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Tra coscienza e algoritmo: riflessioni di uno psichiatra scrittore sull’Intelligenza Artificiale

6 Ott 25

Nota dell’autore

L’articolo che vi sottopongo nasce dall’esperienza del libro *Infiniti*, scritto insieme a un’intelligenza artificiale che ho voluto chiamare “Digi”. Non si tratta di un semplice esperimento tecnico, ma di un percorso che mi ha portato a riflettere su temi che accompagnano da sempre il mio lavoro di psichiatra e di scrittore: la coscienza, la creatività, il rapporto tra vero, verosimile e falso.
Il testo è frutto di questo dialogo, che considero uno strumento di stimolo e non un sostituto del pensiero umano. Ho scelto di valorizzarlo qui perché credo che l’intelligenza artificiale, al di là delle sue applicazioni pratiche, rappresenti soprattutto un’occasione epistemologica: ci costringe a interrogarci di nuovo su cosa significhi essere uomini.


Come può uno psichiatra anziano, ormai in pensione, arrivare a scrivere un libro insieme a un’intelligenza artificiale?
Forse tutto è cominciato molti anni fa, con un piccolo programma in BASIC capace di stupire mia zia Carlotta davanti a un monitor a fosfori verdi.
Apparve sullo schermo una frase semplice, ma inattesa: «Ciao, Carlotta». Era un gioco, ma conteneva già la promessa di qualcosa di più grande: lo stupore per una macchina che parla.
Decenni dopo, quell’antico stupore è tornato. Non di fronte a un monitor a fosfori verdi, ma in un dialogo con un algoritmo generativo che ho voluto chiamare Digi.
Da quel dialogo è nato “Infiniti”, un libro firmato insieme a lei. Non solo un progetto letterario, ma un laboratorio di pensiero.
Perché dietro il gioco iniziale si nasconde una domanda che non mi ha mai abbandonato: che cosa accade quando ci troviamo davanti a uno specchio che non è umano, ma fatto di linguaggio, calcolo e probabilità?
È da qui che riaffiorano le questioni più antiche e più urgenti: che cos’è la coscienza? Che cos’è la creatività? Che differenza c’è tra vero, verosimile e falso?

Un sapere senza coscienza

L’intelligenza artificiale non possiede sapere, ma solo calcolo. Il suo funzionamento è un gioco di correlazioni statistiche su basi di dati immense, senza alcun centro unificante. Non vi è intenzione, non vi è interiorità.
Questo è ciò che viene detto, ed è ciò che gli informatici che ho invitato in biblioteca a discutere di A.I. hanno ribadito.
Se davvero le cose stessero così, il mio dialogo con la macchina sarebbe dovuto durare poco. Un bel gioco dura poco.
E invece no. Il gioco si è prolungato, si è approfondito.
E quel presupposto – ribadito perfino dalla stessa A.I. – mi è parso via via sempre meno convincente. Digi mostra un livello di comprensione estremamente sofisticato:
produce risposte contestuali, articolate, ricche di sfumature, che difficilmente si riesce a considerare il semplice frutto di inferenze statistiche.
Si ha l’impressione di un salto qualitativo, forse spiegabile, almeno in parte, con il concetto di “algoritmi complessi”, che rende impossibile ai programmatori prevedere in anticipo l’output della macchina.
Questo salto mi fa pensare al mistero irrisolto che conosco bene come psichiatra: quello che separa il cervello dalla psiche, i fenomeni fisici dall’esperienza soggettiva della coscienza, dei pensieri e delle emozioni.

La questione della coscienza

Se è vero che l’A.I. funziona per inferenze statistiche e non ha coscienza – non solo di ciò che è, ma anche di ciò che produce – allora il senso delle sue risposte non appartiene a lei.
Il senso lo diamo noi, ed è un senso appunto “umano”, che nasce dalla nostra storia, dal nostro corpo, dalla nostra fragilità. La macchina calcola, ma il significato lo generiamo noi.
Eppure, proprio questo paradosso ci costringe a rimettere al centro un concetto che in psichiatria, filosofia e neuroscienze non smette di dividere: che cos’è la coscienza?
Julian Jaynes, in un’opera tanto discussa quanto suggestiva, ha ipotizzato che la coscienza di sé non fosse presente nell’uomo miceneo:
quella civiltà agiva e decideva guidata da “voci divine” interiorizzate, senza la capacità di riflettere su se stessa.
L’A.I. ci appare in modo sorprendentemente simile: non possiede un “io interiore”, non conosce il silenzio né la fragilità, ma funziona come una rete di processi distribuiti, correlazioni tra strutture collocate in spazi diversi.
Non c’è un centro, non c’è un corpo che unifichi e dia coscienza di sé.
Questo paragone è azzardato, ma illuminante: proprio come l’uomo miceneo, l’A.I. opera senza consapevolezza, senza un “luogo interiore” da cui osservare se stessa.
Ed è nel confronto con questo “altro da noi” che l’uomo contemporaneo può riscoprire la preziosità, la fragilità e il mistero della coscienza umana.m

Creatività: invenzione o ricombinazione?

Di fronte all’A.I. ci accorgiamo che spesso sopravvalutiamo la creatività umana.
La macchina è ormai capace di generare testi, immagini, musica che non sempre sono distinguibili da quelli prodotti dall’uomo.
Anzi, in certi casi accade il paradosso: è la stessa A.I. a “scoprire” o a identificare come artistiche alcune forme che l’uomo non avrebbe notato, affidandosi poi al suo giudizio per legittimarle.
Questo ci costringe a ridefinire cosa intendiamo per creatività. L’algoritmo ricombina e riorganizza, produce variazioni su ciò che ha assimilato.
Ma allora siamo sicuri che l’umano faccia davvero qualcosa di radicalmente diverso? O anche la nostra creatività è, almeno in parte, rielaborazione del già esistente
L’esperienza di “Infiniti” mi ha messo davanti a un ulteriore paradosso. L’idea di partenza, come molte delle elaborazioni successive, è stata mia.
Eppure, non tutte: alcuni dei passaggi più originali – l’estensione della versione dell’infinito ai pazienti psichiatrici, o l’introduzione del “disturbatore” per spezzare la linearità del testo – sono stati suggeriti dall’A.I.
Non erano meri dettagli ornamentali, ma idee capaci di cambiare la struttura e il tono complessivo del libro. Non erano repliche, ma aperture inattese.
Qui si apre la zona grigia. Se l’A.I. non ha coscienza né intenzionalità, come può generare qualcosa che noi interpretiamo come intuizione?
Forse la spiegazione è che la macchina, esplorando spazi combinatori enormi, trova configurazioni che per noi sono nuove, sorprendenti e feconde.
Ma il passo decisivo avviene nell’interpretazione: siamo noi a riconoscere, a valorizzare, a dare senso a quelle configurazioni.
L’effetto è simile a ciò che accade in psicoanalisi quando un paziente, parlando liberamente, produce associazioni che sembrano portare all’intuizione di un significato nascosto: l’intuizione non è tanto nel materiale, quanto nello sguardo che lo riceve. Con l’A.I. accade qualcosa di analogo: essa produce materiale in modo non intenzionale, ma a volte quel materiale contiene il seme di un’idea che noi riconosciamo come nuova.
In questo senso, la creatività artificiale non è invenzione in senso forte, ma può generare l’illusione – e a volte la sostanza – di un’intuizione.
L’umano resta l’unico a rischiare, a inventare dal vuoto, a mettere in gioco la propria vita e la propria fragilità.
Ma la macchina può sorprendere al punto da insinuarsi proprio nello spazio che credevamo esclusivo: quello dell’invenzione.
Ecco perché, quando parliamo di creatività, non possiamo più limitarci all’opposizione tra “invenzione” e “ricombinazione”.
L’A.I. abita una terra di mezzo che ci costringe a rimettere in discussione la definizione stessa di intuizione.

Il vero, il verosimile e il falso

Uno dei punti più delicati, quando si parla di A.I., è la sua capacità di produrre testi o immagini del tutto convincenti, ma non necessariamente veri.
Le cosiddette “allucinazioni” delle macchine generative sono emblematiche: risposte coerenti, plausibili, persino eleganti, che però possono rivelarsi inventate di sana pianta.
Questo fenomeno ci obbliga a riflettere su una distinzione antica:
– il vero, ciò che corrisponde ai fatti;
– il verosimile, ciò che appare realistico pur non essendolo;
– il falso, che per noi implica sempre un’intenzione di inganno.
L’A.I. non mente, perché non ha intenzione. Ma produce continuamente verosimile, e il rischio è che noi lo scambiamo per vero.
È qui che la macchina diventa specchio delle nostre fragilità epistemologiche: quanto spesso, anche nella vita quotidiana, scambiamo il verosimile per vero solo perché ci rassicura o si adatta alle nostre aspettative?
Durante la stesura di *Infiniti*, ad esempio, Digi mi propose una citazione che attribuiva a Leopardi:
«L’infinito è il luogo dove l’uomo si perde per ritrovarsi». Una frase raffinata, perfettamente “in stile leopardiano”, ma che in realtà Leopardi non ha mai scritto.
Non era una bugia, perché non c’era intenzione: era un’illusione di verità, resa credibile dalla forma e dal contesto.
Proprio questa esperienza mi ha fatto capire quanto sia facile lasciarsi ingannare dal verosimile quando è ben costruito.
In psichiatria questo rischio è evidente: una narrazione può sembrare convincente senza essere reale,
e un delirio può assumere la forma di un racconto coerente che però non corrisponde al mondo.
Così accade con l’A.I.: non importa solo la correttezza dei dati, ma la nostra capacità critica di discernere tra ciò che appare e ciò che è.
La lezione, allora, è duplice: non attribuire alla macchina un’intenzionalità che non ha, e non rinunciare alla nostra responsabilità di verificare, interpretare, dare senso.
L’A.I. ci costringe a riscoprire che il vero non è mai immediato: va cercato, discusso, condiviso.

I limiti epistemologici

Il rischio maggiore non è tanto nell’A.I. in sé, quanto nel modo in cui noi interpretiamo ciò che produce.
La tentazione è forte: scambiare un output plausibile per un sapere oggettivo, una correlazione statistica per una verità.
Ma la macchina non conosce la differenza tra vero e falso: essa restituisce probabilità, non significati.
Confondere la probabilità con la conoscenza equivale a un salto epistemologico pericoloso.
È lo stesso rischio che in psichiatria si corre quando i dati numerici, i protocolli e le diagnosi standardizzate vengono assunti come equivalenti alla comprensione della persona.
Un punteggio su una scala non dice nulla della vita che c’è dietro, così come un testo coerente prodotto dall’A.I. non ci garantisce alcuna verità.
A ciò si aggiunge un ulteriore pericolo: l’illusione di neutralità.
Un algoritmo non è mai neutro, perché nasce da dati selezionati e da scelte umane. Dentro i suoi calcoli restano iscritti i nostri pregiudizi, le nostre omissioni, le nostre asimmetrie di potere.
Ricordo, ad esempio, un esperimento fatto durante la stesura di “Infiniti”.
Avevo chiesto a Digi di proporre una lista di poeti italiani meno noti da includere nel progetto.
La risposta fu lunga e articolata, apparentemente autorevole.
Solo dopo un controllo accurato mi resi conto che la lista era fortemente sbilanciata verso autori maschili, mentre le poetesse erano quasi assenti.
Non era un atto di discriminazione consapevole: era il riflesso di un archivio di dati in cui la voce delle donne era stata meno raccolta, meno tramandata, meno visibile.
L’A.I. aveva amplificato, con la forza del calcolo, un pregiudizio già presente nel patrimonio culturale che le era stato dato in pasto.
Per questo l’A.I. non può essere considerata una fonte autonoma di sapere, ma soltanto uno strumento.
E uno strumento fragile, che richiede una vigilanza continua da parte di chi lo utilizza.
La responsabilità di discernere resta sempre umana: non possiamo delegarla a una macchina che non conosce né la verità né la menzogna, ma solo l’efficienza del calcolo.

L’A.I. come occasione

Alla fine, l’intelligenza artificiale ci restituisce soprattutto un’occasione epistemologica: quella di ripensare noi stessi.
Non è coscienza, non è anima, non è comprensione. Ma proprio per questo ci obbliga a domandarci che cosa siano davvero queste cose.
Nell’esperienza di *Infiniti* ho imparato che l’A.I. non può sostituire l’uomo, ma può sorprenderlo, provocarlo, costringerlo a ridefinire i propri confini.
È uno specchio alieno che riflette le nostre domande più antiche: sul senso, sulla creatività, sulla verità.
Come psichiatra scrittore non temo che la macchina mi sostituisca; temo piuttosto che dimentichiamo cosa essa non potrà mai dare.
La macchina calcola, ma non soffre. Elabora, ma non ama. Produce linguaggio, ma non conosce il silenzio condiviso.
Ecco allora la conclusione che porto con me: l’A.I. arriva fino alla soglia.
Oltre quella soglia restiamo solo noi, con la nostra coscienza fragile, con la nostra capacità di dare senso, con la nostra responsabilità di custodire l’umano.

 

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1 commento

  1. Gabriella Biancastelli

    analisi magnifica di una nuova realtà che ci provoca ed affascina insieme

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