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INDIPENDENZA CATALANA: un senso di appartenenza rattrappito

16 Ott 17

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La crisi spagnola è la manifestazione più eclatante (dopo la Brexit e l’elezione di Trump) della confusione mentale che si diffonde nello spazio politico delle società democratiche. La confusione sfocia in azioni dissennate, il cui carattere coatto, compulsivo, più che impulsivo, trova un apparente significato nell’interesse personale di chi le compie. Puigdemont si è avviato alla costituzione della Catalogna come stato indipendente, in mezzo a una grave divisione della sua popolazione e senza alcuna idea chiara in mente, con un atto di spericolata forzatura alla quale ha affidato il suo futuro politico. Rajoy ha risposto simmetricamente con un altrettanto improbabile piglio franchista, nella speranza di coagulare attorno al suo governo minoritario un consenso nazionalista.
Sono calcoli di pura sopravvivenza, come la maggior parte dei gesti e dei disegni, supposti politici, dalle nostre parti, dove la tradizionale prudenza, mista a furbizia,  argina i comportamenti  autoritari, ma non rallenta per questo il processo di progressivo degrado delle istituzioni e della società civile. Una crisi identitaria sta minando il nostro movimento nel mondo e ci spinge a restare immobili in attesa che eventi esterni a noi decidano la nostra sorte. Puigdemont e Rajoy si rispecchiano nella loro immobilità con cui si nascondono la propria miopia e si risparmiano il dubbio su chi sono politicamente e se davvero esistono.
Il senso d’identità è generalmente inteso in senso difensivo come senso di appartenenza a sé o a una comunità definita e delimitata. In realtà l’appartenenza a sé è, fin dal legame originario con il corpo materno, un legame di co-appartenenza che abolisce (transitoriamente) i confini, ma si regge (silenziosamente) sulla differenza. Il nucleo essenziale del senso di identità è l’appartenenza come presentimento della libertà nei legami, della non appartenenza. Il presentimento si materializza nel movimento di estroversione di sé che il desiderio rivolto all’altro imprime alla nostra esistenza. L’identità nella sua espressione compiuta è presenza in sé coinvolta che si realizza nell’uscir fuori da sé, diventare eccentrici a se stessi.
Il riconoscimento di sé e dell’altro è incompatibile con l’isolamento e con la staticità (eccezione fatta per gli obitori). Esso è possibile solo in termini di reciprocità negli scambi. Identità è scambio sono inseparabili, la prima risente profondamente delle alterazioni del secondo. La globalizzazione ha spazzato via ogni forma paritaria negli scambi, si è imposta come sopraffazione brutale del più debole da parte del più forte. Il senso di identità -dei singoli individui, dei gruppi, delle comunità, delle nazioni-si liquefà: perso il legame con la rete delle relazioni fondate sulla reciprocità, l’immagine di sé sfuma i suoi bordi, diventa sfocata, confusa, vaga. Va alla ricerca di forme/contenitori e il passaggio camaleontico dall’una all’altra, da una parte dà l’illusione del movimento dell’autodeterminazione e dall’altra protegge dall’esposizione a una verifica vera del rapporto con la realtà che svelerebbe il vuoto.  
Le identità “liquide”, tuttavia, sono un fenomeno di superficie anche se hanno segnalato in anticipo i processi sotterranei che emergono oggi. Sotto la loro liquefazione le identità si sclerotizzano, si riducono a un senso di appartenenza rattrappito. Si ritraggono in sé per sfuggire al processo di dissoluzione delle relazioni che le aggredisce e finiscono per assecondarlo. L’indipendenza combatte la schiavitù, non la compiace nella sua forma più invisibile ma anche più feroce.

                        
 
 

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