluid e vivono la maternità (ragazze e ragazzi), come una dimensione astratta e remota; molti di loro fanno uso di sostanze con una sconcertante normalità, così come qualcuno di loro le spaccia con altrettanto noncuranza vendendo contemporaneamente dolciumi e bibite; l’alcool, in ogni formulazione, scorre a fiumi; la maggioranza di loro, infine, ha varie esperienze traumatiche alle spalle ed altre se ne procura coi suoi comportamenti.
L’osservazione “clinica” di questo gruppo di personaggi peraltro molto ben delineati, e interpretati da attori che ho voluto citare uno per uno nel titolo perché molti di loro ce li ritroveremo nel tempo come star  internazionali,  costringe quelli della mia generazione ad una lavoro di reset mentale, di messa in parentesi di una serie di pregiudizi non solo morali, ma anche clinico-diagnostici: ha ancora senso di fronte a questa generazione, parlare di disturbi di personalità? Di uso di sostanze come disturbo? Di comportamento sessuale promiscuo come un problema? Ha ancora qualche valore parlare di “borderline” anche solo come area clinica? Certamente, molti di questi ragazzi soffrono, non stanno mai bene, sono inquieti, alcuni in effetti si curano, come la protagonista Rue che è una tossicodipendente/bipolare molto per bene, quasi destinata e rassegnata alla propria condizione, l’unica in grado di vivere; certamente altri finiranno in terapia a breve per qualche inciampo dei loro percorsi di vita. Ma chi li dovrà curare non avrà alcuna teoria della mente e della personalità a disposizione, perché quelle esistenti sono tutte vecchie, create e riferite ad altre realtà storico-sociali che, mutando rapidamente generazione dopo generazione, si stano estinguendo.  Questi ragazzi rappresentano una nuovo a etnia che ha regole comportamentali e morali in gran parte nuove, animata sostanzialmente da un radicale individualismo, che prova per gli altri sentimenti  solo ambivalenti, che cerca emozioni sempre più intense e per questo sfida ogni limite. Tuttavia, anche questa comunità apparentemente caotica ha comunque un proprio codice morale, ciascuno ha dei propri valori e degli obiettivi psicologici a volte si delineano, perfino nei personaggi dei cattivi che devono in primo luogo difendersi e sopravvivere.
E’ vero, ogni episodio della serie inizia psicoanaliticamente con un breve riassunto dei fatti più significativi della vita infantile di ciascuno dei ragazzi, a volte eventi e situazioni, altre strutturazioni familiari, od anche condizioni socioculturali particolari, che rendono comprensibile in pochi secondi perché ciascuno di loro sia diventato quello che è. Tuttavia non ne consegue né un giudizio di patologicità, né l’idea di poter fare qualcosa per riscrivere e riformulare il passato, né un modello della mente che sia terapeuticamente fruibile. Tutto è mostrato solo fenomeno logicamente: “così è”.
I professionisti della salute mentale, escludendo gli interventi farmacologici che si pongono sullo stesso piano agito e comportamentale di questi ragazzi/ipotetici pazienti, saranno privi di una teoria normativa alle loro spalle, di pratiche accettabili e minimamente efficaci, saranno dei clinici estemporanei, condannati al qui ed ora, al tempo del’immediatezza, come i loro pazienti. Dovremo quindi impegnarci per conoscere i nuovi codici per capire questi nuovi pazienti, piuttosto che pensare dall’alto che siano loro a dover sottostare ai nostri valori tradizionali, valori anche terapeutici, intendo: a meno di non riformulare un modello contenitivo, rieducativo, costrittivo, che, oltre ad essere fuori moda, appare molto lontano dal nostro modo di sentire e dalle nostre capacità realizzative.
La serie pone quindi questioni fondamentali per il nostro futuro agire: sembra che la psicologia sia diventata inerme rispetto alle problematiche di queste generazioni, e si veda costretta ad invocare un cambiamento di ordine sociale conservatore, volto alla restaurazione di un qualche ordine, di una qualche autorità. Nel prossimo futuro, a partire forse dalla drammatica questione della denatalità occidentale, qualcosa dovrà dirigersi forzatamente  in questa direzione.
Ma il valore della serie va ben aldilà delle riflessioni professionali che ci induce;  è propriamente artistico e cinefilo. Avevo già ammirato il direttore canadese Sam Levinson e Zendaya, la sua attrice feticcio,  in Marion e Maude” (2021).  E la prima parte di Assassination nation (2018), il secondo film di Levinson, può essere quasi alla lettera considerato il primo vero episodio di Euphoria, che non è che una serie di film, un film espanso e moltiplicato in una saga, in una nouvelle comedie humaine.  Tutta la sapienza del fare cinema, in tutte le sue componenti, sceneggiatura, dialoghi, recitazione, fotografia, colonna sonora, montaggio, sostiene la narrazione quasi senza cedimenti. Si dice che le piattaforme streaming uccidono il cinema in sala e la visone tradizionale in genere, complice la pandemia; serie come queste  lo uccidono due volte, perché propongono un nuovo format che sussume quello vecchio, lo fagocita. Non c’è più niente del linguaggio televisivo in queste serie, è solo cinema, con tutti i riferimenti  che facilmente i cinefili troveranno nella storia del cinema, le citazioni, i richiami, gli espedienti  narrativi, le mescolanze di generi, la capacità di stupire sempre di nuovo, l’innovazione visiva e autoriale. Il grande cinema arriva a tutti, direttamente sul divano di casa: come i prodotti Amazon. Le case di produzione  streaming (HBO, Amazon Prime, Netlix, Sky Atalntic, etc.) con i loro budget illimitati (garantiti anche da una pletora di produzioni  commerciali), rappresentano le nuove Major. Euphoria ci propone quindi, per molti aspetti, che ci piaccia o no,  il futuro: è una specie di corso di aggiornamento, per quelli della mia generazione.
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