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Franco Basaglia, la città e la cura. Una riflessione nel centenario della nascita

1 Feb 25

Intervento introduttivo alla giornata “La città che cura. Partecipare è prevenire” organizzata dal Patto ligure per la salute mentale al Palazzo Ducale di Genova, Sala del Maggior Consiglio, il 30 gennaio 2025.

È per me un grande onore poter commemorare oggi questo grande psichiatra, la cui azione si presta a essere considerata nel campo della filosofia, dell’azione politica o, e credo che sia la funzione in cui può dare di più, della psichiatria. E insieme è un’impresa difficile cogliere nei dieci minuti che mi sono concessi, dopo avergli dedicato 750 pagine in due volumi, l’essenziale.

Ma è difficile anche perché commemorare Basaglia con l’impegno a non tradirlo significa far riecheggiare tra noi la sua parola potente e scandalosa, che è una parola scomoda; di molte delle cose che facciamo credo che sarebbe contento, e sono del resto in buona parte quelle che lui ci ha insegnato; di qualcuna invece non si accontenterebbe, e credo che ci incoraggerebbe a fare di più. Ed è su queste che ci soffermeremo.

Basaglia del resto si accontentava difficilmente anche di sé stesso.

Quando Basaglia è entrato in ospedale psichiatrico, nel 1961 a Gorizia, tra le prime cose a colpirlo fu la contenzione fisica alla quale una gran parte degli internati era sottoposta, e nella contenzione fisica ha subito individuato uno degli interventi più umilianti dei quali una persona affetta da una malattia mentale possa essere oggetto, uno degli interventi più rischiosi per quella dignità sulla quale ha richiamato poc’anzi l’attenzione monsignor Tasca..

Il contrasto alla contenzione fisica, che lo vide impegnato per anni e che gli costò, come costa sempre, grande fatica, costituì quindi per lui da subito uno strumento imprescindibile per restituire alla persona dignità.

E non posso accennare, qui, alla questione della contenzione fisica senza ricordare che esattamente vent’anni fa, negli stessi giorni d’ottobre nei quali doveva cadere questa giornata, in questo stesso Palazzo Ducale, Genova dedicò due intere giornate a interrogarsi pubblicamente su di essa. Sulla questione della contenzione fisica non come un problema degli psichiatri e ancor meno un problema degli SPDC, ma come un problema della città, che ha a che fare, come Basaglia scoprì a Gorizia, con l’impegno che una città è disposta a metterci per riconoscere dignità a tutte le persone.

E credo che se oggi Basaglia oggi fosse qui tra noi, ci suggerirebbe che, a vent’anni di distanza, questo tema dovrebbe ritornare nel discorso pubblico di questa città.

Quando poi, nel 1977, Basaglia riuscì a chiudere l’ospedale psichiatrico di Trieste, era consapevole del fatto che il suo non era, in quel periodo, il solo ospedale psichiatrico a essere chiuso. Contemporaneamente, un forte ridimensionamento del numero di posti letto in ospedale psichiatrico era in atto nella California del governatore Ronald Reagan. Ma Basaglia rivendicava nei suoi scritti con orgoglio una differenza tra le due esperienze, e questa differenza era che negli Stati Uniti le persone dimesse dall’ospedale psichiatrico erano abbandonate a sé stesse e divenivano homeless, mentre a Trieste ci si era preoccupati che nessuna persona dimessa dall’ospedale psichiatrico finisse a dormire per strada.

Questo risultato era stato reso possibile da una forzatura istituzionale che Basaglia, insieme al giovane presidente democristiano della Provincia, Michele Zanetti, aveva operato attraverso l’invenzione della figura dell’ospite, con la quale era possibile assicurare che il dimesso dall’internamento potesse continuare a ricevere dall’istituzione provinciale la garanzia di un letto, nel quale essere certo di poter vivere fino a una soluzione migliore.

Mi pare che attraverso il modo nel quale ha affrontato queste due questioni, Basaglia ci lasci almeno quattro insegnamenti.

Il primo è che quella di evitare la contenzione fisica e quella dell’abitare, o almeno di dormitori sufficienti in numero e ospitali e dignitosi nell’accoglienza, sono questioni che stanno al fondamento della costruzione di una città che cura, e la costruzione della città che cura, come di ogni altra città, deve partire dalle fondamenta.

Il secondo è che nell’incontro tra le regole che le istituzioni si danno e i bisogni delle persone, sono sempre le regole a doversi adattare ai bisogni, che sono dei due l’elemento invariabile, e le istituzioni non possono pretendere che siano le persone a declinare i propri bisogni secondo le regole, a volte davvero poco comprensibili, che esse si danno.

Il terzo è che nella costruzione di una città che cura, lo sguardo dal quale partire è quello dell’ultimo: ma chi è l’ultimo? Beh, certamente è la persona legata da altri a un letto ed è la persona che non ha la certezza di un letto dove trovare rifugio la notte. Poi, certo, l’ultimo dal cui sguardo occorre partire è anche il detenuto, ed è anche lo straniero irregolarmente presente sul territorio, con i rispettivi bisogni di salute mentale.

Il quarto insegnamento è che se una città che cura non individuasse le proprie fondamenta nel contrasto della contenzione fisica e nel contrasto al fatto che qualcuno affronti la notte senza la certezza di un letto dove trovare riposo, bene, credo che dobbiamo immaginare che in quella città Franco Basaglia non potremmo lasciarlo… riposare in pace. Ma, anzi, rimarrebbe vivo e presente tra noi come un’istanza scomoda, e radicalmente critica, che continua a interpellare, come interrogava allora, la coscienza… sì, la coscienza, di ciascuno, e che ci sprona tutti a trovare nella scienza l’impegno per una psichiatria più rispettosa di ogni persona e per una città che sappia essere più umana e più giusta: una città che cura.

Nel video: Intervista con Claudio Capitini

 

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