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Transculturazioni e salute mentale. Dai “nostri” emigrati a “quelli–degli–altri”

19 Nov 18

Di Sergio-Mellina
Come ogni altro individuo, lo psichiatra è figlio della propria classe sociale
ed è perciò portato ad ignorare o a mal comprendere
i problemi delle altre classi sociali dei cui membri non sempre
riesce a cogliere compiutamente il linguaggio dei sintom
i”
(Luigi Flavio Frighi)
 

 

Riassunto.
Gli Autori Sergio e Vittorio Mellina, padre e figlio si recarono a Torino, dal 16 al 21 ottobre 2000, per partecipare con una relazione al 42° Convegno della SIP, intitolato: «Dal pregiudizio alla cittadinanza. Il contributo delle neuroscienze, delle scienze umane e delle politiche sociali alla salute mentale». Presiedeva Carmine Munizza. Il titolo della relazione, era Migrazioni, multiculturalità e salute mentale. Trent’anni di esperienze italiane: dai “nostri” emigrati a “quelli–degli–altri”. All’epoca il primo dei due relatori, Sergio, dipendente del SSN, aveva ricevuto l’autorizzazione dalla ASL RM/VIII, dov’era Primario/Direttore del DSM, per l’insegnamento della “Medicina Sociale” e dell’”Etnopsichiatria” al DUSS, dell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia. Il secondo, Vittorio, era Dottore di Ricerca in neurologia all’Istituto di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università “La Sapienza” di Roma (Direttore Prof. Cristoforo Morocutti). Entrambi collaboravano da tempo nel campo della salute delle persone migranti, e di quella mentale/neurologica, in particolare. C’era anche Chiara Mellina, antropologa culturale della scuola romana di Pettazzoni, de Martino, Brelich, Mazzoleni, un’altra della famiglia, figlia del primo e sorella del secondo, che dava una mano più che qualificata nella ricerca sui migranti. Dai puntuali servizi di Francesco Bollorino,  comparsi sulla sua rivista telematica Pol.It Psychiatry on line Italia, siamo stati informati che, nel decorso mese di ottobre 2018, dal 13 al 17 ottobre, s’è svolto, a Torino, il 48° Congresso dell’Associazione degli Psichiatri Italiani, intitolato «Salute Mentale nel Terzo Millennio Obiettivo Guarigione: Ricerca, Innovazione, Cambiamenti e Limiti». Non sembrano esservi cambiamenti nella salute, segnatamente quella mentale, dei migranti di tutto il mondo. Anzi, molti limiti si sono manifestati un po’ dappertutto. Più che limiti, sono emersi preoccupanti ritorni al passato, di sempre. Ostilità, addirittura ripugnanza, artate fomentazioni di paure del diverso, che hanno favorito miserabili e miserevoli guerre tra poveri. La minaccia di fermare la migrazione con l’esercito e la costruzione di muri a spese altrui ha consentito all’attuale presidente USA di non perdere le elezioni di midterm 2018, con l’aiuto di chi gli ha creduto. La marcia dall’Honduras di una popolazione poverissima, disperata, giovane, formata in prevalenza da madri, padri e bambini col miraggio dell’american dream. Ha letteralmente terrorizzato quelli che un tempo erano denominati WASP [01], una pingue categoria di benpensanti che si credevano titolari di alcuni diritti speciali e superiori a quelli di qualsiasi altro nativo o immigrato dal Vecchio Continente. Ma oggi non è più così. L’America è radicalmente cambiata e gli Americani di conseguenza. Frontiere chiuse, no melting pot, molti poverissimi, concentrazione di ricchezze in pochissime mani, dazi, barriere, muri e… “America first!” Ormai la ventilata chiusura delle frontiere è diventata moneta corrente, spendibile in politica con enorme vantaggio in qualsiasi elezione mondiale di chi la propone. Per lanciare un forte messaggio contrario al becero “aiutiamoli a casa loro” senza neppure sapere da dove vengono, gli autori ripropongono a distanza  di quasi un ventennio la sintesi completamente rifatta e aggiornata di quella relazione torinese del 2000.
 
Introduzione
Il focus transculturale acceso dal vecchio Simposio del 42° Congresso Nazionale della SIP sulla psichiatria, non sarebbe divampato senza il combustibile della sofferenza fornito dall’esperienza delle persone che migrano. Gran parte di questi individui veniva da quelle zone del mondo definite “paesi in via di sviluppo”.
Ebbene, vorremmo rammentare brevemente che, circa 40 anni fa, ci fu un dibattito (tutto interno alla sinistra italiana) sul significato da attribuire ai termini sviluppo e progresso. La questione era ben altro che una semplice disputa lessicale tra intellettuali. Essa nascondeva preoccupazioni, niente affatto inutili, sul modello di società possibile che sarebbe toccato in sorte all’umanità in un futuro rivelatosi non poi tanto remoto. Oggi a questo futuro ci siamo arrivati e lo abbiamo anche superato.
Da un lato c’era chi sosteneva, come ad esempio Alberto Moravia (al secolo Pincherle 1907-1990), che bisognasse perseguire con forza l’obiettivo dello sviluppo, dall'altro c’era un profetico e lucidissimo Pierpaolo Pasolini (1922-1975) il quale osservava, con la consueta causticità, che ci eravamo già sviluppati a sufficienza ed era ora che incominciassimo a progredire.
La citazione serviva a richiamare l’attenzione sul fatto che, dopo il grande sviluppo teorico della “transculturalità nella psichiatria mondiale”, sarebbe giunto il momento di pensare concretamente a crescere sul piano della “multiculturalità della salute mentale”, in Italia come altrove.
I tre lemmi del titolo della vecchia relazione “migrazione”, “multiculturalità”, “salute mentale” erano strettamente interconnessi tra loro, mentre nel sottotitolo si faceva menzione del file rouge che legava la complessa vicenda migratoria italiana del secondo dopoguerra mondiale, alla rinascita di un paese distrutto. Un popolo che, oltretutto, usciva da una crudele guerra civile spesso dimenticata. In proposito si suggerisce di visitare il Museo di Roma aperto nell’ottobre 2018 a Palazzo Braschi, intitolato, Il sorpasso. Quando l’Italia si mise a correre, 1946-1961 [02].
Proprio questo periodo, ci ha visto transitare, non senza sussulti, da terra di emigranti (i nostri emigrati) a mèta di immigrati (gli emigrati degli altri). Un’esperienza di cambiamenti radicali, dei quali uno di noi (il più anziano), è stato a lungo attento osservatore, dei Manicomi prima e dei Servizi di Salute Mentale poi.
Spesso si sentono muovere critiche a quei Servizi di Salute Mentale che lavorano su migranti senza disporre di personale che abbia fatto “ricerca sul campo” in Africa, in Sudamerica, nei Caraibi, in Asia. Se vi era questo tipo di competenza, tanto meglio, ma non credevamo fosse una condizione indispensabile e neppure un difetto; anzi poteva valere l’esatto contrario. Il DSM territoriale – già di per sé, agli inizi, luogo di specializzazione stigmatizzante – si sarebbe salvato dalle ambiguità di “Servizio dedicato”. Inutile nascondersi che ciò è sempre sistematicamente accaduto nell’ancor giovane storia dei nuovi Servizi della psichiatria italiana riformata.
L’esperienza diretta, del primo relatore, sulla patologia da migrazione è maturata mentre lavorava “sul campo”, anzi si trovava proprio all’epicentro delle grandi trasformazioni che accadevano nei luoghi pubblici istituzionali, dove la psichiatria asilare si stava dissolvendo e dove la psichiatria senza manicomio andava prendendo forma. Si potrebbe aggiungere che proprio in questi ultimi 30-40 anni e proprio in questi luoghi – a diretto contatto con i protagonisti di un progetto migratorio spezzato – sono sorti i primi interrogativi sui difficili transiti culturali delle ondate migratorie: quelle nostre, che rientravano dissestate dalla crisi mondiale e quelle degli altri, che giungevano attonite, scacciate da altre crisi planetarie.
Torna alla mente una sorta di “libro bianco” dei Gesuiti di quattro secoli fa, intitolato “Le Indie de accà”. Nel Seicento – a poco più di un secolo dalla scoperta di Colombo – alcuni componenti della Compagnia di Gesù scoprirono con meraviglia che in talune zone del Mezzogiorno d’Italia sopravvivevano ampie sacche di superstizione, di arretratezza culturale e di credenze magiche, dove gli abitanti avrebbero richiesto molta più attenzione di quanta se ne dedicava ai popoli del “Nuovo Mondo”. Fu così che i Gesuiti denunciarono l’esistenza delle “Indie “ di casa nostra. Era la prima volta, ed a quanto è dato capire non fu l’ultima, visto che alcuni secoli dopo sarebbe stata posta in termini più laici la “questione meridionale”, che dura tuttora. Nel terzo millennio, psichiatri antropologi, neurologi, sociologi ed etnologi, vanno scoprendo che forse non è più indispensabile compiere spedizioni esotiche, per andare a studiare le popolazioni “primitive” nei loro luoghi d’origine. Si può ben dire che l’immigrazione ce le ha portate a domicilio. Basterebbe recarsi nelle grandi e piccole aree metropolitane o nelle zone agricole per accorgersi che le nuove etnie, le più disparate, sono arrivate, ci sono piovute in casa, con tutte le loro innumerevoli necessità. Ciò significa che, a quattro secoli dal “libro bianco” dei Gesuiti, ci troviamo a fare i conti – in Italia e non più nel suo Mezzogiorno soltanto, dove de Martino rilevava dolorosamente come la “miseria culturale” fosse inseparabile compagna della miseria materiale – con “le nuove Indie” di casa nostra e con le “Indie vere” di casa altrui.
 
Migrazioni
Dello status di migrante, sia come condizione di mutamento personale psico-antropologico, sia come esperienza di transculturazione individuale, entrambi gli Autori, tanto lo psichiatra clinico quanto il neurologo ricercatore, erano interessati a comprendere quello che il fenomeno di dislocazione dalla propria terra, era in grado di produrre in termini di risposte nocive sul piano della salute e di quella mentale in particolare.
Una periodizzazione storica delle iniziative italiane assunte concretamente nel campo della salute mentale dei migranti, ci sembrava potesse riassumere efficacemente quanto era stato realizzato negli ultimi quarant’anni circa (1963-2000). Va da sé che intendiamo riferirci sia ai nostri migranti (ormai rimossi dalla grande cesura del 1974), che a quelli degli altri. Segnalavamo come pietre miliari le seguenti date.
  MILANO 1963 – L’Amministrazione Provinciale organizza un Convegno Internazionale sul tema “Immigrazione, lavoro e patologia mentale”, pubblicandone gli Atti nel 1964. Da quanto siamo stati in grado di appurare vi hanno partecipato (chi con relazioni, chi con interventi orali, chi come attento ascoltatore) Carlo Petrò, Gianfranco Garavaglia, Rosalba Terranova Cecchini, Dario De Martis e Tullio Seppilli, il quale tenne un magistrale saggio intitolato L’approccio antropologico-culturale nella individuazione dell’incidenza dei processi migratori sulla patologia mentale..
  VARESE 1974 – L’Amministrazione Provinciale indice un Convegno nazionale sul tema “Psicodinamica e Sociodinamica della Migrazione interna” i cui Atti furono pubblicati da “Il Pensiero Scientifico”, Roma, nel 1975. Uno di noi, insieme ad Antonino Lo Cascio, Adolfo Petiziol, Fausto Petrella, Giorgio Weiss e pochi altri lungimiranti, furono presenti con una Relazione specifica [03].
A questo punto, è rilevante sottolineare una fondamentale inversione di rotta, una vera e propria cesura fra presente e passato prossimo della migrazione italiana. A livello delle Istituzioni nazionali il 1974 viene ufficialmente considerato l’anno in cui ha termine l’emigrazione italiana e inizia quella dai “paesi in via di sviluppo”. Così si chiamavano, perché non c’era la frenesia odierna. Tale delicato passaggio è stato troppo disinvoltamente ignorato (Franco Foschi) e ha dato luogo a quella che noi definiamo “la grande rimozione italiana”, rispetto al proprio passato migratorio.
Sul piano dell’immigrazione straniera, invece, con i relativi problemi interculturali della salute, va dato atto che i primi a segnalarne la comparsa e l’importanza di prospettiva, furono quelli della Scuola Romana d’Igiene Mentale che fa capo a Luigi Frighi. Essi, insieme a quelli della Caritas e quelli della Fondazione “Fernando Rielo”, si prodigarono in uno sforzo imponente per mettere sotto gli occhi di tutti l’emergere di un fenomeno nuovo. Quell’inversione di rotta, appunto, che avrebbe avuto conseguenze, non di poco conto, negli assetti sociali e sanitari del nostro paese.
  ROMA 1988 – L’Istituto d’Igiene Mentale dell’Università “La Sapienza” di Roma, organizza il I Convegno Internazionale intitolato “Medicina e Migrazioni. Problemi di Salute Fisica e Mentale degli Immigrati da Paesi in via di sviluppo”. L’Edizione degli Atti è curata da Frighi, Urrechia, Cuzzolaro e Colasanti.
  Roma 1989 – In quest’anno Luigi Frighi, Massimo Cuzzolaro e Riccardo Colasanti, di concerto con la Fondazione “Fernando Rielo”, propongono un 2° Corso di Formazione sul “Disagio psichico da immigrazione” a “Casa Amica” in Via Palombini. Va detto però che Il 1° Corso, sullo stesso argomento, era stato iniziato e svolto da Frighi e Coll. nel 1987, presso la sede della Cattedra Universitaria d’Igiene Mentale in Via dei Sabelli.
  ROMA 1989 – Maria Immacolata Macioti promuove al Dipartimento di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma (quando ancora la sede si trovava a Piazza Esedra) il I Convegno Nazionale pluridisciplinare intitolato “Per una società multiculturale” (Atti pubblicati da Liguori, Napoli 1991). Il titolo appare profetico e illuminato, come la storia successiva ha poi dimostrato. Si trattò di una kermesse di tre giorni, sotto l’attenta regìa dell’organizzatrice, in cui furono affrontati i moltissimi problemi di acculturazione messi in moto dall’immigrazione nel nostro paese. Fu possibile calcolare che un sesto del tempo fu dedicato alla patologia psichiatrica dell’immigrazione. Alcuni Colleghi (Giuseppe Cardamone, Virginia De Micco) oltre al primo estensore di questo testo, ma anche illustri studiosi di confine (Lanternari, Pugliese, Ferrarotti, Petilli, Melotti, Dassetto, Frigessi-Castelnuovo, Del Re, Maffioletti, Quiroza, De Lourdes, Pimentel), ebbero modo di dare il loro fattivo contributo. Si badi bene che tutti focalizzarono l’attenzione sull’immigrazione e la salute. Questo confermava i segnali di una svolta significativa nel panorama migratorio italiano verso la multiculturalità.
  ROMA 1990 – La Cattedra d’Igiene Mentale dell’Università “La Sapienza” di Roma, la Caritas e la presidenza del Consiglio dei Ministri organizzano il II Congresso Internazionale su “Medicina e Migrazioni. Traumi e Problemi di Salute Fisica e Mentale in Immigrati e Rifugiati” (Atti pubblicati dalla Presidenza del Consiglio, Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1992, a cura di Salvatore Geraci). Anche qui furono tre giorni d’intensi dibattiti, fra i quali ricordiamo alcune magistrali puntualizzazioni di Rosalba Terranova Cecchini in tema di transculturalità.
  NAPOLI POMIGLIANO D’ARCO 1992 – La Regione Campania di concerto con il DSM della USL 27 di Pomigliano D’Arco organizza il “I Corso di formazione sul disagio psichico da transculturazione”. Partecipano Alfredo Dama, Tommaso Esposito, Teresa Arcella, Luigi Frighi, Salvatore Geraci Virginia De Micco e tanti altri.
  PONTEDERA 1993 – L’amministrazione Comunale di Pontedera indice un Convegno Nazionale di due giorni (12-13 novembre) sul tema “Le culture della salute in una società multiculturale”. A conclusione dei lavori ebbe luogo, per generale consenso, la stesura della Carta di Pontedera  [04 Arnaldo Nesti]. Non si trattò certo della “Magna Charta”, ma semplicemente di un documento di raccomandazioni, con prevalenti preoccupazioni operative che metteva a fuoco alcuni punti del rapporto tra culture e salute all’interno del fenomeno migratorio. Se non andiamo errati, erano presenti, oltre al primo autore della presente Relazione, il compianto Luigi Di Liegro, Luigi Frighi, Vittorio Lanternari, Arnaldo Nesti, Claudio Calvaruso, Tullio Seppilli, Riccardo Colasanti, Giorgio Villa e altri ancora.
   PALERMO1994 – Da segnalare la 3^ Consensus Conference sull’Immigrazione “L’immigrato una realtà del nostro tempo. Dall’accoglienza all’integrazione”. L’evento è degno di rilievo poiché coincide con la fondazione della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM)
  PESCARA 1994 – L’Amministrazione Regionale dell’Abruzzo indice una Conferenza Regionale intitolata “Sanità e Migrazioni”. Numerosa la partecipazione di operatori della salute (anche mentale), impegnati nello studio delle patologie migratorie.
  ROMA 1995/1996 – ASL “B”. I Corso obbligatorio biennale per Operatori della Salute Mentale della Regione Lazio: ”Capire il disturbo mentale della persona immigrata” svoltosi, sotto la direzione di chi scrive come primo autore, presso il DSM di Via di Torre Spaccata. Sono state 34 giornate seminariali per un totale di 180 ore di formazione, fruite da 68 corsisti. Si sono avvicendati 36 insigni cultori della materia (Coppo, Di Liegro, Di Nola, Frigessi-Castelnuovo, Frighi, Gallini, Lanternari, Macioti Mazzoleni, Piro, Pugliese, Scala, Seppilli, TerranovaCecchini, Tognetti-Bordogna, insieme a giovani Colleghi come Beneduce, Cardamone, De Micco, Geraci, Inglese, per far cenno solo di alcuni nomi).
  ROMA 1997 – su finanziamento specifico della Regione Lazio, dietro proposta del primo autore e sotto la direzione del medesimo, inizia il Progetto-obiettivo triennale “Michele Risso” tutela salute mentale immigrati che è stato interrotto con 6 mesi di anticipo.
  ROMA 1999 – ASL “B” di Roma. I Convegno Nazionale “Medicina Immigrati e Culture della Salute Mentale nel Servizio Pubblico”, organizzato e presieduto dal primo estensore di questo testo. Sede: CNEL, Aula Biblioteca, Via David Lubin 2, (13-14 maggio). Hanno offerto il “Gratuito Patrocinio”: Ministero della Sanità, Presidenza della Giunta Regionale del Lazio, Assessorato alla Salvaguardia e Cura della Salute della Regione Lazio, Assessorato alle Politiche per la Salute del Comune di Roma, Assessorato alle Politiche Sociali del Comune di Roma, Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Prof. Luigi Frighi), World Association of Social Psychiatry (Prof. Adolfo Petiziol), CNEL (Prof. Giuseppe De Rita)
  MATERA 2000 – La Regione Basilicata, il Comune e il DSM della ASL 4 di Matera, con il patrocinio del Presidente della Repubblica, del Ministero della Sanità, del Ministero per gli Affari Esteri e della Provincia di Matera, promuovono il I Congresso Internazionale “Salute Mentale e Qualità della Vita nell’area del Mediterraneo”. Per tre giorni (3-5 febbraio) si sono svolti interessanti dibattiti dal superamento delle nuove istituzioni psichiatriche, alle identità culturali in relazione ai sistemi di Welfare. Fra i partecipanti italiani Agostino Pirella (Torino), Lucilla Frattura (Milano), Tommaso Losavio (Roma), Anna Pizzo (Manifesto), Mario Maj (Napoli), Franca Ongaro (Venezia), Luigi Ferrannini (Genova)
 
Migrare sposta il pensare e cambia le opinioni, anche dei sedentari.
Queste date, che abbiamo definito pietre miliari per l’osservazione della salute mentale nel corso dei processi migratori succedutisi in Italia, dopo le Olimpiadi del 1960, sono significative soltanto per una visuale, che ci rendiamo conto essere affatto particolare. Con ciò non si vuol dire che esse siano più importanti di altre date, per altre meritorie iniziative assunte nei riguardi degli immigrati dalla Sanità Pubblica, dalle ONG, dalle Politiche d’integrazione, dalla legislazione della materia. L’elenco sopra riportato è una selezione delle principali iniziative pubbliche sulla salute, rivolte esclusivamente (o prevalentemente) alla psiche. Ciò è stato fatto intenzionalmente poiché siamo perfettamente consapevoli di quali richiami possa esercitare, nell’attenzione generale, il fantasma della follia e dell’alterità. In ogni caso, questa periodizzazione di cose da noi (gli autori, le persone fin qui citate e quelle elencate in bibliografia) fatte – non dunque una mera elencazione, ex cathedra, di cose che altri dovrebbero fare – ci pare valga, più efficacemente di ogni altro esempio, a mettere nel dovuto rilievo l’opera di pochi precursori. Essi – medici, psichiatri, igienisti mentali, competenti dell’area delle scienze umane, operatori della salute mentale a vario titolo, rappresentanti delle comunità straniere in Italia – col loro impegno, hanno saputo, stimolare, scuotere, interrogare criticamente quasi tutte le Istituzioni dello Stato e degli Enti Locali (Regioni, Province, Comuni), affinché promuovessero una virtuosa politica migratoria. Lo hanno fatto, spesso disgiuntamente, per la varietà dei problemi presenti nelle diverse realtà territoriali, talvolta insieme, ma sempre con la medesima finalità di riconoscere nell’immigrato una persona in difficoltà. Sembra ora di scorgere qualche frutto. In ogni caso, riteniamo altamente meritoria questa lunga operazione di coinvolgimento istituzionale e popolare su temi che, non solo fanno parte dei nostri obiettivi scientifici, ma che oggi sono al centro dell’interesse generale e constatiamo essere presenti nelle preoccupazioni del vivere quotidiano di buona parte della popolazione del nostro paese.
Ecco dunque che, come ben sapevamo, le migrazioni (emigrazioni/immigrazioni) hanno sempre obbligato – in maniera scomoda e traumatica – ad almeno tre tipi di confronto/scontro culturale: a) quello del cambiamento dei propri assetti normativi e statutari, sul piano socioeconomico; b) quello della promozione, della prevenzione, della tutela e dell’assistenza medica per tutti (autoctoni e allogeni), sul piano della salute, significativamente quella mentale; c) quello dei percorsi tutelati di riconoscimento all’identità umana e d’integrazione mirata all’inserimento lavorativo, sul piano  antropologico.
Il primo relatore faceva presente di lavorare nelle Istituzioni Psichiatriche Pubbliche da oltre quarant’anni. I suoi primi studi nell’area migratoria risalivano al periodo in cui fu Primario nei manicomi campidanesi di Cagliari e poi di Dolianova. Lì, aveva imparato a decifrare le narrazioni e lenire le ferite psicologiche inferte dal fallimento migratorio dei lavoratori sardi che rientravano dall’estero per “disordini mentali” e terminavano il loro percorso sociale in Ospedale Psichiatrico. Successivamente, gli è capitato di confermare le stesse osservazioni critiche sull’inautenticità delle diagnosi psichiatriche, sancite per definire metonimicamente lo spaesamento del migrante. Complessivamente la sua esperienza sul fenomeno delle migrazioni, nei suoi aspetti psicologici, psicopatologici, psichiatrici e sociali, si snodava in un arco di tempo che andava dal rientro dei “nostri emigrati” (1970) all’arrivo degli “immigrati degli altri” (1980); quelle persone chiamate comunemente “extracomunitari”. Le medesime tecniche di osservazione e di trattamento, con opportuni aggiustamenti, sono state successivamente riproposte nelle strutture di territorio della psichiatria riformata, lavorando con immigrati stranieri. Il secondo relatore lavorava presso l’istituto di Clinica Delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma dove aveva vinto un dottorato di ricerca in neurologia. Presentemente lavora all’Università di Roma alla “strok unit” dell’UTN – Policlinico Umberto I. Appassionato di neurologia antropologica e di stati alterati di coscienza, era molto interessato al lavoro di Piero Coppo in Mali. Aveva collaborato al Progetto-obiettivo triennale “Michele Risso” operando tutti i controlli clinici specialistici necessari sui pazienti immigrati che di volta in volta gli venivano inviati dal Centro per dirimere quesiti diagnostici particolari di area neurologica. Per citare compiutamente il minigruppo Mellina – che oltre a fare ricerca teorica sulle transculturazioni dei migranti, forniva loro anche assistenza clinico-terapeutica – non si può non menzionare Chiara Mellina, antropologa e specialista di studi storico-religiosi, all’epoca impegnata in un programma dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale su “Inserimento lavorativo, integrazione socio-culturale e tutela della salute degli immigrati extracomunitari”.
 
Psicopatologia e clinica della psichiatria transculturale.
Spesso si sente usare impropriamente il termine psicopatologia al posto di patologia psichica o psichiatrica che, non sono propriamente la stessa cosa.  È totalmente privo di giustificazione scambiare il dispositivo euristico, lo statuto conoscitivo della disciplina psicopatologica (ancorché imperfetta e mutevole) per sua la prassi clinica, l’episteme per la doxa, la fenomenologia per l’empirìa. La descrizione del fatto transculturale e il ragionamento clinico che lo ripercorre non può cogliere il senso che tale datità significa. Anche la più attenta osservazione semeiologica della psichiatria transculturale, pur guardando e ascoltando il fenomeno, resta incompleta rispetto alla filosofia del comprendere, che è propria della psicopatologia, a sua volta scienza incompiuta. Sarebbe come sbirciare una tela affastellata ad altre nel magazzino di un rigattiere, invece di ammirarla con una bella cornice, appesa in luogo adatto, con la luce giusta. Senza per questo essere un’opera morta e non invece dotata di vita artistica propria e autonoma. Che dire poi della terapia (transculturale o etnopsichiatrica che sia) e dei presupposti che la sottendono, se fosse trascurato l’aiuto alla conoscenza che può recare un rigoroso dispositivo euristico; anch’esso strumento illuminativo della psicopatologia fenomenologica?
Tutto ciò non deve recare offesa al saper fare pratico dei “Clinici”, alle osservazioni magistrali dei “vecchi Clinici”, come Danilo Cargnello nominava con grande rispetto quelli dell’Ottocento, anzi. Serve semmai a ristabilire, non per mero estetismo, una certa proprietà di linguaggio e una giusta terminologia lessicale in una disciplina difficile e spesso appiattita sull’arido linguaggio del DSM IV. « … la psichiatria – ha scritto Arnaldo Ballerini nella presentazione di un libro straordinario di Filippo Maria Ferro dedicato alla Psichiatria e alla Storia – il cui statuto conoscitivo è variegato, è un caleidoscopio di metodi e di teoresi, profondamente connesso agli studi filosofici susseguentisi nel tempo. In questo camaleonte metodologico noi siamo di continuo esposti ad ogni sorta di salti mortali epistemici» [05]. Siamo profondamente persuasi da quest’affermazione di Ballerini, che condividiamo. Siamo altrettanto convinti che la “Psicopatologia speciale” delle persone-che-migrano ci costringe a fare i camaleonti e i saltimbanchi nel grande circo (per restare nella metafora circense) dell’ascolto dell’esperienza dell’altro, della conoscenza interna dell’uomo (colto come insieme totale e irripetibile di presenza che si mondanizza), della storia delle idee e del confronto dei saperi. Proprio per questo motivo ci permettiamo di raccomandare – un po’ a tutti noi, specialmente i più giovani – la ripresa degli allenamenti a partire da quella grande palestra di pensiero che è tuttora la “Psicopatologia generale” di Karl Jaspers. Rileggiamone qualche brano.
«… Per lo psichiatra … la scienza è soltanto un ausilio, per lo psicopatologo essa è il vero scopo. Questi vuole conoscere e riconoscere, caratterizzare ed analizzare non l’uomo singolo ma i princìpi generali … non si domanda quale sia l’utilità della sua scienza … ma solo che cosa sia conoscibile, reale dimostrabile in modo necessario e distinguibile chiaramente. Non ricerca né la partecipazione affettiva (Einfühlen) né l’osservazione di per sé: questo non è che materiale, il cui ricco sviluppo gli è indispensabile. Egli vuole ciò che può essere espresso in concetti, che non è comunicabile … che può essere fissato in regole e in cui può riconoscersi un qualche rapporto … questo gli pone dei limiti, che deve conoscerli per non oltrepassarli illecitamente, d'altra parte gli dà un vasto campo di possibilità che ha il diritto e l’obbligo di prendere completamente in possesso. Il suo limite sta nel fatto che non può mai risolvere il singolo individuo in concetti psicologici. Quanto più egli elabora la sua materia in concetti, quanto più vi riconosce qualcosa di tipico e di costante, tanto più riconosce che in ogni singolo individuo si nasconde qualche cosa di inconoscibile. Come psicopatologo gli basta sapere che ogni singolo individuo è un infinito inesauribile…»[06].
«La psicopatologia generale non ha il compito di raccogliere tutti i risultati, ma di dar forma al tutto. La sua funzione è: chiarificazione, ordinamento, formazione culturale; essa deve rendere chiara la conoscenza dei fatti nei loro caratteri fondamentali e dei molteplici metodi, sunteggiarli in ordinamenti naturali e portarli fino all’autocoscienza, in una completa formazione culturale dell’individuo. Essa adempie con ciò ad un compito specifico della conoscenza, che va oltre la singola indagine. Non è sufficiente soltanto un raggruppamento didattico … ma è necessaria quella formazione didattica che riesce a cogliere l’essenza dell’argomento. La psicopatologia generale fa parte di quelle concezioni totali sinora prodotte, si orienta secondo questa e può essere il punto di partenza per nuove ricerche – sia in contrasto che come elaborazione interiore» [07].
Se è vero che la psicopatologia non s’impara, ma insegna a pensare ed a porre problemi psicopatologicamente, come raccomandava il maestro di Heidelberg e come ci rammenta Arnaldo Ballerini nella Presentazione a Ferro sopra citata, proveremo a riferire qual è stato il nostro pensiero e il nostro interrogarci durante il lavoro con le persone migranti. Tematizzazioni, riflessioni e aporie epistemiche, naturalmente, giacché nel minigruppo confluivano e si confrontavano saperi complessi delle scienze dell’uomo: da quelli biologici a quelli culturali, da quelli antropologici a quelli psicopatologici, a quelli storici, da quelli metafisici a quelli fenomenologici. Su un punto si è trovato l’accordo (provvisorio) per l’incipit di un discorso corretto sulle dinamiche della migrazione: il vulnus della separazione, del distacco migratorio e il conseguente brusco cambiamento d’orizzonte che obbliga il migrante a ri-programmare le proprie coordinate di orientamento esperienziale.
Qualsiasi accadere dell’esperienza umana che aggredisca le dinamiche dei fattori culturali, propri di ogni individuo, ne mette a repentaglio l’equilibrio psichico. Questo è tanto più vero per l’immigrato che percepisce come eccentrico il proprio sistema culturale, rispetto a quello dove si trova “ospite” che (naturalmente) è centrale, prioritario, dominante. Supponendo che le popolazioni migranti dei nostri giorni, sopravvivano ai viaggi per mare con “carrette” d’ogni tipo, o su strada, acquattati dentro “TIR” senz’aria, provenienti dall’Est e immaginando che possa trovare lavoro da noi, un migrante può andare in crisi ed esperire un vero e proprio disturbo psichico se viene negato e deriso l’ordinamento del proprio dispositivo culturale (disculturazione). Tuttavia, non è detto che siano meno insidiosi altri assalti, apparentemente incruenti e invisibili, larvati e persuasivi, ma soprattutto prolungati nel tempo, tesi a modificare il mondo culturale di provenienza dell’immigrato  a favore di quello di approdo (acculturazione). Neppure gli autoctoni occidentali, allevati in un mondo mediatico convenzionalmente giovane, veloce, competitivo, ipertecnicizzato, possono ritenersi immuni da rischi psichici (congiuntura culturale). Forse che barbonismi o forme di anoressia sociale, non potrebbero essere “cascami” di lavorazione del nostro maniforme divenire sociale? Forse che le numerose marginalizzazioni d’ogni ordine e tipo, non potrebbero essere “prodotti difettati” dall’accelerazione dei processi di transizione della nostra collettività? Oggi siamo costretti ad inseguimenti pazzeschi di desideri inventati di sana pianta dai soliti padroni dell’immagine. Desideri contrabbandati per necessità primarie di presunti abitatori del “villaggio globale”.
 
Culture della salute mentale, modalità d’intenderle, transculturalità.
Potrebbe sembrare ovvio – ma tanto ovvio non è se non lo si sperimenta di persona – rammentare che colui che lavora sulla patologia migratoria (dovunque operi) deve mettersi bene in mente la relativizzazione del concetto di salute mentale e porla a confronto con i modelli di culture popolari e tradizioni (“altre”) importate dai soggetti migranti. Questo confronto impone al terapeuta un cambio d’orizzonte del proprio sapere “culto”, “occidentale”, “convenzionale”. Quanto meno, egli deve comunque preoccuparsi di operare una “nuova taratura” del suo abituale saper fare medico, altrimenti resterebbe inevitabilmente tagliato fuori dal gioco perverso della “salute aziendalizzata” delle ASL e dei DSM. Una forma di ossessività compulsiva condensabile nelle quattro parole magiche “efficienza”, “efficacia”, “qualità”, “verifica” delle medesime e…avanti un altro. In ogni caso, aziendalizzazione della salute o meno, sarebbe grave, per qualsiasi clinico della psiche, scambiare un’alterità culturale per un’alienità mentale. Si consiglia in proposito di consultare un recente libro a più voci curato da Maria Enrica Castiglioni – Gianni Del Rio – Ada Servida – Rosalba Terranova-Cecchini, intitolato Culture che curano. Borla, Roma, 2018 [08]
La nuova immigrazione ha costretto il paese a costruirsi, specie nel campo della salute, attenti dispositivi d’ascolto transculturale e adeguate risposte di tenore multiculturale. I nuovi problemi d’impianto (o trapianto, come usano più correttamente gli Autori francesi), di adattamento e di integrazione, con tutte le loro infinite sfumature di difficoltà, hanno chiamato a raccolta politologi, sociologi, antropologi, etnologi, igienisti mentali, psicologi, psichiatri, che, appunto nell’ottica della transculturalità, devono far decollare ed evolvere una società plurietnica, multiculturale, di tolleranze religiose. Questo, in effetti, è il passaggio più arduo, perché si tratta di una società o almeno di un obiettivo di società (la società dell’integrazione e della convivenza multiculturale) che è tutta da scoprire e da inventare. D’altro canto il “melting-pot” americano, il tanto decantato crogiolo di etnie, allo stato attuale resta per l’Italia solo un progetto a venire che ci si augura migliore di quello statunitense a carattere fortemente differenzialista. Purtroppo, rileggendo queste considerazioni a distanza di quasi vent’anni, ci rendiamo conto che l’America di Donald Trump non ha “fuso” proprio un bel niente ed è spaccata in due: poveri e ricchi. La Francia degli assalti a Parigi del 2015 (137 morti e 368 feriti) e della strage di Nizza alla Promenade des Anglais (2016) non sta certo meglio sulla strada dell’assimilation. L’Inghilterra, la Spagna e la Germania, tanto per citare altri paesi europei ex-coloniali, fra i principali obbiettivi del sedicente “Stato Islamico” – ma la religione c’entra poco – anch’esse hanno avuto qualcosa che non ha funzionato dalla fine della seconda guerra mondiale, oppure non hanno fatto una saggia politica d’integrazione coi soggetti che venivano dalle colonie o dal commonwelt.
Peraltro va ricordato che la transculturalità è stata sempre figlia delle migrazioni umane in senso lato. Qualche esempio? Si possono prendere in considerazione le vicende belliche di conquista partite dall’Europa. La scoperta dell’America, tanto per cominciare dall’Evo Moderno, le gigantesche Colonizzazioni occidentali, la “Grande Guerra”, la Seconda Guerra mondiale e le tante altre guerre non dichiarate con cui siamo giunti fino ad oggi. Si può fermare l’attenzione sull’epopea dei viaggi scientifici e delle esplorazioni geografiche che raggiunsero il loro apogeo nell’Ottocento e nel primo Novecento, epopea mai cessata da Magellano in poi, fino all’andata sulla luna. Si potrebbe tener conto dell’aspetto puramente commerciale inaugurato da Marco Polo. Ma perché non parlare delle congiunture economiche e delle carestie che diedero la stura alle grandi emigrazioni transoceaniche di massa?
Gli studiosi della moderna transcultura si sono sempre imbattuti nelle famose “quattro emme” richiamate, molto opportunamente, da Piero Coppo: militari, medici, missionari, mercanti. Ebbene, a noi Italiani – per quanto breve e modesta sia stata l’avventura “coloniale” e per quanto recente sia l’Unità Nazionale, rispetto alla storia patria di altri Stati Europei, smaccatamente coloniali, militari, medici coloniali, missionari e mercanti non sono mai mancati. Perché dunque pensare, malgrado gli odi recenti e il sangue non ancor rappreso, che non si possa parlare, a giusto titolo, anche di un’esperienza psicotransculturale italiana? Prenderne atto e rifletterci un po’ sopra (psicopatologicamente) ci farebbe scoprire insospettabili dinamiche psicologiche e psichiatriche transculturali, nuovissime e del tutto originali.
Oggi crediamo che la transculturalità dell’area migratoria sia molto vicina, se non addirittura una costola, del corpus di cui si occupa la psichiatria sociale. Per questo, riteniamo che al posto del termine transculturazione sarebbe meglio usare quello di acculturazione per indicare gruppi di popolazioni che vengono a contatto tra loro per le più svariate ragioni. Si può star certi che ciascuno, indipendentemente dalla condizione di disparità di potere, scambierà inevitabilmente con l’avversario (o con l’alleato) qualcosa del proprio bagaglio culturale.
“Il campo dell’acculturazione – ci rammenta Rosalba Terranova Cecchini – è ovviamente appannaggio degli antropologi e dei sociologi. Per la sua definizione è usualmente accettata quella di Redfield, Linton e Herskovits: «L’Acculturazione comprende quei fenomeni che si verificano quando gruppi d’individui appartenenti a diverse culture entrano in contatto continuativo importante con conseguenti trasformazioni dei patterns culturali originari di uno o di ambedue i gruppi»”. Si potrebbe aggiungere che anche Vinigi Grottanelli e Alberto Cirese della Scuola antropologica italiana si trovano sullo stesso piano, mentre Andras Zempleni, con arguzia tutta francese, fa rilevare che “la cultura non parla ma è qualcosa di cui si parla”. Tuttavia non va mai sottovalutato il punto di vista di chi osserva, denomina e definisce un fenomeno culturale, specialmente se quest’angolo visuale appartiene al “padrone di casa”, oggi o fu del conquistatore” o del “colonizzatore”, ieri.
Anche qui si possono riscontrare infinite sfumature, non sempre di valore meramente lessicale. Tutti conoscono il senso di “lavoratore ospite” nell’accezione tedesca di Gastarbeiter. Anche la Terranova Cecchini sembra critica verso quel processo di acculturazione che i Francesi preferiscono si svolga nei termini dell’assimilazione. L’Assimilazione rappresenta una fase dell’acculturazione stessa – scrive la nostra decana di questa materia – ed il cambiamento culturale è una globale transculturazione da un modo di essere ad un altro con motivazioni più lente e profonde. Non va dimenticato infine il fenomeno della “diffusione” culturale preludio ad ogni acculturazione e ad ogni transculturazione (Terranova-Cecchini).
Risulta di particolare interesse rileggere l’opinione di Luigi Frighi a questo proposito, arricchita da un puntuale richiamo alla nostra migrazione interna.
«Di solito, quando si parla di psichiatria transculturale, si è propensi a proiettare il focus dell’interesse e della curiosità scientifica su orizzonti culturali molto lontani dai nostri, estremamente diversi se non addirittura esotici. Questa proiezione al di là dei confini della problematica connessa con la psichiatria transculturale, fa sì che si dimentichi che fenomeni di transculturazione avvengono anche nel nostro paese e sono talmente importanti da aver suscitato l’interesse scientifico di sociologi antropologi e psichiatri. Basti pensare a questo proposito alla migrazione interna che con ondate successive o con uno stillicidio permanente ha finito per transculturare, cioè sradicare da antichi e abituali valori e soluzioni culturali e immettere in contesti culturali nuovi ed estranei, alcuni milioni di individui. Si tratta di un fenomeno non ancora esaurientemente definito e spiegato da alcuna delle varie discipline di studio che l’hanno osservato da angolazioni diverse». E più avanti così continua. «Non si può concludere l’argomento dell’emigrazione senza accennare, seppur brevemente, a due fenomeni che hanno, negli ultimi vent’anni, interessato particolarmente il nostro paese: l’immigrazione di soggetti provenienti da paesi extracomunitari e l’immigrazione di ritorno di lavoratori italiani da paesi europei». [09, Frighi]. Ci sembra utile ritrascrivere fedelmente (repetita iuvant) anche il pensiero, espresso alcuni anni prima, dalla Terranova-Cecchini, la quale si preoccupava già di porre in rilievo quei caratteri d’interdisciplinarità e di confronto con le scienze umane contermini, insiti nella dimensione della psichiatria transculturale. Caratteri precipui, al di fuori dei quali ogni tentativo di porre fondamenti teoretici, psicopatologici, nosologici e nosodromici, clinici, diagnostici e terapeutici di questa disciplina, chiusa e ruminata autonomamente solo da medici psichiatri, sarebbe totalmente destituito di senso. Ancora un brillante richiamo e un’acuta riflessione sullo scarto esistente tra episteme e doxa «Il termine transculturale applicato alla psichiatria ha il significato di sottolineare il punto di arrivo di molteplici ricerche condotte in fenomenologia esistenziale, in antropologia culturale, in sociologia, in psicologia oltre che in etnologia. Infatti, solo dopo aver approfondito lo studio dell’uomo nel suo modo di declinazione esistenziale, dopo aver posto in luce le reazioni psicologiche dell’individuo come membro di un gruppo, solo dopo aver analizzato le dinamiche globali dei gruppi, si poteva arrivare a scoprire una ulteriore e specifica caratteristica delle reazioni umane: quella legata al fattore culturale che è il modo di vivere, la tradizione, l’ambiente, il modo di interpretare e di trasformare la realtà, del gruppo nel quale si è nati e si è stati allevati» [010 Terranova].
Dopo che Ippocrate (nientemeno!) aveva avuto il suo bel daffare tentando di classificare i modelli comportamentali degli Sciti. Dopo che Kraepelin nel 1904 ci propose la sua Vergleichende Psichiatrie, un pregevolissimo tentativo di leggere comparativamente le manifestazioni psichiatriche nelle popolazioni di culture non occidentali, sono passati molti anni e soprattutto molte guerre che hanno fatto crescere la qualità e il valore delle osservazioni transculturali. La lista dei complessi sindromici si è allargata ed all’orizzonte è comparso minacciosamente il IV Manuale Diagnostico della Psichiatria Americana (fortunatamente non tutta).
A noi e a voi, ancora il piacere di rileggere un altro passaggio del vecchio testo della Terranova Cecchini, che appare di un’attualità straordinaria. Qui l’Autrice, non solo ci riassume brevemente la storia della disciplina di cui stiamo trattando, ma confessa che per capire veramente dove stesse andando e quali obiettivi avesse conseguito la psichiatria transculturale trent’anni fa, aveva dovuto fare riferimento a pochi autori non occidentali quali Lambo, Fanon, Yap, Rao.
«Molte sono le descrizioni delle modalità di malattia psichica nelle più svariate popolazioni da parte di autori più o meno noti spesso missionari o medici delle forze di occupazione militare coloniale, cosicché si arriva ad edificare una branca a sé stante della psichiatria che va sotto i nomi di etno-psichiatria, psichiatria comparata, psichiatria esotica, folk-psichiatria, psichiatria prescientifica, psichiatria primitiva. Viene redatta una lista di malattie apparentemente nuove usando vocaboli dei linguaggi d’origine ed abbozzando delle frettolose interpretazioni basate su concetti elaborati nella cultura occidentale. Tale lista comprende il piblakoto. Il latah, il wihtigo, l’amok, il koro, ecc. nonché alcune terminologie occidentalizzate états de fureur del Senegal di Aubin e Alliez, bouffées psychomotrices dei nordafricani di Baudoux, ecc.
Con l’ingresso sulla scena scientifica di ricercatori e psichiatri dei paesi ex coloniali e del cosiddetto terzo mondo”, le interpretazioni delle malattie psichiche “esotiche” si approfondiscono e rivelano assolute analogie psicodinamiche con i generali fondamenti della psicologia e della psicoanalisi (Kumasaka, Yap, Lambo, Rao. Del pari ricercatori, specie americani, contribuiscono in collaborazione con i colleghi di altre culture alla più corretta analisi dei disturbi psichici in varie parti del mondo (Murphy e Leighton, Kiev, Wittkover e Fried).
Il risultato è che non esistono malattie legate alla cultura ma semplicemente sintomi che si colorano delle infinite possibilità espressivo-culturali elaborate dall’uomo; che non esiste una etno-psichiatria, cioè un marchio razziale della malattia mentale, come del resto una attenta lettura di Kraepelin poteva già testimoniare» [011 Terranova].
Bisogna convenire che a quasi trent’anni di distanza le ricerche si sono sviluppate con grande intensità e fervore. Molto materiale di studio è stato apportato da cultori dell’antropologia medica, da psichiatri, da psicologi che hanno fatto “ricerca sul terreno”. La grandezza dell’ordine dei problemi speculativi si è decuplicata, sia per quanto riguarda i dispositivi teorico-pratici della disciplina – divenuta, nel frattempo e unanimemente denominata, etnopsichiatria – sia per quanto riguarda la sua capacità di mettere in crisi talune nostre “certezze cliniche”, la nostra “centralità” e la nostra “interrelazionalità” con la diversità/alterità (che essa continui ad abitare nei suoi luoghi propri o che risieda nel nostro paese). Tuttavia, contrariamente ad altre volte, siamo anche “cresciuti”. Molti di noi hanno imparato (o lo dovranno imparare) che alla cultura è sempre demandato il compito di organizzare, di mettere in forma (in modo consentaneo e coerente con sé medesima) un complesso sindromico di disturbanze psichiche. Dunque ciascun essere umano che ne sia afflitto, lo ostende in una data rappresentazione e lo comunica con un determinato linguaggio che è proprio della sua cultura di appartenenza.
Noi medici occidentali non riusciamo a comprendere questa cifra di sofferenza (soprattutto il suo senso), non perché essa sia ignota alla nostra esperienza del malessere psichico, ma semplicemente perché la denominiamo altrimenti. Per questo ci troviamo spiazzati di fronte a “meccanismi reattivi individuali” (Terranova Cecchini) maturati in “culture altre”. Per questo riteniamo “eccentrico” (rispetto alla nostra “centralità” culturale) il disturbo dell’alterità culturale, lo giudichiamo “esotico”, cibiesse, o quant’altro. Noi possediamo quello strumento convenzionale dei significati di malattia che Luigi Frighi chiama “ombrello semantico”. Il disturbo dell’alterità culturale ne possiede un altro, molti altri, omogenei ai processi culturali nei quali si è allevati. D’altro canto, tali “ombrelli semantici” non sono per niente intercambiabili, tra immigrati che provengono da ogni parte del pianeta. Il lavoro transculturale ce ne ha resi edotti. Il caso della “depressione”, che si pensava fosse assente nelle popolazioni Africane, resta un esempio dei più classici, fra quelli studiati. Il Padesimiento dei Latino-americani, molto vicino alla nostra reazione neurastenica o nevrosi d’ansia, potrebbe aggiungersi al precedente.
Nell’immigrato, il cambiamento di ruolo, la deculturazione, la marginalizzazione, sono spesso causa di ferite psicologiche profonde. Nessuno gli chiede di utilizzare gli antichi valori originali in cui è cresciuto, né quali fossero. Se è fortunato, gli vengono proposte sbrigativamente prestazioni diverse, adattamenti lontani dalle sue aspettative. Attenzione, perché sul fondale di scena compare, sinistra, la riduzione in schiavitù. E le catene non sono un bel vedere per i discendenti di Louis Antoine de Saint Just (1867-1894), Philippe Pinel (1745-1826), Abramo Lincoln (1809-1865), Karl Marx (1818-1883), Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948), Vladimir Ilyich Ulyanov (Lenin, 1870-1924), Deng Xiaoping (1904-1997), Nelson Mandela. (1918-1913), Ernesto Che Guevara (1928-1967), Martin Luter King (1929-1968)
 
Perché lavorare sulla salute mentale degli immigrati?
La salute – come tutti sanno – è uno fra i pochissimi beni primari dell’uomo di tutte le società di qualsiasi tipo e qualunque epoca. Un bene concreto, tangibile o meglio esperibile, non dunque astratto, virtuale, ideologico. Si potrebbe anche prestar fede, sicuri di non sbagliare, alla voce popolare che ci ammonisce “quando c’è la salute…c’è tutto”. D’altro canto i nostri saggi pensatori dell’antichità c’insegnavano che per filosofare bisognava prima mangiare e noi potremmo aggiungere che il buon appetito è segno certo di buona salute.
D’accordo sulla Medicina, sulla Sanità pubblica, sulla Prevenzione della Salute degli immigrati che, oltretutto, ci riguardano da vicino, ma cosa c’entra la Salute Mentale, anzi le Culture della “Salute Mentale”, verrebbe da domandarsi? Perché organizzare dibattiti, seminari, convegni, congressi per ragionare su queste tematizzazioni?
Fermo restando che la questione della “Salute Mentale” ha sempre sullo sfondo non solo quella degli autoctoni (ovviamente come prima titolarità, se non altro per la prevenzione), ma anche quella delle persone immigrate, si potrebbe rispondere facilmente come i Romani antichi che conoscevano benissimo il valore della locuzione mens sana in corpore sano. Tuttavia siamo dell’opinione che, nella generale “follia sanguinaria”, per nulla in declino all’inizio del nuovo secolo, dopo aver dilagato ininterrottamente in quello precedente, questo discorso debba essere affrontato o almeno posto al centro del mondo della Salute Pubblica.
Quando parliamo di “follia sanguinaria” non intendiamo minimamente alludere alla dimensione complessa della psicosi (che è ben altra cosa) ed all’esperienza personale dello psicosico, col quale ci scusiamo. Se usiamo parole dure e pregnanti, ricorrendo al termine convenzionale di “follia” lo facciamo soltanto per bollare il settarismo acritico, l’ignoranza storica, il razzismo insensato, la ferocia ottusa degli “spazzini etnici”, la protervia della “ragione del più forte” per annientare il più debole, lo facciamo per invitare tutti alla sana pratica dell’Igiene Mentale (anche transculturale). Qui il discorso sulla salute mentale, sui modi di tutelarla e di prevenirla, è assolutamente pertinente e prioritario. Esso, ne siamo convinti, potrebbe favorire un accesso alla parola, al dialogo, alla comunicazione, all’ascolto delle ragioni di tutti che, in definitiva, sono presupposti per un introito all’irenismo della comunicazione interetnica, alla dimensione della multiculturalità,
Per accennare brevemente alla nostra esperienza di lavoro terapeutico con immigrati, diremo che abbiamo sempre attribuito al termine multiculturale il valore di una transazione continua di saperi e di orizzonti nell’area salute/malattia/cura o presa in carico. Per inciso, vogliamo precisare che la preferenza accordata alla dizione multiculturale, anziché a quelle transculturale o interculturale, che troviamo meno pertinenti in “psichiatria delle migrazioni”, ha un motivo molto semplice. Il “Multi”, dal latino multus, dà un’idea di stabilità, d’incontro fra diversi per fare progetti di convivenza. Quasi come mettere insieme le tessere di un mosaico, aperto ad ogni possibile contributo di culture che si alleano. “Multi” presume un obiettivo finale: quello dello stare insieme. Sempre che a nessuno venga in mente di far battutacce, il suffisso “Trans”,
 induce a pensare all’instabilità del transito, del passaggio furtivo, della fuga perenne e quello “Inter” allude alla precarietà dello stare in mezzo (senza essere né di qua, né di là) proprio per mantenere l’identità culturale a distanza di “insicurezza”.
Con queste cognizioni apprese dall’esperienza e sempre pronte alla revisione critica, con la consapevolezza della relativizzazione e della fallacia dei nostri modesti saperi psichiatrici (succhiati dalla medicina convenzionale che ci ha allevati), abbiamo tentato di costruire un “ponte di sicurezza” per la salute mentale del migrante. La ragione principale è stata sempre quella di rendere meno doloroso il transito ad una persona che spesso fuggiva dalla fame, dalla miseria, dalla guerra. Con questo non vogliamo dare un’immagine pauperistica del migrante (datata e oleografica), ma semplicemente ribadire che i personaggi da noi incontrati nelle istituzioni psichiatriche non erano certo abbienti. Essi giungevano (si separavano) da una situazione di perdita, arrivavano (fuggivano) da una condizione frantumata ed andavano incontro ad una prospettiva di speranza, ad una nuova opportunità di ricomporre pezzi dell’esistenza lacerata, talvolta immaginata come approdo finale.
Tali nozioni sono di fondamentale importanza nell’approccio sanitario con gli immigrati, poiché è proprio nel corso delle migrazioni che avvengono cambiamenti catastrofici (Salvatore Inglese). Mutano i punti di riferimento, si trasformano gli orizzonti, vacillano le visioni del mondo. Bisogna re–imparare il luogo, il territorio, il contesto, il modo di lavorare, di mangiare, di pregare, di osservare la legge e il giorno di riposo. I segnali e i significati dei rapporti umani divengono incerti e incomprensibili, proprio in quanto nuovi. Il punto d’approdo può trasformarsi da attrattivo a repulsivo, un progetto fortemente desiderato (e pagato milioni) in un fallimento. L’accoglimento è quasi sempre un “annusamento”, un gesto ruvido e sospettoso. L’intersoggettività è spesso un diritto negato e le nuove interrelazionalità sono impossibili da gestire, poiché si presentano all’insegna dell’ostilità. Ecco dunque la necessità di mimetizzarsi, almeno nei primi tempi, se non addirittura fuggire, darsi alla clandestinità. Chi ha lavorato nei Centri di salute mentale – chi è dovuto avvalersi del prezioso aiuto del Servizio Sociale più che della “stanza della terapia dedicata” – conosce bene la disumanità di queste situazioni e la difficoltà di emendarle, in qualche modo.
 
Conclusioni 
In ogni latitudine del mondo dove la Medicina ufficiale non è ancora giunta ad imporre la propria supremazia (solo per motivi economici), scopriamo (e impariamo) che intere popolazioni, etnie e civiltà del passato sono sopravvissute, in virtù della pratica di sistemi terapeutici locali, fino ad arrivare ai giorni nostri. Dunque, qualcosa di “curativo” doveva pur funzionare (e forse ancora funziona) nella Medicina tradizionale, sogguardata come pratica di ciarlatani. Non è per caso se oggi la “Biomedicina” – il frutto più prestigioso del sapere medico-scientifico occidentale che ha stravinto dovunque sia arrivata – dimostra una crescente disaffezione, proprio nella sua culla originaria. Non è per caso se, proprio in Occidente, assistiamo al proliferare di terapie esotiche e di pratiche mediche di culture altre, come ad esempio l’agopuntura, l’erbalismo, lo shiatzu, la meditazione trascendentale, lo yoga, i sistemi di autocontrollo delle funzioni neurovegetative e quant’altro. Si potrebbe dedurne che la “Biomedicina” ha vinto sulla malattia, ma ha perso di vista l’uomo nella sua interezza. In molti casi la nostra Medicina culta si è dimenticata della visione olistica della persona che è oggetto delle proprie cure. Detto in altri termini, ogni modo d’intendere la salute e l’equilibrio mentale, rimanda a molte culture, le “Culture della salute”, appunto.
Di tutto ciò siamo debitori alle culture che hanno attraversato i nostri confini europei camminando sulle gambe degli immigrati giunti da ogni parte del mondo. Dunque la “salute mentale” non solo non è estranea ai grandi temi della salute in generale, ma diviene indispensabile come valido contributo alla riflessione sulla condizione dell’esistenza dell’uomo nel mondo. L’integrazione, così come lo sviluppo delle relazioni con gli immigrati, a nostro avviso, debbono necessariamente passare per il tramite di un dialogo virtuoso attorno alla “salute mentale”. Solo una siffatta operazione culturale può attingere il più pacifico e il più alto livello di confronto e di convivenza tra gruppi sociali autoctoni e allogeni, tra sistemi convenzionali e sistemi tradizionali di cura, tra modelli di visioni del mondo e attese di vita assolutamente differenti, ma non incompatibili.
I tempi sono radicalmente cambiati. Tutta la storia recente ha subito un’accelerazione vertiginosa. Il mondo degli esploratori del secolo XIX che andarono alla ricerca di ciò che Colombo, Marco Polo, Magellano e il Capitano Cook, non avevano avuto tempo di scoprire, è tramontato definitivamente. Il mitico villaggio di Ugigi (Ujiji, Udjiji o Oudjiji), sulle sponde orientali del lago Tanganika, dove alla fine di ottobre di un lontanissimo 1871 avvenne il celebre incontro tra il giornalista Stanley (Sir Henry Morton Stanley, per l’esattezza, figlio illegittimo di John Rowlands), partito alla ricerca (per conto del New York Herald Tribune) del missionario ed esploratore scozzese David Livingston, appare come un parcellare frammento temporale dell’ermeneutica memoria proustiana. La storica frase di quell’incontro – “Mister Livingston, I presume?” – sembra appartenere alla preistoria. Questo emblema linguistico anglosassone di un’epoca dorata, gloriosa, omerica, ma soprattutto coloniale e anche un po’ kitsch, è stato sepolto dalla storia successiva.
C’è tuttavia una nemesi attuale in questa vicenda antica. Quel mondo di “esplorati" dei secoli XIX e XX vengono oggi a scoprire come vivono i “pronipoti dei civilizzatori”. La loro meraviglia non deve essere molto dissimile da quella della generazione “civilizzatrice” dei Livingston. Il fatto è che più che meravigliati sono, talvolta, veramente arrabbiati. Soprattutto quando trovano in casa nostra cose e pezzi della loro cultura, rubati. Forse anche noi abbiamo scoperto qualcosa: non abbiamo più lenti “etic” e loro non vedono più con occhiali “emic”. A quanto par di capire, i nuovi “esploratori” del terzo millennio, gli psichiatri transculturali e gli antropologi medici hanno finalmente imparato ad osservare altrimenti l’uomo e la terra. Essi si guardano bene dall’andare per galassie.
Si potrebbe azzardare una previsione. Oggi sul panorama demografico del futuro europeo è ragionevolmente possibile immaginare un nuovo scenario antropologico di natura meticcia, vantaggioso per tutti. Il “Vecchio Continente”, divenuto Impero della senescenza e della ricchezza dei suoi nativi (non tutti), potrà sopravvivere se saprà accettare di ringiovanirsi e rigenerarsi grazie al ricco seme dei poveri che battono alle sue porte per le vie dell’immigrazione. E’ tuttavia necessario percorrere un lungo cammino, pazientemente e intelligentemente negoziato. Un tragitto virtuoso che vada da un’accoglienza ponderata ad un’acculturazione intesa come incontro tra culture. Un percorso che si snodi da un’integrazione liberale delle necessità reciproche, alle convivenze multietniche, multiculturali e multireligiose. Non sapremmo dire se l’Europa diverrà meticcia raccogliendo quanto di buono è riuscita a seminare nel mondo, ma ribadiamo la convinzione che tutti questi processi dovranno passare attraverso un buon esercizio della salute mentale.
 
Note al testo Transculturazioni e salute mentale.
[01]. Per essere stati tra i primi a colonizzare la Nuova Inghilterra, praticamente gli stati della East Coast. Quando erano una colonia Britannica. L’acronimo WASP, letteralmente “White Anglo-Saxon Protestant”, che significa anche vespa (l’insetto fastidioso e non utile quanto l’ape che ci dà il miele), in italiano "Bianco Anglo-Sassone Protestante", allude ai “Padri Pellegrini” un gruppo di puritani fuggiti dall’Inghilterra per contrasti religiosi ed immigrati in America, allora Colonia inglese. Scesero a Cape Code l’11 novembre 1620 scendendo dal leggendario Mayflower un galeone a tre alberi. WASP indica un cittadino statunitense discendente dei primi colonizzatori inglesi, non appartenente quindi a nessuna delle tradizionali minoranze che sono molte negli USA (nativi autoctoni, tedeschi, francesi, afroamericani, asiatici, italiani, irlandesi, scandinavi, slavi, ebrei, ispanici, mitteleuropei orientali, ecc).
[02]. I 15 anni di storia della ricostruzione italiana, dalle macerie, dopo la distruzione della seconda guerra mondiale, corrono attraverso 160 scatti di una imperdibile mostra a Palazzo Braschi di Roma. Inaugurata il 12 ottobre 2018 rimarrà aperta fino al 3 febbraio 2019. Dopo Roma la mostra raggiungerà Parma, dove sarà esposta al Palazzo del Governatore dall’8 marzo al 5 maggio 2019. S’intitola Il sorpasso. Quando l’Italia si mise a correre, 1946-1961. Le foto dell’epoca provengono dall’Archivio storico dell’Istituto Luce a da quello Publifoto conservato presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma. Mostrano un ritratto collettivo di un paese che anela a bruciare molte tappe e compiere grandi progressi.  Il boom economico degli anni Sessanta, il voto alle donne, le Olimpiadi, le rivoluzioni del costume, la natalità copiosa, la mostra torinese Italia ’61 e l’Autostrada del Sole, finita nel 1964. L’esposizione, è a cura di  Enrico Menduni e Gabriele D’Autilia, i quali prendono spunto dal film di Dino Risi con Vittorio Gassman, Jean-Louis Trintignant, ..
[03]. Mellina Sergio. Analisi fenomenologica dello spazio antropologico nell’emigrante sardo.
[04]. Nesti Arnaldo. La Carta di Pontedera. “Religioni e Società” 19, IX, 58-61, Rosemberg & Sellier, Torino, 1994)
[05]. Ferro Filippo Maria (a cura di). Passioni della mente e della storia. Protagonisti, teorie e vicende della psichiatria italiana tra Ottocento e Novecento. – 30 nov 1989 di F. M. Ferro. Recensisci per primo questo articolo Ballerini.
[06]. Jaspers. Psichiatria come professione pratica e psicopatologia come scienza pp. 1-2)
[07]. Jaspers. Il compito di una psicopatologia generale è il compendio di questo libro pp. 41-42)
[08]. Terranova Cecchini Rosalba. I fondamenti della psichiatria transculturale quale contributo ad un’aggiornata programmazione per la salute mentale, in: Luigi Frighi “Problemi di Igiene mentale”, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1972 p. 254)
[09]. Frighi Luigi. Psichiatria transculturale, in: Giancarlo Reda, “Psichiatria” UTET, Torino, 1993, pp. 121-122)
[010]. Terranova-Cecchini Rosalba. I fondamenti della psichiatria transculturale Cit. pp. 256-257)
[011]. Terranova-Cecchini Cit. id.
[012]. Castiglioni Maria Enrica – Del Rio Gianni – Servida Ada – Terranova-Cecchini Rosalba, intitolato Culture che curano. Borla, Roma, 2018. Un’opera monumentale, con CD allegato, della scuola di Rosalba Terranova-Cecchini, che «parte dalla consapevolezza empiricamente fondata nell’ambito della cura, di quanto la cultura sia elemento costitutivo e fondante dell’identità del soggetto». «Nel nostro paese le grandi ondate migratorie all’inizio degli anni Sessanta già avevano messo in luce la complessità e le contraddizioni implicite nel confronto tra le diversità culturali, senza che ciò tuttavia stimolasse un ripensamento delle categorie concettuali e delle prassi conseguenti nell’ambito delle discipline della cura».
 
Riferimenti bibliografici citati nel testo Transculturazioni e salute mentale
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