PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

«Gli alberi già lo sanno». Amore e morte nell’esordio di Valeria Babini nella narrativa

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19 giugno, 2022 - 09:00
di Paolo F. Peloso

 
Titolo: Gli alberi già lo sanno
Autore: Valeria Babini
Editore: La tartaruga
Anno: 2022
Pagine: 172
Prezzo: 17.10 euro
 
Amore e morte sono due temi che dominano la vita dell’uomo e la storia della letteratura. Sono anche i protagonisti di questo emozionante esordio nella narrativa di Valeria Babini, storica e saggista – con il doppio nome di Valeria Paola in quel caso – autrice di libri che abbiamo molto apprezzato come Il delitto Murri. Una storia italiana (Il mulino, 2004) o Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia. Una storia del Novecento (Il mulino, 2009), e curatrice di altri come Lasciatele vivere. Voci sulla violenza contro le donne (Pendragon, 2017), che ho recensito su questa rivista (vai al link), o il più recente Il caso clinico del viaggiatore sonnambulo di Philippe Tissié (Quodlibet, 2022).
Bisogna soffermarsi sul personaggio della protagonista a partire dal nome, che non è scelto per caso: Vera che ha la stessa iniziale di Valeria. Vera che è falsa, inventata come è falso ogni personaggio letterario; ma insieme è Vera. Vera, la cui vicenda narrata in terza persona consente forse di trovare il giusto distanziamento, nella terzietà tra autore e lettore, il giusto equilibrio che permette all’uno di svelare e all’altro di accostare, con estremo garbo, emozioni bisognose a un tempo di rimanere gelosamente private e di essere condivise.
Vera è un personaggio che ricorda molti aspetti dell’autrice. Come lei è un’intellettuale, una storica e un’insegnante.




La incontriamo all’inizio della vicenda quando ha appena perso - e insieme non ha perso perché lo conserva nel ricordo e nell’amore determinando una strana situazione nella quale presenza e assenza dell’altro sono in un precario equilibrio - Mario, il compagno della sua vita.
Poco tempo dopo perde anche la madre, Ada.
Sono due morti diverse, che fanno male in modo diverso; ma fanno entrambe male perché comunque la morte di coloro che amiamo dà dolore. La seconda è uno spegnersi lentamente, un distanziarsi lento e inesorabile dalla vita, un lasciarsi consumare che sta nell’ordine naturale delle cose, nel succedersi millenario delle generazioni. Gli alberi già lo sanno: il vecchio albero prima o poi cadrà, per fare posto al nuovo. Anche noi lo sappiamo da quando abbiamo cominciato a prendere coscienza del tempo, e capire come va la vita: chi ci ha preceduto in misura significativa nella nascita, dobbiamo aspettarci che ci preceda nella morte. La prima invece, quella di Mario, è la morte che sorprende, che trasgredisce l’ordine del tempo: è l’albero che cade perché viene violentemente abbattuto quando è ancora nel pieno del vigore. Quando ci aspettavamo che, affacciandoci alla finestra, l’avremmo trovato ancora lì, per altro tempo, per continuare a farci l’un l’altro compagnia. E Vera scopre nella sua morte una sorpresa forse ancora più amara della sua morte: il fatto di dover vivere quella grande emozione, quello straziante dolore, senza il suo sguardo accanto.
Priva della vicinanza di Mario per la prima volta dopo cinquantun anni vissuti insieme, Vera sente di avere perduto con lui “il sapore della vita”; una vita abituata a specchiarsi continuamente negli occhi e nell’amore dell’altro/a, una vita vissuta e conosciuta riflessa negli occhi dell’altro/a. Si chiude in casa sola in compagnia dei propri fantasmi benevoli: i personaggi che riaffiorano uno dopo l’altro evocati dagli oggetti e dalle fotografie, dai libri e le poesie che legge e che ama.


Scopre, nei versi della poetessa Chandra Livia Candiani che l’allieva-amica Anna le reca in dono, che forse con Mario è in atto una forma di relazione nuova, una nuova faccia dell’amore “che chiamano lutto”. Una parola questa che, Vera riflette, non basta a esprimere quello che prova in quelle giornate nelle quali continua a vivere con Mario, parlare con lui nella sua mente, sentirlo accanto a lei.   
Leggere, scrivere, studiare, studiarsi non è, per Vera, un lavoro. È semmai una delle infinite forme che l’esistenza può assumere. “Essere” una storica; non “fare” la storica. E così, nel momento più difficile della sua vita, questa sua forma particolare di esistenza la soccorre e la storica Vera diventa protagonista della sua storia privata. Gli autori e i personaggi dei libri che la circondano nella sua casa per il resto vuota, sono presenti, anche se certo in una forma particolare della presenza, come lo sono i ricordi.
Ricordare come riportare al cuore, dunque, che è diverso dal riportare alla coscienza. È questa l’operazione alla quale Vera si dedica trovando in essa momenti di quella consolazione della quale avverte il bisogno. Rendere presente il passato nel ricordo come soltanto nel cuore può in certi momenti per il baleno di un istante avvenire, e certo la lezione di Bergson, al quale Babini ha dedicato nel 1990 per “Il mulino” il saggio La vita come invenzione. Motivi bergsoniani in psichiatria, deve esserle ritornata alla mente e al cuore mentre scriveva queste pagine.
Nel libro vita, storia e scrittura sono legate tra loro in modo autentico e immediato e tendono a confondersi l’una nell’altra, nelle due direzioni, senza soluzione di continuità. La vita che, appena trascorsa, è già storia e che possiamo trasformare in scrittura, dandole in certo modo nuova vita; e la scrittura che entra nella storia della nostra vita col ribaltarsi nella lettura.
Così, chi potrebbe affermare che Achille e Ulisse, Amleto, Quijote, Emma Bovary, Raskolnikov, Ivan Karamazov, e ora anche Vera naturalmente, non facciano parte della propria vita, come ne fanno parte le persone reali che incontra, dopo che un libro gli ha svelato i loro segreti e li conosce a volte meglio di come si possano conoscere le persone realmente reali tutto intorno?
Presenza nella reale realtà, presenza nel ricordo, presenza nella scrittura; è tra queste “realtà multiple”, come le definirebbe William James, che si dipana la vicenda di Vera in quelle giornate. Nelle quali il ricordo, evocato a volte da un’immagine fotografica che è anch’essa come la scrittura una delle dimensioni possibili della realtà, un altro modo di continuare a esserci, aiuta a non rassegnarsi, non arrendersi alla perdita. Lottare caparbiamente, per un momento ancora, perché il passato non passi.
Trovo insufficiente, e in certo modo tautologico, il titolo che il quotidiano “Il Manifesto” ha attribuito alla, per altri aspetti sensibile e bellissima, recensione del libro da parte di Lisa Bentini: “Evocare la mancanza significa pensarla”. Credo che significhi molto di più: significa presentificarla, almeno per il baleno di un attimo, in un certo senso, in una certa dimensione.
La storia è, in fondo, un’operazione contronatura che consiste nel recuperare tracce della vita passata – la nostra e quella degli altri – fissarle su un supporto attraverso la scrittura e volerle sottrarre almeno per qualche tempo all’oblio, al quale ogni momento della vita di ciascuno di noi sulla terra è destinato.
Così, di fronte alla violenza, all’assurdità del fatto che Mario non è più lì con lei, Vera lo cerca dove solo lo può cercare; comincia a guardarsi indietro. Ma quest’operazione si allarga a ventaglio e finisce per recuperare, pescando a caso nelle due scatole delle fotografie di famiglia, la sua e quella di Mario, il ricordo non solo della mamma, con le incognite e le sorprese di prima che fosse la mamma, ma anche di tanti altri personaggi che entrano ed escono di scena uno dopo l’altro.
È un’esperienza che ho ben presente, questa necessità che di fronte alla morte talora si avverte di sostare, questa riluttanza a ripartire. E che questo racconto di Babini mi ha evocato, svolgendo così la funzione che forse sempre dovrebbe svolgere la letteratura. Evocare in chi legge le proprie emozioni, in una sorta di dialogo o di rispecchiamento con le emozioni che chi scrive attribuisce al personaggio, nella forma distanziata e mediata che la scrittura-lettura consente.
Ricordo che quando persi la nonna paterna scrissi una poesia, nella quale esprimevo il desiderio che la veglia funebre potesse protrarsi ancora per un po’; poter sostrare un po’ di più in quello spazio ambiguo, sospeso tra la presenza del corpo e l’assenza della vita. Diceva tra l’altro: «i ricordi – son trine di medusa – che all’alba di domani – non troveremo più». E che l’estate successiva feci un viaggio nella sua Puglia, a cercarne le tracce e scrissi: «Alberobello – c’è un posto nel mio cuore – per le tue pietre di fiaba e di memoria». Così fa Vera, che si chiude in casa e sente il bisogno di accarezzare il suo passato e quello degli altri, e lasciarsene accarezzare.
Dopo la morte di mio padre, mi dedicai per tre anni a completare e scrivere la storia della nostra famiglia, al recupero dei cui tasselli lui si era dedicato per tutta la vita. Dal “libretto” che lui avrebbe desiderato scrivere è nato L’ordito e la trama; un libro pesante da trasportare, impossibile da leggere d’un fiato dall’inizio alla fine. Dove i momenti significativi di ciascuna delle esistenze che mi avevano preceduto potessero essere fissati nel ricordo. E dove ciascuna di quelle esistenze, anche quelle brevissime cessate dopo i primi giorni, come spesso avveniva nelle generazioni passate, trovasse un ricordo.
Come se la morte di una persona cara potesse, tra le reazioni possibili, evocare il desiderio di sfidare il tempo. Di dire al tempo: “questo no, non lo avrai, ti ho fregato, questo rimarrà nel ricordo. Almeno, finché tutte le copie di questo libro non saranno bruciate o consumate, finché la lingua nella quale è scritto non sarà più parlata”. Forse, è una reazione allo scorrere del tempo quando si fa impietoso, comune tra coloro che proprio per questa loro tendenza inclinano alla passione per la storia; coloro cui piace tanto, come a Vera, «ficcare il naso nel passato». Sostare, guardarsi indietro, recuperare, salvare attraverso il ricordo mentre tutto sembra precipitare nella perdita. Altri, all’opposto, provano orrore, terrore o fastidio per quel sostare accanto alla morte, in una dimensione che è vita e morte insieme; e provano una grande fretta di ripartire. Subito, senza indugio.
La storia della propria famiglia si trasforma anche, per Vera come per tutti noi, nella storia d’Italia e del mondo. Così, è inevitabile l’incontro, subito una o due generazioni indietro, con la questione ancora dilaniante e oggi rediviva, del fascismo e dell’antifascismo. I parenti che hanno aderito al fascismo che quasi tutti noi incontriamo con imbarazzo (accanto a quelli che vi si sono opposti, dei quali siamo orgogliosi) appena ci voltiamo indietro: difficile giudicarli (troppo facile, adesso); ingiusto giustificarli (solo le vittime, potrebbero).
Di questa galleria di personaggi qualcuno mi ha colpito soprattutto. “Vera grande”, ad esempio, la cugina della madre dalla quale “Vera piccola”, la protagonista, ha avuto il nome, dall’adolescenza esotica trascorsa in Africa orientale e il suo viaggiare sola a bordo di una Vespa per l’Italia del dopoguerra, simbolo di un Paese desideroso di ripartire dopo la catastrofe e di una donna desiderosa di trovare uno spazio diverso dal passato, nel ’47. “Vera grande” che aspirava la sigaretta mentre raccontava del suo viaggio. È a lei, all’atmosfera esotica ed emancipativa a un tempo che evoca, a quel suo viaggio per un’Italia libera che la memoria di Vera ritorna mentre compie a sua volta il primo viaggio fuori casa, fuori Bologna, alla guida verso quel Piemonte che era di Mario.
È una memoria che passa attraverso il corpo, i gesti: il guidare dell’una che evoca quello dell’altra.
Ed è un degradare spontaneo della memoria quello che in quel caso Babini ci illustra, quasi un procedere per libere associazioni, un flusso spontaneo di ricordi, un lasciarsi guidare dagli strappi di “quel guinzaglio invisibile che è la memoria”, un guinzaglio che insieme ci trattiene e ci consente una certa limitata libertà. Che porta la mente di Vera a scorrere da “Vera grande” al diario di Mario Tobino, e poi a Mario, il suo Mario, e poi bruscamente al presente, a Raissa, la persona che sta cercando e nella quale si è imbattuta per caso. E poi, ancora, si riallacciano i fili del ricordare, e la memoria ritorna a Mario, al primo incontro tra loro, alle emozioni dei suoi diciassette anni.
Diciassette anni… Ritrovarsi adolescente, rimanere adolescente. Per chi non lascia l’università e vi rimane passando insensibilmente dallo studio, alla ricerca, all’insegnamento, forse, è un’esperienza più facile. Così, Vera può cominciare a lasciarsi alle spalle il suo doppio lockdown, quello di tutti e quello suo privato che il dolore le ha imposto, e in un’Italia che ora è più facile attraversare da una regione all’altra può andare verso il mare, sognare di Anna, incontrarsi con Anna. Sono passati esattamente sei mesi da quando Mario è con lei in questo modo nuovo, diverso; e insieme non c’è. Ora forse può permettersi di entrare in uno stadio nuovo del dolore e del ricordo; uno stadio che adesso le permette di uscire dalla gelosa clausura che le è stata necessaria, e di portare il dolore e il ricordo insieme a sé. Perché “al dolore non si sfugge”, certo; ma, forse, possiamo trovare un modo per poterlo portare con noi e vivere sentendocelo dentro, a volte mordere, a volte tenerci semplicemente compagnia.

Nel video: Valeria Paola Babini parla della Riforma Basaglia.

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