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NIENTE DI NUOVO DAL FRONTE DELL’SPDC

2 Giu 17

A cura di Gilberto Dipetta

Monto la guardia verso le ore 13,00 del 31 maggio.
Consumo un pasto veloce e frugale in stanza e mi reco alla terapia intensiva della Neurochirurgia con Fabiana, la caposala, dove un “nostro” paziente giace da 28 giorni in preda ad agitazione continua. Dalla terapia intensiva della Neurochirurgia insistono per trasferirlo da noi per manifesta “ingestibilità” Luigi, di anni 52. Operato un mese fa di ematoma subdurale acuto. Tenuto contenuto con le garzine al lettino, nudo, a temperatura fredda. Alcolista. Separato dalla moglie. Senza figli. Ospite revolving, negli anni, di strutture neuropsi per lungodegenti. Di quelli che trascorrono la giornata sulla piazza del paese, aspettandone la fine. Conosciuto al CSM di zona. Uno di quelli, per cui, cosa vuoi che si faccia, se non c’è nulla da fare. Io e Fabiana abbozziamo, ma ce lo prendiamo. Inutile far capire all’anestesista che il paziente è ancora disorientato e che il cervello umano non serve solo a muovere i quattro arti. Ovviamente non cammina, Luigi, dopo un mese. Dovrebbe fare la fisioterapia. Ma chi ci si accosta? Non è collaborativo. E’ logorroico, incongruo. Ma “non ha nulla di organico”. Dunque : psichiatria. La sensazione di essere proprio noi degli SPDC l’ultima spiaggia è forte. E’ continua. Quando entri negli altri reparti senti che l’aspettativa è: liberateci, venitevelo a prendere, chiudetelo. Buttate la chiave. Non potevano trasferirlo dalla terapia intensiva in reparto, come sarebbe stato nel decorso normale, perché inaccostabile agli altri pazienti. Inguardabile. Se la malattia ci fa uguali nella sofferenza, il disturbo mentale ci diversifica. I “nostri” sono “diversamente” sofferenti. E non basta avere un ematoma subdurale o il cranio aperto da un opercolo e un catetere nel pene per essere fratelli di stanza. Chiamo le sorelle. Affrontano un viaggio avventuroso attraverso i 32 comuni della nostra ASL, sull’asse mediano, la strada che porta al nulla. A vederle sono uno spettacolo. Una balbetta e un’altra la zittisce. E parlano insieme. Sostenendo cose diverse. Sembrano le famiglie dei degenerati morali di cui parlavano Morel e Magnan. Gli infermieri sono piuttosto reattivi. Temono che Luigi, che chiama tutti “Ispettore, Brigadiere”…diventi subito un reliquato da spdc. Di quelli di cui ci metti mesi per sbarazzartene. Semplicemente perché non hanno più dove andare. Perché non hanno mai avuto dove stare. Mesi e mesi in un reparto di emergenza. Al costo di 700 euro al giorno. Credo sia un’esperienza comune a tutti gli spdc italiani.
Il nostro reparto al momento non è messo bene in quanto a degenti. Giuseppe, di 70 anni, cade dal letto. Confuso e incontinente. Si screpola lo zigomo. Chiedo TAC cranica. Anche rx toracica. Ce lo hanno inviato dal PS di un altro ospedale. E’ del nostro territorio, di quelli seguiti a sprazzi dal CSM. Vagava senza meta. Sarà stato, un giorno, anche uno psichiatrico. Ma adesso è chiaramente un organico. Un demente. Se Kraepelin lo vedesse direbbe : avevo ragione. Alla fine sono tutti dementi.
Arriva Raffaele in PS. 51 anni. Apparentemente depresso. Tutti i farmaci non funzionano. Non riesce a perdonare alla moglie un tradimento. Arriva già in pigiama. Piccolo imprenditore agricolo, padre di figli. Come un disco rotto ripete:”Non mi sento bene”. Guardando alla sua storia penso che le ipotesi sono due : o non è minimamente depresso; o sarebbe da elettrochoc. Lo ricoveriamo e gli attacchiamo una boccia di acqua benedetta di Lourdes.
Mentre siamo in PS arriva Antonino, in stato stuporoso. Epilettico, abusatore, psicotico. E’ tutto sporco. Sembra un sacco di pulci. Chiedo esami e lavanda gastrica. Chiedo TAC cranio. Più che altro, anche per temporeggiare. Se con il reparto che abbiamo, per metà di organici, con due contenuti, porto anche il buon Antonino (tra l’altro dimesso solo una settimana fa, ed evidentemente non raccolto da nessuno), gli infermieri mi linciano.
Chiamano dal territorio. Passano a prendersi il risperidone orale per un paziente loro, che vedono a domicilio, che rifiuta la fiala di paliperidone long acting e accetta solo l’orale.
Richiamano dal territorio. I carabinieri cercano Alfredo che non si trova da due giorni. Avvertono che se viene in PS bisogna contattarli. Stanno dando la sua faccia in pasto a tutta l’Italia a “Chi l’ha visto”.
Giuseppe cade nuovamente. Lo faccio contenere. Anche il paziente della neurochirurgia è contenuto. Abbiamo due contenuti non tanto per aspetti psichiatrici quanto per aspetti confusionali organici.
Rinforziamo di una unità infermieristica per la notte.
Ho visto Vincenzo, Nino, Marija che sono venuti a controllo ambulatoriale.
Vincenzo è un avvocato scaricato dalla compagna perché beve. Nino è afflitto da anni da voci squassati che egli sa provenire dal proprio cervello, ma che non gli dànno tregua. Marija è una giovane mistica convinta di essere definitivamente guarita, pronta a varcare l’oceano per ritrovare il suo principe.
Ho parlato con i vari parenti che sono venuti a trovare i pazienti. Cercando di dare una risposta anche per le situazioni che non conosco bene.
Non ho potuto scambiare una parola con i pazienti ricoverati. Appena entro in reparto chiunque può camminare si avvicina per farmi la stessa domanda :”Dottore, quando esco?”. Ho calato la tapparella perché questo sole estivo mi ferisce gli occhi. La caposala Fabiana mi ha dato una grande mano. Gli infermieri sulle prime piuttosto reattivi poi hanno collaborato. Ogni tanto qualcuno di loro si è lasciato cadere sulle sedie della stanza medica e si è lasciato andare ad uno sfogo.  Sono quasi le venti. Stasera do lo smonto a me stesso perché siamo in sottorganico. Tra un quarto d’ora mi smarco. Poi aspetto che passa un minuto. E mi rimarco. Mi ripeterò le consegne in silenzio. Vado incontro ad una notte, e i posti letto scarseggiano. Cosa mi porterà la marea stanotte? Andiamo verso un festivo con il reparto pieno. La metà dei pazienti sono organici e anziani. Esseri senza destino. Che non troverebbero nessun dove tranne che qui.  Nessuno parla di questi pazienti nella psichiatria dei convegni. E sono pazienti che non si trovano nei repartini universitari. Ieri durante una riunione di reparto un giovane allievo tirocinante infermieristico ci ha detto che abbiamo una scarsa relazione con i pazienti. Che facciamo solo custodia. Che non ha senso tenere le persone così, a camminare avanti e dietro per il reparto per dei giorni. Tutte sedate. Mi sono sentito trattato alla stregua di un alienista manicomiale del secolo scorso. Gli ho obbiettato che pochi reparti hanno il nostro spazio. Che pochi reparti hanno un cortile interno. Ma non mi è sembrato convinto. E neanche io. Ricordo quando credevo, giovane psichiatra, di poter gettare il camice alle ortiche. Di quando mi ero convinto che non avrei più messo piede in un spdc. Invece ci sono tornato. Reduce dai miei fallimenti come territoriale. Reduce dai conflitti con il potere istituzionale. Però mi consolo pensando che fino a non molti anni fa questi pazienti venivano segregati, torturati, e che, per quanto noi siamo limitati, non sembra lontano il momento che questi pazienti tornino ad essere semplicemente degli homeless. Sembra che nelle società occidentali il capitolo di spesa per la salute mentale preveda tagli sempre più drastici. I servizi si stanno smantellando in tutto il mondo. I rapporti che mi vengono da colleghi inglesi, svizzeri, francesi è allarmante. Tra gli obiettivi dati alla nostra nuova direttrice di dipartimento c’è quello di internalizzare i pazienti esternalizzati. In realtà sappiamo che non abbiamo strutture. Disegno una sequenza storica : siamo passati dall’internamento, all’esternamento, ora tocca al disperdimento.  
Scopriamo nel borsone di Giuseppe un flacone di Gardenale. Senza nessuna prescrizione. Chiamo al suo medico di territorio e non ne sa nulla. Chiedo il dosaggio del fenobarbital per domattina.

TURNO DI GUARDIA 20,00-08,00
Alle 20,00 mi smarco. Attendo un minuto davanti al marcatempo. Alle 20,01 mi rimarco. Alle 20,15 si presenta Giovanni, il reduce dai mondi alieni.
Alle 21 ricoveriamo Antonino. La collega mi chiama e mi dice che dopo due fiale di midazolam da 5 il paziente è ancora agitato, pertanto è impossibile fargli la TAC. Poi aggiunge: “Tanto non è un esame dirimente, in questo caso. Cosa vuoi vedere? ECG a posto. Esami ematici perfetti. DAU positivo solo per benzodiazepine. E’ chiaramente un vostro paziente”. E’ un nostro paziente. Non è un paziente del Pronto soccorso. E’ nostro dalla nascita alla morte, con il suo corpo, con la sua cacca, con i suoi vestiti che puzzano.  Gli infermieri gli fanno subito il bagno. Sta tutto defecato addosso. Non si regge perché gli hanno praticato il midazolam per la TAC e comunque non ci sono riusciti.  Non si cambia i vestiti da mai. La madre, una donna minuta, anziana. Rassegnata. Mi fa tanta pena. Le dico : vada, signora, vada a riposarsi. Torni domattina”.
Non ho più fascette di contenzione.
Però scende la notte. E le luci vengono soffuse. E la tranquillità chimica si distende su di noi. A poco a poco le uniche figure che circolano per il reparto siamo noi. Ci ritroviamo per un boccone veloce, mentre la tv blatera inutilità. Scrivo queste note nel silenzio rotto dalla sirena di qualche ambulanza, perché mi aiutano a sentirmi parte di un tutto, e non l’ultima sentinella che monta la guardia ad una discarica di rifiuti speciali. Di rifiuti umani.
All’una portano un paziente in TSO da un altro SPDC della nostra ASL. Loro hanno solo sei posti e traboccano. Il giovane nero ghanese portato dai carabinieri in reparto si rifiuta di fare tutto. Anche i prelievi ematici per gli enzimi cardiaci che erano alterati. Non vuole che prendiamo il suo sangue, non vuole che lo tocchiamo, non vuole il nostro cibo. Vuole solo che apriamo quella porta.
Poi arriva Alfredo, rintracciato dai Carabinieri, verso il confine laziale. I folli sono gli ultimi a tentare la Wanderung, il viaggio dei romantici. Il viaggio per perdersi, non per arrivare da qualche parte.
Alle sei suona l’allarme antincendio perché qualcuno lo ha meccanicamente attivato.
Sono quasi le 8. Gli infermieri si accorgono che Antonino sta male. Mi chiamano. Intanto è arrivata di smonto la giovane Livia.  Adesso che è snebbiato dal midazolam ci accorgiamo che ha un lato destro ed è afasico motorio. Babinski positivo a destra. Mingazzini positivo a destra. Comprende gli ordini ma non riesce a comunicare. Adesso mi pare evidente una lesione emisfrica destra, probabilmente ischemica. Le pupille sono isocicliche. Livia riesce ad ottenere una TAC urgente. Con l’ambulanza lo portiamo in radiologia cercando di tranquillizzarlo. Di peso, avvolto in un lenzuolo, lo sistemiamo nel tunnel. Poi guardiamo il monitor con il fiato sospeso. Il radiologo ci conferma un’ischemia in zona capsulare emisferica sinistra, a dire accaduta almeno da 8-9 ore. Del resto non si sarebbe visualizzata altrimenti. Si meraviglia per la giovane età del paziente. Soggiungo che i pazienti psichiatrici, come non hanno corpo, così non hanno età. Lo portiamo subito in medicina. Il primario ci accoglie con un ghigno e ci impone una sorveglianza. Commenta che ora gli abbiamo portato il casatiello e che glielo lasciamo là. Problemi per trovare un letto, poi lo trovano. Sopportiamo in silenzio. Mi domando come Antonino ha superato il nostro mitico triage e l’osservazione breve inensiva (OBI) del nostro Pronto Soccorso, di diverse ore, almeno dalle 17 alle 21, con un evento cerebrovascolare acuto in atto senza che nessuno si sia adoperato per lui. Anzi, considerando la mia richiesta di TAC del tutto peregrina, perché fatta da uno psichiatra (che medico è uno psichiatra?) per un paziente psichiatrico (ma ha un corpo? Ha anche un corpo un paziente psichiatrico?).
Smonto alle 10,30. Dopo circa venti ore. Lungo la strada incontro la madre di Antonino. Ha i quattro stracci di ricambio del figlio in una busta. E’ curva, viene a piedi sotto il sole. Mi accosto. Le dico che Antonino è in medicina, che ha avuto un piccolo evento cerebrale. Accusa appena il colpo inarcando le sopracciglia. Mi chiede indicazioni. Le dico di andare nel nostro reparto, che un infermiere l’accompagnerà. Poi il sole mi inonda il cruscotto, il mare è in vista, limpido. La brezza muove gli aghi dei pini. L’estate è nell’aria. Ma non c’è leggerezza dentro di me. Quando finirà questa eterna notte?

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5 Commenti

  1. stefanosanzovo@quipo.it

    Hai ragione, Gilberto. I tuoi
    Hai ragione, Gilberto. I tuoi report mi (ci) piacciono perché sono quelli di tutti noi. Che ci sentiamo impotenti di fronte agli stessi problemi, uguali in ogni angolo della nostra penisola (e forse del mondo). Ma grazie a te abbiamo la certezza di non essere soli. E questo ci basta per andare avanti.

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    • gilbertodipetta

      Grazie Stefano, per il tuo
      Grazie Stefano, per il tuo commento. Invito tutti coloro che mi stanno scrivendo privatamente a pubblicare il loro commento su psychiatryonline. La voce dello “psichiatra ignoto” che ogni giorno e ogni notte fa quello che può in un contesto sordo, indifferente, lontano dalle luci della ribalta, rischiando la vita per trovare o per inventarsi un compromesso possibile tra la realtà e la follia, deve diventare forte e chiara. Non è pensabile tollerare un’establishment accademico-congressistico-societario che ignora del tutto il dramma che è diventato il turno di servizio di un medico che non voglia abdicare alla propria mission. Tutto ciò non ha il senso di una retorica ribellione antiistituzionale, piuttosto è il richiamo che professionisti che si muovono dentro le istituzioni fanno a chi di dovere perchè si accorci la distanza tra le magnifiche e progressive sorti del nuovo farmaco o del nuovo modello o del nuovo futuro ed emerga in primo piano e a tutto tondo la figura dell’incontro tra curante e sofferente, spesso soli in un vortice senza via d’uscita, nè per l’uno e nè per l’altro. Di questo passo sempre meno giovani si avvieranno alla psichiatria e la de-psichiatrizzazione, lungi dal risparmiare ai nostri pazienti inutili sofferenze, li consegnerà alla barbarie del linciaggio della folla distratta e inferocita, senza più alcuna dignità di “malattia”. E’ grazie a tutti voi che anche io vado avanti, nella certezza di non essere “il solo”.

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      • giocastignoli

        Grazie Gilberto per la tua
        Grazie Gilberto per la tua testimonianza sofferta. E’ triste vedere come possa essere squalificato all’assistenza (doverosa, ma non attinente alla mission della nostra clinica) del malato psico-organico l’unico presidio di degenza psichiatrica concessoci dal nostro ordinamento. In assenza di una lucida e aggiornata interlocuzione tra psichiatria e medicina, si corre il rischio che questa abbia a operare una sorta di sua depsichiatrizzazione: la mancanza di costante informazione e stimolo tra gli operatori della salute mentale e gli altri attori dell’assistenza sanitaria sembra portare questi ultimi verso posizioni antiche, che richiamano lo stigma, la volontà di emarginazione ed il disimpegno. Fino alla richiesta di istituzionalizzazione persino per coloro che hanno anomalie di comportamento generate da patologie organiche. Antonino non meritava la tac, così come un’altro paziente, in cura con litio, non veniva visitato in DEA pur manifestando chiarissimi segni di emisindrome, in quanto evidentemente “psichiatrico”, o quell’altro, schizofrenico, che non veniva triagiato dai chirurghi pur manifestando i segni di una perforazione gastrica. Sono tante le considerazioni che si possono fare leggendo il tuo report; mi limito a considerare che i pazienti (tutti) meriterebbero di più e che un settore specialistico come il nostro dovrebbe poggiare su una organizzazione ospedaliera che esalti le sue competenze e non le deprimi ad una azione custodiale di ciò che, per mancanza di competenza medica, viene considerata solo emarginazione. Finendo in divisioni, come l’SPDC, che spesso difettono delle capacità di assistenza e cura, esponendo a rischi altissimi, anche di vita, alcuni pazienti e a responsabilità enormi i clinici.

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        • gilbertodipetta

          grazie Giorgio. La battaglia
          grazie Giorgio. La battaglia per l’integrazione dei nostri pazienti si combatte casa per casa, letto per letto. Dai media che etichettano come folle ogni gesto che effrange clamorosamente il tessuto scorrevole del quotidiano anonimo, alle famiglie stigmatizzanti e stigmatizzate, eredi dalla 180 in avanti di un carico intenibile, al vicinato, alle forze dell’ordine, ai pronto soccorsi, ai colleghi. Dispiace che una molecolar psychiatry completamente declinicizzata stia demandando tutto questo a non si sa chi o, per meglio dire, lo sta scotomizzando, come se i nostri pazienti fossero affetti da squilibri sinaptici da correggere per via farmacogenetica e basta. La figura dello psichiatra biologista è una figura debole, che sta provocando l’arretramento della governance psichiatrica di certi processi. Per certi aspetti ci siamo suicidati da soli. Ci stiamo autoespungendo dal tessuto sociale attraverso una iperriduzione semplificata della malattia mentale che non tiene conto di nulla se non di ipotetici squilibri tra le bilance dopaminergiche e le cellule a candelabro. Queste brillanti modellistiche neurochimiche non ci dànno la possibilità di concettualizzare il di più della malattia mentale. Nei paesi anglosassoni il ruolo dello psichiatra biologico è sempre più marginalizzato alla somministrazione periodica di farmaci e all’emissione di una diagnosi convenzionale. La governance dei pazienti è affidata ad operatori sociali declinicizzati. il che non significa eliminare lo stigma ma enfatizzarlo, poichè i pazienti sono ghettizzati. La battaglia casa per casa, letto per letto, è una battaglia che ognuno di noi deve combattere per conto suo, e che tutti dobbiamo combattere insieme. Dispiace la solitudine, il silenzio delle nostre Società scientifiche su tutto questo, i nostri congressi poveri di contenuti e patinati, l’assenza di formazione in ambito psicopatologico e antropologico che potrebbe ridare vigore alla striminzita biologizzazione, il silenzio degli universitari che rincorrono i loro curricola con pubblicazioni collettive e reciprocamente impattanti, ma totalmente avulse dal dramma che quotidianamente vive chi ancora incontra i pazienti e si relaziona con loro.

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  2. admin

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