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COVID-19: La pandemia, lo stato di crisi e l’eccezione alla vita

20 Giu 20

A cura di Sarantis Thanopulos

 

Per comprendere la natura vera dello stato d’eccezione in cui ci troviamo, per motivi di necessità scarsamente interrogati dalla grande maggioranza degli “esperti” di vario tipo, sarebbe opportuno partire dal fatto che tra ogni ordinamento giuridico e la giustizia, c’è sempre una discrepanza. La giustizia non è un concetto mistico; è il principio della parità dei soggetti desideranti che, diversi nella declinazione della propria esistenza, sono liberi di costituirsi come amici o nemici nel campo degli scambi erotici, affettivi, culturali e sociali, senza aspirare a una posizione di dominio o sentirsi indifferenti tra di loro. Lasocietà civile, intesa nel modo più proprio, cioè come terreno in cui i sentimenti e le idee dei cittadini si incontrano, in contrasto con le ineguaglianze sociali, è il luogo in cui la giustizia, strumento etico/critico che misura la distanza dell’essere umano da se stesso, respira e resiste. 

In tutte le forme di stato d’eccezione temporaneo si sospende il legame tra la giustizia e la legge. Per conservare l’ordinamento giuridico di fronte a una minaccia incombente, per imporre un ordinamento dittatoriale attraverso l’aumento della divaricazione tra giustizia e legge, per creare un ordinamento più giusto attraverso un atto rivoluzionario di rottura con quello precedente. Diverso è lo stato d’eccezione permanente in cui l’eccezione riproduce continuamente se stessa e riduce l’ordinamento giuridico in imperativi retorici al servizio di schemi mentali/comportamentali di massa che hanno potere conformante e ‘forza di legge’. L’esito dello stato d’eccezione permanente è un regime totalitario, fondato sulla coincidenza, di fatto, del diritto del più forte col diritto di uccisione impersonale dell’altro. Non è un insieme di forze totalitarie che crea lo stato d’eccezione permanente, è l’incapacità di uscire dall’eccezione che fa nascere l’apparato necessario alla produzione del totalitarismo. 

L’emergenza sanitaria creata dalle pandemie non sfocia necessariamente in uno stato d’eccezione permanente, a meno che non si inserisca, come sta accadendo oggi col Covid-19, in una profonda crisi sociale e etica che del problema dell’infezione è concausa e anche un ostacolo a una suona buona soluzione. In questo caso è corretto parlare di stato di crisi di cui la pandemia è una severa aggravante. Lo stato di crisi da tempo sta svuotando l’ordinamento democratico, riducendolo progressivamente al suo guscio formale. Ha creato uno stato d’eccezione strisciante che ha le sue origini nella deregulation di cui Reagan e Thatcher sono stati i genitori politici putativi. 

Lo stato di crisi si manifesta in modo fin troppo evidente nella parcellizzazione estrema delle conoscenze scientifiche, diventate competenze tecniche, nel finanziamento della ricerca quasi indissolubilmente legato al lucro, nella dissoluzione del sistema sanitario selvaggiamente privatizzato, nel disinteresse nei confronti dell’ambiente, nell’estrema concentrazione della ricchezza che rende praticamente ingovernabile il pianeta. Al centro di tutto è la dissociazione, in gran parte, della produzione di beni dalla creazione di oggetti d’uso che soddisfino i nostri desideri e bisogni. Si producono cose che indipendentemente dal loro valore d’uso nominale servono per appagare bisogni artificiali presentati come desideri. L’eccezione permanente al legame tra la legge e la giustizia ci condanna a una mobilitazione perpetua contro questo o quell’altro pericolo che riproduce se stessa all’infinito. La rinuncia a un pensiero critico su ciò che realmente sta accadendo oggi e sulla via d’uscita dall’impasse (che non coincide con la scoperta di un vaccino), favorisce uno stato di necessità psichica claustrofilica che ci intrappola in una condizione di eccezione perenne alla vita. 

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