I Peter Pan della globalizzazione
Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
di Leonardo (Dino) Angelini

Gruppi di protezione e gruppi di unità sovrapposte all’interno della scena scolastica

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10 marzo, 2023 - 18:50
di Leonardo (Dino) Angelini
 
(Parma, Relazione al Corso di aggiornamento:
"Funzioni dell’educatore nel lavoro individuale e di gruppo
con gli studenti disabili
, 9.6.2014)

1-Gruppi esterni e gruppi interni
 
Etimologicamente il termine "gruppo" ci riporta alle immagini di groppo, nodo, groviglio.
Ognuno di noi si trova sempre a confrontarsi con due tipi di gruppo: i gruppi esterni (quelli che sono di fronte a noi) e i gruppi interni (quelli che sono dentro di noi); cosicché tutti noi siamo presi come in un duplice groviglio.
Fra gruppi esterni e gruppi interni vi è un rapporto.
 
Per far comprendere come ciò si determina partiamo dal mondo dei computer: se io scrivo un documento in "doc" su di un computer i segni che lascerò nel computer sono duplici: da una parte ci saranno quelli che vedo, dall'altra quelli in "back", quelli nascosti.
La caratteristica di questi ultimi è quella di rimanere in memoria anche qualora, per qualsiasi accidente, i documenti che appaiono sul video vadano cancellati.
 
Quasi allo stesso modo (inutile dire che quel "quasi" in questo caso è importantissimo) ogni volta che abbiamo a che fare con un gruppo esterno contemporaneamente attiviamo e modifichiamo il nostro mondo gruppale interno.
 
"Quasi" allo stesso modo poiché, mentre le modifiche nel meccanismo freddo del computer, sono automatiche e fedeli al messaggio nuovo che proviene dalla scena in "doc", nel nostro caso, cioè quando analizziamo la natura del rapporto fra gruppi esterni e gruppi interni, la situazione è molto più dinamica:nel nostro mondo interno infatti vi è un dialogo, un confronto, uno scontro, un dinamismo che fa si che di fronte ad ogni nuova esperienza, nulla, al limite, rimanga al proprio posto (soprattutto di fronte alle novità più impreviste e sconvolgenti).
 
Cosicché il nostro gruppo interno è il precipitato di tutte le introiezioni che abbiamo avuto modo di fare durante la nostra vita. In base a questo lavoro di sedimentazione dinamica che avviene dentro di noi finiamo con l'"essere abitati" da una folla di "personaggi" che fra di loro sono, appunto, in un dialogo più o meno organico, più o meno ricco a seconda di come noi siamo fatti.
 
Un problema sorge immediatamente a questo punto, quello dell'integrazione fra tutte queste parti, fra tutti questi personaggi.
Ad esempio se, per un qualsiasi motivo sono stato educato a non accettare l'alterità (il bambino \ il barbaro \ la donna \ il terzomondiale \ l'handicappato,etc) quando quest'alterità me la troverò di fronte farò fatica ad accettarla poiché dentro di me quel tal personaggio, che pure mi abita, e che l'incontro con l'altro, esterno a me, ha evocato, non è integrato nel mio universo gruppale interno. Se ne sta lì in disparte, in una qualche zona periferica del mio essere, non dialogante con le altre parti,  con gli altri miei personaggi interni.
 
Riprendendo la metafora "etimologica" iniziale, nel groviglio di personaggi interni che ci definiscono, alcune parti sono più facilmente dialoganti, in primo piano; altre parti, invece, sono meno abilitate a parlare (a parlarci, a parlarsi le une con le altre); altre ancora sembrano non avere diritti di cittadinanza (sembrano! in effetti ci sono, anche se non sono le benvenute per i personaggi "più illustri e centrali"; sono lì a "rompere le scatole", sono viste come parti impresentabili: vedi tutto il discorso fatto a proposito dei teaching desaises sull'aggressività per esempio.
 
 
 
2-  Gruppi esterni e gruppi interni: cosa avviene nella scena scolastica
 
Anche in classe da una parte, per ciascuno degli attori presenti sulla scena, cioè per ciascun discente e per ciascun docente, abbiamo l'universo gruppale esterno, visto nella sua doppia conformazione di gruppo di pari (di coetanei, per i discenti \  degli altri colleghi, per i docenti) e di gruppo misto docenti-discenti.
Dall'altra, e sempre per tutti gli attori, abbiamo tante riproduzioni in "back" della scena esterna quanti sono gli attori, riproduzioni destinate ad essere sconvolte ogni volta che qualche elemento di novità penetra dentro la classe.
 
Ma, poichè compito della scuola è proprio quello di trasmettere il sapere, gli elementi di novità in classe sono diuturni, continui, inarrestabili: docenti e discenti sono esposti a queste "radiazioni" in ogni momento al di là di qualsiasi schermo protettivo rappresentato dal rituale pedagogico,dalla trasformazione in sintomo, dalla diffusione del sintomo,etc.                
 
Tali elementi,inoltre, non provengono solo dal sapere cristallizzato nelle discipline, nelle materie, ma anche (come abbiamo imparato la volta scorsa) da come noi siamo con tutto il nostro essere.
La classe diventa così una camera degli specchi in cui ciascuno riconosce nell'altro tutto ciò che può essere riconoscibile o proietta nell'altro tutto ciò che non si vuole o non si può riconoscere.
Per convincerci potremmo fare l'esempio del leader negativo che è lì a prendere su di sè le parti che nessuno vuole assumere, o quello del leader positivo che con il suo comportamento corrisponde pienamente al potere desiderante dei docenti, o quello del clown ,dell'handicappato,etc, ognuno dei quali riflette parti degli altri ritenute buone, cattive, bambine, adulte, cooperative, non cooperative,etc.
Allo stesso modo funzionano  le varie figure dell'insegnamento, cioè le varie possibilità di definirsi come docente,come abbiamo visto nell'incontro scorso sui problemi dell'insegnamento.
Senza contare poi che ci sono infiniti modi di esser leader negativo, positivo,etc.
La camera degli specchi cioè è enorme ed ognuno ha la possibilità sulla scena scolastica non solo di interpretare vari personaggi, più o meno ispirati al passato familiare di ognuno, ma anche di conoscere, o di ri\conoscere nuovi e vecchi personaggi che non si ha potere o cuore di interpretare, ma che, pure, lì qualcuno interpreta.
 
 
 
3-  Gruppi di protezione e gruppi di unità sovrapposte
 
La membrana gruppale nella quale ciascuno di noi è avvolto si forma,afferma Winnicott, a partire dalla membrana duale originaria che coinvolge la madre ed il bambino.
Tutte le successive espansioni della membrana gruppale  avvengono in base e sotto l'influenza di questa prima embrionale membrana.
Il concetto di membrana individuale, che è sempre di Winnicott, ci riporta, in un certo senso, alla membrana gruppale.  Prima, afferma Winnicott, c'è bisogno di quella speciale membrana gruppale che è la diade madre \ bambino perchè il bambino continui a vivere dopo la nascita. Dopo, in un secondo tempo si forma la membrana individuale, e ci• avviene gradualmente mano a mano che il bambino è in grado di affrontare la solitudine, la separazione. Alla fine di questo processo l'individuo è (cioè esiste) in quanto essere distinto,indifeso,nudo (per approfondire questi concetti tenendo di vista l'adolescente handicappato vedi: Angelini e Bertani,1992).
                       
Nel processo di espansione dalla diade iniziale ai successivi gruppi (comprendenti all'inizio il padre, poi via via i fratelli, la scuola,etc) si definisce una dialettica fra identico ed autentico, cioè fra tutto ciò che in noi viene, in base alle introiezioni via via annodate nel groviglio della nostra gruppalità interna, e tutto ciò che noi siamo indipendentemente da esse.
E' ancora Winnicott a distinguere fra due tipi di gruppo. Esistono infatti per lui gruppi di unità sovrapposte e gruppi di protezione.
 
I gruppi di unità sovrapposte rappresentano la formazione matura del gruppo: in questi gruppi ciascuno è dentro al gruppo e ne condivide la membrana gruppale, ma nello stesso tempo mantiene la propria membrana individuale e perciò partecipa con la propria individualità al gruppo.
 
I gruppi di protezione invece sono composti da soggetti relativamente non integrati (o almeno temporaneamente non integrati). Si tratta quindi, ad esempio, di tutti i gruppi (comprese  le classi) che aggregano soggetti in età evolutiva.
In questo caso ciascuno è nel gruppo e ne condivide la membrana gruppale, ma non ha una membrana individuale sufficientemente solida da permettere una partecipazione critica, autonoma al gruppo. Da ciò l'esigenza di protezione.
 
Attenzione,però, questi due modelli winnicottiani sono due modelli estremi: in realtà vi è sempre un mix in ciascun gruppo fra istanza di autonomia e istanza di protezione.
Altra notazione di Winnicott: il gruppo di protezione deve essere ristretto "per permettere un contributo individuale" da parte di tutti. Ne discende una critica alle megastrutture,soprattutto alle megastrutture totali (Goffman):perchè lì non è possibile che l'operatore possa dare un contributo individuale (cioè individualizzato, continuo, caldo, ravvicinato).
 
 
 
4- Gruppi di protezione in scuola ed handicappati
 
La classe,come abbiamo visto, è un gruppo di protezione sia per i normodotati che per gli handicappati.
Però per i normodotati la dialettica fra identico ed autentico è tale che con il passare degli anni il gruppo di protezione ha sempre meno bisogno di protezione poiché il ragazzo è sempre più in grado di mantenere (in condizioni normali) la propria membrana individuale quando entra nel gruppo-classe.
Ma per gli handicappati purtroppo le cose non stanno in questo modo: se noi riandiamo al concetto di stabile identità precaria (Montobbio, Bertani) vediamo come l'handicappato abbia solo una autoconsapevolezza vaga di se stesso, dei propri limiti, delle proprie possibilità residue, accentuata spesso dall'atteggiamento infantilizzante delle famiglie e dell'ambiente in generale (compresa la scuola).
Per cui, alla fine, abbiamo una dinamica fra polo dell'esigenza di protezione e polo delle possibilità di crescita autonoma che è molto diverso fra i primi ed i secondi: le esigenze di protezione, cioè, nel caso del soggetto handicappato sono molto più marcate per tutta la vita.
 
 
 
5-  L'integrazione dell'handicappato nel gruppo-classe
 
Per prima cosa guardiamo a come il problema si pone qui, oggi:
il problema, infatti, non può esser affrontato in astratto, una volta per tutte, ma va commisurato alle possibilità che questa situazione concreta,o "quella", o "quell'altra ancora", in altrettanti concreti momenti storici, offrono agli operatori.
 
Oggi: cioè dopo che è stata affrontata e vinta la battaglia sull'inserimento. In altre situazioni, infatti, il problema dell'integrazione si pone in maniera diversa, o non si pone affatto:ad esempio la Puglia vive oggi non i problemi dell'integrazione, come invece accade qui da noi, ma i problemi dell'inserimento, così come la Francia, a causa della separatezza dei luoghi di educazione degli handicappati, non si pone né i problemi dell'integrazione scolastica e neanche quelli dell'inserimento.
 
Qui: cioè a Reggio Emilia, con tutta la nostra storia alle spalle, e ciò sia nel bene che nel male. Nel bene poiché la relativa sicurezza che ci viene dal passato ci aiuta. Nel male perchè la tradizione, nello stesso momento in cui aiuta ed orienta, può con la sua pesantezza,  con i suoi fantasmi, incombere sul presente avvilendo la ricerca e la sperimentazione.
 
Definite così le coordinate ambientali e temporali delle nostre problematiche attuali, veniamo ora alla distinzione fra inserimento ed integrazione.
 
Per inserimento qui si intende non la mitologia della socializzazione (intesa come inserimento nel gruppo di pari). La socializzazione così definita, infatti, da sola, circoscrive una specie di luogo mitico, che dovrebbe avere di per sè delle qualità taumaturgiche, che presto però si rivelano delle chimere: ad esempio in preadolescenza il ragazzo normodotato, che ha già a che fare con delle problematiche che attengono alla propria corporeità, non facilmente è disposto - nei fatti - a de\centrarsi su questo piano. Lo stesso soggetto magari prima, in latenza, era disponibile nei confronti dell'handicappato, era disposto alla socializzazione.
Si intende invece riferirsi alla pedagogia dell'inserimento: esiste infatti una pedagogia dell'inserimento che implica innanzitutto una attenzione nuova (rispetto al periodo precedente della segregazione dei diversi) da parte dell'adulto nei confronti dell'handicappato: se non c'è questa mediazione, che è soprattutto una mediazione di tipo culturale, che deve impregnare porzioni importanti della società, non c'è inserimento degno di questo nome.
 
L'integrazione invece qui, cioè in questa relazione, viene intesa nel doppio significato di:
1.integrazione nel gruppo (dalla periferia al centro ,dalla posizione di bambino piccolo a quella di bambino competente, dalla inconsistenza, fragilità della membrana individuale all'abbozzo di una membrana più solida e definita,etc.); 2.integrazione nel Sè di parti di sè che prima l'handicappato non presupponeva di avere.
Questo secondo aspetto dell'integrazione ci riporta al tema, importantissimo in adolescenza per il ragazzo handicappato, della  autoconsapevolezza,seppur vaga, dei propri limiti e delle proprie capacità, che in questa età comincia a diventare il problema per eccellenza del ragazzo e della sua famiglia.
Poiché, fra l'altro, tale tema si interseca con il tema,tipico per i CFP (Centri di Formazione Professionale), del "fare", si può capire quanto importante sia per noi oggi affrontare anche questo argomento e,quindi, non intendere l'integrazione solo in termini "esterni", ma anche "interni".
 
Ma l'azione educativa del docente si svolge in luoghi esterni definiti, che non è detto che siano piattamente la classe con il suo corredo di lezioni cattedratiche. E' corretto, perciò, chiedersi: integrazione dove?
A mio avviso ci sono almeno sette luoghi in cui, in maniera discriminata, è possibile che l'azione educativa si dispieghi.
Per "maniera discriminata" si vuol dire che ci sono delle cose che si possono fare in certi luoghi e non in altri, a seconda della programmazione individuale dei  singoli discenti, che a sua volta va calibrata sulle concrete possibilità che la classe, nel suo complesso (altri docenti, altri discenti, materie,etc.) offre.
Vediamo perciò, molto sinteticamente, questi sette luoghi, e per ciascuno di essi abbozziamo appena quelli che sono i problemi che pongono e le possibilità che offrono. Il lavoro di integrazione può avvenire:
 
a- in classe  svolgendo lo stesso lavoro degli altri:
-Tema centrale in questo caso è quello dell'autenticità, del senso che quest'attività ha per il singolo ragazzo, in quel momento dato.
-La questione dei tempi di insegnamento e di apprendimento: Sandino e la velocità del gruppo in marcia.
-il rapporto con il gruppo dei docenti titolari :chi investe in chi.
-parlare sottovoce (: esserci o non esserci, questo è il problema).
 
b- in classe\ lavoro per gruppi
-le attività parallele e i diversi tempi di attenzione e di concentrazione.
-la composizione dei gruppi e la lettura del gruppo di pari sotto il profilo della leadership.
-la suddivisione dei compiti fra i docenti: il sostegno come risorsa.
-come lavorare con i gruppi per aumentare i tempi di attenzione e concentrazione.
-avviare alle attività parallele quelli che smettono di applicarsi nell'attività principale.
-consolare gli "afflitti".
 
c. in classe \ lavoro individualizzato
-lavorare in classe su di un altro tema è come sentire solo "l'odore" della classe;
-ma l'odore della classe può, però, diventare una risorsa:dove non c'è ordine non c'è lavoro: la stessa cosa avviene negli stages
-parlare di altre cose: la frustrazione e la riparazione;
-l'educatrice montessoriana e il suo grembiulone pieno di risorse.
 
d. fuori della classe\ in gruppi per classi parallele
-la dimensione orizzontale: programmazione o caos;
-la dimensione verticale:funzione tutoria;
-nella programmazione ci siamo anche noi;
-attività parallele (vedi sopra);
-la rete dei docenti e il fantasma dell'autonomia dell'insegnamento.
 
e- fuori della classe\ in gruppi speciali
-traditori! il peso della tradizione rischia di buttare a mare l'acqua sporca col bambino dentro;
-i luoghi esterni:scantinati o ateliers?(specie in adolescenza!);
-la composizione dei gruppi: risponde ad esigenze dei ragazzi o dell'istituzione?
-i parenti poveri non sono invitati alla festa.
 
f- fuori della classe\ in un lavoro individualizzato
-il recupero del lieve;
-il luogo di vita, insieme alla classe, del grave;
-il rispecchiamento esclusivo con il docente di sostegno;
-i lentissimi progressi dell'handicappato e la pazienza del docente  nell'attenderlo.
 
g- in gruppi verticali\ con normodotati
-perchè non sono usati?Eppure sono una risorsa;
-funzione tutoria ed educazione alla tolleranza dell'altro da me.
 
 
 
 
6- Programmare\ programmarsi
 
Penso appaia chiara da quanto fin qui è stato detto la necessità di definire una programmazione individuale: ogni ragazzo ha bisogno di un mix specifico e dinamico delle opportunità di cui sopra:
-specifico: e cioè adatto alle capacità e ai limiti del singolo;
-dinamico: che cioè varia nel tempo e con il variare dell'ambiente, dove per ambiente si intende la famiglia, la classe, gli altri docenti,la scuola, i riabilitatori,etc.
 
Programmazione individuale cioè come legata strettamente alla programmazione generale di classe e di plesso: qualora venga a mancare questo secondo aspetto della questione, o qualora non vi siano nella classe e nel plesso tempi e luoghi psicologici, innanzitutto,(cioè disponibilità da parte degli altri docenti), ma anche istituzionali, il lavoro con il singolo handicappato in buona parte è compromesso poichè verranno sicuramente sottoutilizzati i luoghi  di cui sopra (penso che l'esempio fatto prima del mancato utilizzo, per pigrizia istituzionale, della risorsa dei gruppi verticali stia lì a dimostrare quale spreco di ricchezza a volte si fa in scuola).
 
Detto questo vediamo per ultimo quali sono gli elementi basilari necessari alla programmazione:

-Innanzitutto l'osservazione:
-Il docente,cioè, dovrebbe avere voglia di inforcare gli occhiali che gli  permettono di osservare;
-dovrebbe inforcare gli occhiali giusti;
-sapendo che i suoi occhiali  sono diversi da quelli che ogni suo collega a sua volta inforca, e che pertanto è dalla osservazione incrociata (e perciò programmata) che nasce il seme della programmazione stessa;
-osservare infine sapendo bene cosa,come e perchè, altrimenti la nostra diventa una osservazione non professionale, ma dilettantesca e perciò arbitraria.
 
-La stesura del piano di lavoro:
-intendendo ,come dicevamo prima la programmazione come individuale,  di classe e di plesso;
-definendo minuziosamente gli obiettivi adatti a quel singolo, a quella classe, a quel plesso;
-obiettivi quindi che devono essere né troppo bassi, né troppo alti;
-obiettivi da raggiungere,infine, mediante strumenti adatti (il grande tema della didattica)
 
-le verifiche:
-verifiche con chi, innanzitutto:vi è cioè un problema di direzione che può essere risolto in termini burocratici, e allora la leadership sarà gerarchicamente intesa, o tecnici, e allora il leader sarà compartecipe delle scelte professionali;
-su che cosa: è il problema della fissazione dell'ordine del giorno, problema non secondario,come pare a prima vista, se si vuole evitare il "riunionismo",cioè il discutere a lungo ed a vuoto;
-con quale periodicità: dove, a mio avviso, dovrebbe vigere la norma del "meglio meno,ma meglio";
-vi è infine il problema della circolarità della programmazione: dovrebbe essere prevista la possibilità degli aggiustamenti "in itinere", la programmazione cioè dovrebbe non essere rigida, altrimenti ci si esautora dall'osservazione longitudinale, o dall'osservazione "tout court", qualora l'osservazione venga demandata, anche all'inizio dell'anno, a qualchedun altro.
 
-gli strumenti:
-il grembiule dell'educatrice montessoriana è pieno di opportunità, allo stesso modo dovrebbe essere fatta la nostra classe;
-sapendo per• che il vero grembiule, le vere risorse sono dentro di noi;
-il nostro, infatti, è un mestiere a basso bisogno di tecnologia "esterna" a noi stessi;
-tutto ( o quasi) è dentro di noi (si spera);
 
-La supervisione:
-"contro il logorio della vita moderna..", cioè contro il "burn out", che è lì sempre in agguato quando si lavora con degli handicappati, che danno poche soddisfazioni perchè non progrediscono, non guariscono,etc.
-per programmarsi, che è altrettanto importante che programmare;
-per scoprire quelle parti, quei personaggi che non presupponevo di avere ed usarli al meglio (sublimazione: nella libera attività educativa);
 
 
-la poli-professionalità (la rete) e la rete di reti:

 - cioè la collaborazione fra servizi che hanno tutti in sè una poli-professionalità;
-altrimenti la gravità rischia di  trasformarsi in gravosità: se manca una rete infatti tutto il peso del lavoro cade su di una sola professione, al limite su di un solo individuo, che a quel punto facilmente finisce col soccombere e col vedere come grave qualsiasi situazione (è questa la gravosità);
- perchè qui,con l'handicappato, c'è bisogno di tutti e nessuno è in grado di lavorare da solo in maniera efficace e senza eccessivi rischi di "burn out".
 
-ed infine la modulazione della protezione
-l'adulto cioè non dovrebbe sostituirsi al ragazzo, ma svolgere una funzione di mediazione;
-intendendosi con ciò non l'abbandono del ragazzo in quella che a lui appare come una "Babele dell'essere produttivi", ma anzi il prenderlo per mano per far provare a lui, con la nostra mediazione, cosa significa il lento e graduale ingresso nel mondo del lavoro.

 
BIBLIOGRAFIA:
 
- L.Angelini, Membrana individuale e membrana gruppale nell'adolescente handicappato, in: Angelini e Bertani,1992,Setting riabilitativi con gli adolescenti handicappati, Usl N.9 di Reggio Emilia,pp.135-148.
- D. Bertani, L'osservazione dell'adolescente handicappato, in: Angelini e Bertani,1992,op.cit.
- L. e R.Grinberg,1976,Identità e cambiamento, Armando, Roma.
- E. Montobbio,1981,Handicap e lavoro, Edizioni del Cerro.
- D. Napolitani,1987,Individualità e gruppalità, Einaudi, Torino.
- D. Winnicott, 1986 ,Il bambino deprivato, Raf. Cortina, Milano.

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