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Per un ritorno del welfare reggiano al territorio

11 Feb 19

A cura di Leonardo Dino Angelini

Uno degli elementi costitutivi del welfare reggiano delle origini fu quello dello stretto legame dei vari servizi col territorio. Ciò significa che tutte le attività di base dei servizi sanitari, psichiatrici, psicologici e sociali erano fisicamente e mentalmente collocate nei vari quartieri della città (e praticamente in ogni paese di una certa consistenza in periferia secondo una logica distrettuale che faceva si che anche i paesi più piccoli avessero a disposizione un centro vicino cui potersi riferire).
Si era andata in questo modo definendo, a partire dalla pratica e dalla riflessione puntuale sulla pratica, una mente collettiva – l’equipe, il collettivo di lavoro – capace di leggere i bisogni attuali e preminenti del territorio e di interloquire con gli altri luoghi del welfare a vari livelli.
Ciò risultava particolarmente importante in età evolutiva poiché a livello di quartiere permetteva sia un rapporto ravvicinato con le famiglie; sia una interlocuzione e spesso una operatività condivisa con gli altri luoghi del welfare: dalla scuola dell’obbligo alla pre-scuola, dalla Circoscrizione fino ai vigili di quartiere; sia una condivisione delle esperienze e delle riflessioni nelle equipe poli-professionali che costituiva la base per la definizione di un programmazione puntuale degli interventi.
Tali equipe ovviamente non erano più luoghi incentrati sulla gerarchia, ma luoghi parzialmente orizzontali, in cui ciascuno aveva diritto di parola, anche se – sentito il parere di tutti – l’ultima decisione spettava a chi guidava il gruppo di lavoro.
La stessa logica era alla base del coordinamento dei vari servizi di base a livello comunale (o distrettuale): e ciò permetteva l’acquisizione di una visione d’insieme dei problemi della città, il varo e l’aggiornamento di una programmazione e di una verifica altrettanto puntuali.
 
Varie erano le ragioni che erano alla base di questa modalità di lavoro dei servizi del welfare reggiano (modalità peraltro non dissimili da quelle usate in molti altri luoghi del welfare di quegli anni): innanzitutto la necessità di fornirsi di un modello adeguato alle esigenze di cambiamento e di riflessione sul cambiamento che il nascente welfare imponeva; ma anche qui a Reggio – e in tutta l’Emilia – la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una società che, a partire dal boom economico dei primi anni ’60, era andata rapidamente mutando.
Da grosso borgo rurale e  proto-industriale[1], con una buona parte degli abitanti dispersi nelle varie ‘ville’ di periferia, Reggio era diventata in quegli anni una realtà industriale avanzata e, sotto gli occhi du tutti, si andava terziarizzando. Ciò aveva indotto ulteriori importanti cambiamenti: l’inurbamento, l’estendersi fra tutte la classi sociali della famiglia nucleare, la nascita di nuove immagini della genitorialità e dell’infanzia, le nuove attese nei confronti della scuola e della pre-scuola, etc.-
La crisi del welfare, che si accompagna alla crisi della prima repubblica, comportò all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso il passaggio all’aziendalizzazione, alla tikettazione dei servizi, la rinuncia ad alcuni aspetti della cura (si pensi agli anziani, ed al loro ricadere sulle spalle delle famiglie e delle donne in particolare), ed infine al welfare mix, cioè il passaggio di parte dei servizi al privato no profit o profit, in base al peso che la composizione organica del capitale esercita sulla loro nascita.
E sono ancora una volta l’Emilia e Romagna, e Reggio Emilia in particolare, le palestre primigenie in cui si sperimentano le varie modalità di uscita dalla crisi del welfare. E l’alleanza che si crea in quegli anni fra amministratori ex-comunisti ed homines novi ex-democristiani ha proprio nel welfare mix uno dei suoi punti di forza.
Tutto ciò ha portato  alla deterritorializzazione, alla chiusura fisica delle equipe territoriali (con la scusa che i luoghi decentrati costavano troppo!), alla trasformazione del welfare in un affare che si fonda sulla precarizzazione del lavoro (che oltretutto è lavoro prevalentemente femminile!), sulla scomposizione dei luoghi di lavoro in una sommatoria di ‘posti’ da distribuire ai propri clientes, e in ogni caso sulla perdita del diritto di parola all’interno dei luoghi di lavoro, e sulla conseguente scomparsa dell’idea stessa di equipe come luogo di riflessione e di libera sperimentazione.
L’appalto al privato di area, spesso ‘suggerito’ dalla Regione ER, è stato implementato grazie alla connivenza delle nuove dirigenze tecniche che hanno prima affiancato, e poi sostituito le vecchie dirigenze, ed ha portato alla formazione di veri e propri oligopoli in ogni settore del welfare. Che nel privato no profit sono essenzialmente quelli che fanno capo agli ex-Pci, agli ex-democristiani e, in misura minore, a Comunione e Liberazione, etc. – In quello profit a cordate, che a volte coinvolgono anche i vertici tecnici della sanità, e che in ogni caso godono di un rapporto privilegiato col pubblico basato sul sistema delle convenzioni e dei ticket da esse derivanti.
 
Ciò ha pesato enormemente sui lavoratori dipendenti che, essendo pressoché gli unici a pagare le tasse, si ritrovano da 25 anni a pagare due o tre volte i servizi (o anche quattro se si pensa agli accordi che lo stesso sindacato va facendo con il welfare aziendale). Ma anche sulle fasce deboli della popolazione, e cioè sugli anziani, sulle famiglie con disabili; su quelle fragili, monoparentali, ricomposte, su quelle con svantaggio socio-culturale (fra le quali la maggior parte delle famiglie dei migranti di prima generazione) e su quelle deprivate.
La crisi economica da ultimo ha accentuato i problemi ed è arrivata anche qui a lambire le classi medie, e soprattutto i giovani e le giovani coppie che, se non possono giovarsi di ciò che viene dal welfare intra-familiare (genitori, nonni), vengono subito a trovarsi in grande difficoltà nel definire una strada percorribile per il proprio futuro.
 
Come uscirne? Un ritorno indietro è impensabile, anche perché nel frattempo la società reggiana si è ulteriormente modificata, diventando una società terziarizzata e multietnica. Questo rapidissimo cambiamento che è avvenuto nell’arco di tre generazioni sta producendo una situazione di anomia, in cui cioè le vecchie regole di convivenza civile spesso non hanno più credito, e le nuove non sono sufficientemente condivise.
Ciò impone una lettura aggiornata e puntuale delle odierne priorità, soprattutto quelle delle fasce deboli cui accennavamo sopra, ma anche quelle di tutta la realtà reggiana. Lettura che dovrebbe condurre ad una nuova composizione, ed ad una nuova alleanza fra prescuola – scuola – sociale – sanità – psichiatria – psicologia.
Ciò impone la nascita di un nuovo welfare pubblico, o strettamente connesso con le reali priorità sancite da una pubblica amministrazione che non può più nascondersi dietro le vecchie conquiste nel frattempo sostanzialmente sbaraccate, privatizzate, aziendalizzate, tickettate, o ridotte ad una vetrina dietro la quale ormai c’è poco di ciò che furono le priorità e le emergenze del vecchio welfare.
A mio modo di vedere il Comune potrebbe essere il motore del cambiamento. Anche se non sarà un’impresa facile poiché le nuove metodiche hanno prodotto nel frattempo delle nodose incrostazioni, e gl’interessi in campo resistenze tanto robuste che si opporranno più o meno apertamente ad un nuovo corso.
Certo è che, a partire da una lettura dei bisogni e da una considerazione dei diritti, si possono e si debbono indicare alcune linee di tendenza: – programmazione pubblica e partecipata delle strategie di welfare; – ridefinizione delle convenzioni con il privato no profit e profit in base a queste esigenze di programmazione e a queste priorità; – rigetto dell'aziendalizzazione; – decentramento e territorializzazione dei servizi di base; – superamento del precariato sia nel pubblico che nel privato; – superamento delle tendenze oligopolistiche e dei patti di cartello, e valorizzazione delle imprese giovanili di tipo realmente cooperativo.
Centrale a mio modo di vedere è la possibilità e la volontà che il Comune avrà di darsi dei nuovi servizi socio-sanitari decentrati , che tornino ad embricarsi con la scuola, con i servizi amministrativi, con i luoghi delle varie specialistiche sanitarie, psicologiche e psichiatriche, che dovranno tornare a relazionarsi con i servizi di base[2], ed a fornire risposte immediate (cioè: non rimandate alle calende greche) ai vari bisogni di tutela e di cura.
 
 
 
 

[1] È poco noto ormai, ma l’allora famoso discorso di Togliatti sull’alleanza fra operai e ceto medio produttivo nasce in base all’esperienza reggiana che vedeva un PCI con tanti iscritti operai, ma soprattutto tantissimi contadini (che costituivano il nerbo del ceto medio produttivo locale!)
[2] Dicevamo in un precedente post: “Per quanto riguarda la precarizzazione della specialistica l’esempio più esecrabile – almeno a Reggio Emilia – è quello dei NPI a contratto che spesso devono gestire dal proprio ambulatorio, e senza alcun legame con gli altri servizi pubblici o privati e le altre istituzioni, le più disparate questioni a partire dalla stesura dei piani individualizzati per disabili dei quali spesso non conoscono neanche la scuola in cui sono inseriti.
È molto facile in questi casi trovarsi di fronte o a un soggetto che avrebbe bisogno di cure, ma non è visto da alcuno poiché il monte ore a disposizione degli specialisti risulta insufficiente, oppure che lo stesso soggetto sia stato visto da più specialisti del pubblico e\o del privato che però non si sono mai potuti conoscere e scambiare le proprie impressioni; e che in ogni caso spesso in età evolutiva non ci sia alcun raccordo fra scuola, sanità e sociale
” (Cfr. la parte finale del documento  Setting di oggi, di ieri e di avantieri)
 

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