Dialogo tra Sarantis Thanopulos e Annarosa Buttarelli
Sarantis Thanopulos: “Cara Annarosa la nostra ultima conversazione si è chiusa con una tua preoccupazione: la violenza dell’ignoranza sta dilagando, anche grazie ai social. Socrate era convinto che se l’essere umano conoscesse se stesso, saprebbe distinguere tra giusto e ingiusto. Pensava alla conoscenza di sé come conoscenza del mondo e viceversa. L’ignoranza ci allontana dalla giustizia e ci fa diventare violenti. La sua fonte più diretta nei nostri tempi, è il dominio del sapere tecnico sulle “scienze umane” (mai come oggi trattate con sufficienza, discredito da parte dei governi), ma anche, cosa insospettabile per lo sguardo distratto, sulle “scienze naturali”. Cos’è infatti la tecnica al di fuori delle relazioni erotiche, affettive e intellettuali che stabiliamo tra di noi e con il mondo, se non uno strumento di auto-alienazione? A cosa servirebbe una casa costruita con un sapere iper-tecnologico e totalmente affidabile in tutte le sue funzioni, se non sapessimo perché, come e con chi la abitiamo? Quale di questi due tipi di sapere dovrebbe avere l’egemonia e quale effettivamente la detiene?
Il dominio della tecnologia va di pari passo con la diseguaglianza esponenziale degli scambi e con la disgregazione dei legami umani. Ciò è fin troppo evidente, ma, al tempo stesso si riduce, per una parte di noi, a un dato astratto. Questa parte guarda da troppa distanza la realtà, perché la possa veramente amare. Vivendo nell’anestesia del distacco dalla vita e dalla sua conoscenza, rischiamo di trattare la consapevolezza di questo distacco come tensione di cui liberarci. Il distacco esercita una pressione molto violenta sul nostro mondo interno e l’estroflessione della pressione crea un sollievo ingannevole e fatale. I social quando trasformano gli spazi comuni in lande sterminate abitate da individui desolati sono violenti per chi li usa e, al tempo stesso, si offrono come strumento rapido per scaricare la violenza sugli altri.”
Annarosa Buttarelli: “Caro Sarantis sono d’accordo soprattutto con la prima parte della tua riflessione. Vorrei aggiungere che oggi siamo ben oltre la tecnocrazia, superata di gran lunga dal dominio della sorveglianza capillare sulle nostre vite ad opera di giganti digitali come Google, Facebook, Twitter ecc. Sono strumenti di controllo e di consolidamento dell’ignoranza violenta dilagante. Lo mostra Shoshana Zuboff nel Capitalismo della sorveglianza, oramai un classico. Nelle recenti vicende generate dal cosiddetto trumpismo, abbiamo potuto ancora una volta sperimentare il ruolo centrale dei social nel sospingere ancora più giù il degrado dell’umano.In tutto questo, precisamente nello stabilirsi dell’egemonia dell’ignoranza violenta, mi pare quasi un obbligo etico chiamare in causa il ruolo svolto dai cosiddetti intellettuali contemporanei (soprattutto maschi, mi risulta), molto lontano dall’aver assunto le indicazioni magistrali di Gramsci circa la necessità di “sentire” empaticamente, non solo gli umori, ma le grida del “popolo”, di cui non sanno ancora nulla. La rivolta populista contro le élite ha preso di mira soprattutto le élite della cultura accademica e della genealogia patriarcale. Stiamo soffrendo perché si sta distruggendo l’onore della cultura, ma è paradossale che gli intellettuali co-responsabili di questa distruzione si autonominano paladini dell’umanesimo. All’università proponevo spesso la lettura di un’articolo di Luce Irigaray di anni fa in cui disegnava l’intellettuale come lei credeva sarebbe dovuto essere per evitare la ripugnanza del “popolo” verso la cultura. Disegnava la figura di “artigiani dei processi” con cui si può concepire un’idea e anche la sua realizzazione, acquisendo la materialità dei passaggi, comprese le fotocopie da fare, la sedie da disporre in una sala, le parole da usare per farsi capire e per capire. Addio alla “dotta ignoranza” (fare e pensare l’esperienza)?”
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