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Medicina narrativa e Medicina cinematografica

4 Gen 14

A cura di Matteo Balestrieri

In collaborazione con Stefano Caracciolo

  L’insegnamento in medicina avviene al letto del malato a partire da Laennec (1781-1826). Nei moderni ospedali questo metodo didattico si è fatto sempre più raro con i progressi tecnologici, con diminuita attenzione per la relazione con il paziente e ripercussioni sull’efficacia dell’insegnamento.
  Un metodo formativo rilevante per lo sviluppo di tecniche relazionali in medicina è quello che utilizza i film del circuito cinematografico. L’assunto metodologico consiste nella convinzione che un esercizio controllato dei meccanismi di condivisione delle emozioni sia precursore di un buon adattamento emotivo nel contatto con il paziente, attraverso lo sviluppo di meccanismi di tipo identificativo.
 
La medicina narrativa
 
  L’approccio didattico basato sulle storie filmiche, pioneristicamente in uso anche in Italia da diversi anni, ha avuto un grande impulso negli ultimi anni nella letteratura internazionale, dove soprattutto si è consolidata una nuova proposta alla pratica medica che ha preso il nome di ‘medicina narrativa’. Rita Charon, alla Columbia University di New York, è stata la promotrice di questa modalità di studio e di insegnamento della medicina ed è un vero e proprio pioniere nell’adozione di tecniche basate sull’approccio narrativo. Charon definisce la medicina narrativa come “quella medicina praticata con la competenza narrativa di riconoscere, assorbire, interpretare e lasciarsi commuovere dalle storie di malattia”. Gli assunti di base sono che l’approccio “evidence-based” è fondamentale e non alternativo alla medicina narrativa, che il medico deve stare in contatto con le sue emozioni, che la capacità di prendere la decisione più giusta deriva in gran parte dall’accumulo di esperienze di casi singoli (esperienza diretta, storie cliniche riportate), che la dissonanza tra pratica clinica e prove scientifiche di evidenza deriva dall’abbandono del paradigma della medicina narrativa e dal seguire solo le direttive del solo approccio “evidence-based”.

  Secondo questa prospettiva si ritiene che sia fondamentale sviluppare le capacità di ascolto e comprensione delle storie dei pazienti, non solo per comprendere e diagnosticare meglio la loro condizione fisica e psicologica, ma anche e soprattutto per far nascere e rafforzare la fiducia nel medico e, di conseguenza, l’alleanza terapeutica e l’efficacia delle cure. Nella narrazione delle storie dei pazienti gli aspetti salienti da raccogliere sono cinque: la temporalità della storia, cioé l’asse cronologico in cui gli eventi della storia si sono verificati; l’unicità, ovvero le specifiche caratteristiche di quegli eventi presentatisi in quel modo, in quella persona, con quella personalità; la causalità, ossia la concatenazione degli elementi dell’intreccio narrativo, con cui gli eventi vengono, a torto o a ragione, collegati in senso deterministico; l’intersoggettività, legata alla interazione di due persone, il narratore, che in prima persona espone gli eventi, e il medico che li ascolta, attraverso un filtro soggettivo nell’esporre e nel ritenere; infine l’eticità, quindi gli aspetti che regolano il flusso narrativo attraverso il senso morale del ‘dover’ raccontare i fatti con sincerità  senza omettere nulla e del ‘doverli’ ascoltare senza riserve.

  In questo percorso il principale meccanismo che il medico deve utilizzare è la sua capacità empatica, ed ecco allora che le storie dei pazienti diventano un insostituibile strumento di sviluppo e di pratica per le capacità di condivisione delle emozioni che entrano a pieno titolo nei processi empatici che intercorrono fra medico e paziente, e specialmente fra psichiatra e paziente.
  Si inizierà pertanto a valutare, in generale, quanto la percezione di un film influenza le reazioni cognitive e emotive di una persona e dei meccanismi che lo rendono un potente mezzo di conoscenza, esperienza emotiva e persino strumento di persuasione, per proseguire poi sugli effetti della visione dei film sulla salute mentale e sul modo di pensare, fino alla valutazione delle finalità formative professionalizzanti della visione di un film, associata a strumenti formativi che ne potenziano i risultati.
  A un primo livello gli studenti di medicina, o delle professioni sanitarie, assumono atteggiamenti tipici del lettore/spettatore di fronte a storie emotivamente coinvolgenti, fenomeno frequente quando il materiale proposto proviene dal circuito cinematografico, il cui scopo non è didattico. A un livello più profondo lo studente si confronta con esperienze e aspettative relative alla funzione di medico, aspetti cruciali per lo studente, che ha limitate esperienze di Sé come curante, ma anche limitate esperienze di vita. Può non essere mai stato malato seriamente, non aver mai avuto lutti, non aver mai dovuto occuparsi di assistenza a malati o, invece, aver già affrontato situazioni difficili, che possono aver creato aree personali di particolare sensibilità, per cui è necessario usare cautela, prendendosi cura delle persone più esposte.
  L’obiettivo è quindi quello di promuovere interesse per le ‘storie’ dei pazienti, in un approccio narrativo alla malattia, accompagnando gli studenti nel percorso che va dall’identificazione con i personaggi (Quello/a sono io/Mi sento come lui/lei), allo sviluppo di un processo empatico (Come lo/la posso aiutare con queste sensazioni che condivido?), allo stimolo di processi riflessivi su di sé (Cosa sto provando e perchè?), alla riflessione sulla storia sceneggiata (Che cosa emerge dalla storia narrata?).
 


La medicina cinematografica
 
  Pellicole in cui si trattano reazioni psicologiche alle malattie sono presenti in tutta la storia del cinema. I primi esempi celebri si possono ritrovare ne Il gobbo di Notre-Dame nella sua prima versione del 1923, e nella fioraia cieca di Luci della città del 1931 di Charlie Chaplin. Ma il film che propone la prima impressionante interpretazione dell’impatto psicologico della deformità è Freaks di Todd Browning del 1932, capolavoro ‘horror’ in cui i mostri non sono esseri immaginari ma persone deformi, e in cui si rappresenta un vero e proprio inno all’innocenza delle persone così gravemente malformate, contrapposte al mondo malvagio dei ‘normali’. Il film ebbe un tale impatto sul pubblico, inorridito, che oltre a tagli e rimaneggiamenti subì una censura totale fino al 1962, quando fu riproposto al festival di Cannes. Il film biografico L’Idolo delle Folle del 1942 di Sam Wood racconta in modo commovente la vera storia del campione di baseball Lou Gehrig affetto da sclerosi laterale amiotrofica. La malattia ha da allora preso il nome di ‘Malattia di Lou Gehrig’, raro caso di morbo che prende il nome dal paziente invece che dal medico scopritore. In Anna dei miracoli di Arthur Penn del 1962 una coraggiosa insegnante lotta per rieducare una bimba cieca e sordomuta, resa intrattabile e prepotente dalle sue reazioni al grave deficit polisensoriale, così come avviene ne Gli esclusi di John Cassavetes del 1962, girato in un Istituto per Handicappati della California. Il tema sarà poi ripreso nel 1986 in Figli di un Dio minore di R. Haynes, con un insegnante dai metodi poco ortodossi ma rivoluzionari. L’epilessia è invece il motore narrativo principale de I pugni in tasca di Marco Bellocchio nel 1965, che porta il protagonista a uccidere i suoi familiari e poi a morire lui stesso, in una crisi convulsiva che gli riesce fatale. Un gravissimo handicap fisico presenta il protagonista di E Johnny prese il fucile (1971) di Dalton Trumbo, mentre la cecità del protagonista di Profumo di donna di Dino Risi del 1974 e del più recente remake del 1992 di Martin Brest, lo porta a cercare il suicidio. I reduci del Vietnam portatori di handicap fisico sono stati spesso mostrati sul grande schermo, come in Tornando a casa di Hal Ashby nel 1978, Il mio piede sinistro di Jim Sheridan del 1989 e Nato il quattro di luglio dello stesso anno di Oliver Stone.
  Alcune gravi disendocrinopatie fanno da sfondo ad alcuni film di grande valore artistico come Il tamburo di latta (1974), grande affresco storico del nazismo tratto da un romanzo di Günther Grass con regia di Volker Schlöndorff, nel quale il protagonista presenta un grave nanismo, o come in Dietro la maschera (1948) di Peter Bogdanovich, in cui una rara ipertrofia del massiccio facciale conferisce al protagonista un aspetto mostruoso. In The elephant man del 1980, il regista David Lynch disegna la biografia di John Merrick, noto come fenomeno da baraccone nell’Inghilterra vittoriana, sfigurato mostruosamente dalla neurofibromatosi e morto in una sorta di suicidio dopo vicende ad esito doloroso. Anche in Fur del 2006, biografia romanzata della fotografa americana Diane Arbus di Steven Shainberg, compare un mostruoso personaggio affetto da una gravissima ipertricosi che gli rende impossibile la vita sul piano sociale; l’interesse per gli aspetti corporei distorti e alterati presenta notevoli analogie con Freaks e rimanda a modelli narrativi antichissimi legati all’incontro con esseri dalle fattezze mostruose o animalesche, come ne La Bella e la Bestia portato sul grande schermo da Jean Cocteau nel 1946.
  Una rivisitazione delle malattie neurodegenerative si trova in Risvegli di Penny Marshall (1990), dal romanzo di Oliver Sachs, nel quale una sperimentazione farmacologica riporta momentaneamente ad una vita attiva un gruppo di pazienti che l’encefalite letargica aveva ridotto ad uno stato vegetativo; il registro mediocre e un inguardabile finale zuccheroso ne limitano l’utilità didattica. L’impatto della sclerosi multipla è trattato con ben altra onestà in almeno altre due significative pellicole: Go now di Michael Winterbottom (1995) e Duet for one di Andrej Konchalosky (1997).


  Sul tema del riscatto dopo la malattia, da segnalare A proposito di Henry di Mike Nichols del 1991, e Tutto può succedere di Nancy Meyers del 2003, commedia leggera e frizzante dove un donnaiolo ricco e impenitente deve confrontarsi con il drammatico evento di una crisi cardiaca.
  Un altro grande capitolo delle reazioni a patologie mediche che compare nelle vicende cinematografiche è quello che riguarda il drammatico impatto delle malattie neoplastiche sulla vita delle persone. Ma di questo parleremo una prossima volta.
  Per chi desidera un approfondimento su questi temi, rimandiamo ai due volumi “Vero come la Finzione. La psicopatologia al cinema” (di Balestrieri, Caracciolo, Dalle Luche, Iazzetta e Senatore) editi da Springer nel 2010 e distribuiti su http://www.ibs.it/code/9788847015395/vero-come-finzione/balestrieri-matteo.html e http://www.ibs.it/code/9788847016811/balestrieri-matteo/vero-come-finzione.html.

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