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Report dalle sale congressuali

27 Nov 12

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La cura del malato neurologico alla fine della vita
A cura di S. Guida e W. Natta
Apre i lavori il prof. Defanti, con un intervento dal titolo "Come muore il malato neurologico?". Partendo dalla constatazione che le ultime fasi della vita del paziente e il momento della morte sono sempre più spesso gestite dagli operatori sanitari, viene sottolineata l'importanza di un ampliamento delle conoscenze in questo campo, peraltro ben noto all'opinione pubblica in termini di situazioni di abbandono da un lato e di accanimento terapeutico dall'altro. Segue una rassegna delle condizioni cliniche di pertinenza neurologica che possono portare al decesso del paziente, partendo dalla situazione più frequente in assoluto, che è rappresentata dall'ictus.
L'argomento viene affrontato in termini fisiopatologici e clinici, evidenziando come i sintomi più frequentemente lamentati dai pazienti terminali siano il dolore, l'umore depresso, l'incontinenza urinaria e la confusione. Interessante anche la soddisfazione espressa dai pazienti nei confronti delle cure prestate dal personale infermieristico che è nettamente più elevata (eccellente nel 46%) rispetto a quella dei medici (29%). Si accenna inoltre alle problematiche inerenti le decisioni di fine vita, che verranno affrontate nelle successive relazioni. Proseguendo nella trattazione, il prof. Defanti si sofferma sulle altre cause di morte di pertinenza neurologica, come la sclerosi laterale amiotrofica, i tumori cerebrali, il Parkinson, la sclerosi multipla e le demenze. Nel caso della SLA, la morte si presenta nella maggioranza dei casi in modo "peaceful" senza che si verifichi un soffocamento; diversamente nel caso dei tumori cerebrali, la morte è più frequentemente "non peaceful", presentandosi con un corredo sintomatologico caratterizzato da dolore, dispnea e crisi epilettiche.
La comparsa della disfagia sembra essere il momento cruciale nel passaggio alla fase terminale, non tanto perché compromette la nutrizione, ma in quanto segnala il superamento di un punto di non ritorno. La disfagia può essere accompagnata dalla comparsa di dispnea neurogena. Entrambe queste complicanze possono essere risolte da un intervento protesico, talora in grado di arrestare il processo della morte. Questo implica il fatto che la terminalità non venga più determinata dall storia naturale della malattia, ma dall'eventuale decisione di non ricorrere a detti interventi. Questo vale per le malattie neurologiche croniche con decorso progressivo e danno diffuso, mentre il meccanismo della morte nelle patologie acute è più frequentemente rappresentato dall'insorgenza di ipertensione endocranica con apnea secondaria.
Segue l'intervento del prof. Paci, epidemiologo, che ha collaborato ad uno studio europeo denominato Eureld (European End of Life Decisions), di cui presenta i dati. Lo studio ha coinvolto Italia, Belgio, Svizzera, Danimarca, Olanda e Svezia ed è stato condotto tra il giugno 2001 e il febbraio 2002. L'obiettivo è stato quello di valutare, tramite questionari compilati dai medici che hanno assistito pazienti terminali, le decisioni di fine vita prese nei diversi paesi. Sono stati valutati in totale 20.000 questionari circa, con una percentuale di risposta da parte dei medici italiani inferiore alla media europea. In generale si è rilevato che una decisione di fine vita viene presa nella maggior parte dei casi negli altri paesi europei, a differenza di quanto avviene in Italia, dove per motivi diversi la maggior parte dei pazienti non esprime la propria volontà in tal senso. La scelta di non effettuare trattamenti medici per prolungare la vita presenta nel nostro paese la più bassa percentuale, per quanto questo dato possa in parte essere influenzato dalla percezione che il medico ha del proprio "non intervento".
Tra i provvedimenti attuati nella terminalità, l'eutanasia interessa una minoranza di casi nei paesi dove è depenalizzata, mentre per quanto riguarda l'alleviamento del dolore si hanno percentuali analoghe in tutti i paesi. Il ricorso alla sedazione profonda con benzodiazepine e barbiturici, è particolarmente frequente in Italia, con una maggiore quota di casi in cui viene applicata l'idratazione rispetto agli altri paesi europei. In Italia è in Svezia, la maggior parte delle decisioni prese non sono discusse con i pazienti e i familiari, inoltre in Italia si registra la minore frequenza di discussione del caso all'interno dell'equipe curante, dato questo che delinea un quadro di medico che si ritrova a prendere da solo molte delle decisioni riguardanti la fase terminale della malattia del paziente.
Un secondo studio è stato svolto chiedendo ai medici di diverse specialità la loro opinione su casi clinici che riguardano l'impiego, in patologie terminali particolarmente dolorose, di lethal drugs dietro richiesta del paziente. Il risultato è stato che la percentuale di medici italiani favorevoli è inferiore a quella di altri paesi europei. Dal confronto dell'atteggiamento dei neurologi italiani, rispetto a quello delle altre specialità mediche, è emerso che i neurologi si allineano maggiormente all'atteggiamento prevalente negli altri paesi europei su questi temi.
L'intervento successivo è quello del prof. Bonito, coordinatore del gruppo di studio di bioetica e cure palliative, che parla delle dichiarazioni anticipate di trattamento. L'obiettivo dello studio presentato è quello di stabilire se queste direttive possano costituire un valido strumento per coinvolgere il paziente nelle decisioni. Le dichiarazioni anticipate di trattamento vengono analizzate come forma di espressione del diritto all'autodeterminazione dell'individuo, come strumento della relazione terapeutica e infine per il loro specifico ruolo in neurologia.
A modello di questo protocollo viene descritta la Biocard che comprende le procedure accettate dal paziente in caso di terminalità o perdita irreversibile di coscienza / capacità di comunicare nonché l'indicazione di delega per eventuali decisioni non comprese nelle procedure elencate. All'interno della relazione terapeutica le DAT possono costituire uno strumento che aiuta il medico a prendere la decisione giusta e lo tutela in caso di decisioni in disaccordo con i familiari. Per il neurologo il ricorso alle DAT si rende utile nei casi di sedazione terminale, nutrizione e idratazione nella demenza, totally locked in e ventilazione assistita nella SLA. Quest'ultimo aspetto viene analizzato nel dettaglio per l'esperienza del relatore nel campo delle cure palliative per la SLA.
Emerge il problema della dispnea in corso di SLA, che può portare a morte, ma è risolvibile con il ricorso a ventilazione assistita. In ordine decrescente di frequenza si è visto che le decisioni di fine vita prese dal paziente sono DNR, nessuna decisione, sedazione, rifiuto della ventilazione. Secondo le linee guida USA la ventilazione nella SLA può essere rifiutata o sospesa dal paziente in qualunque momento, ma nella pratica clinica spesso il paziente non conosce i suoi diritti o il medico in emergenza non conosce la volontà del paziente.
Chiude i lavori il prof. Causarano, dell'Ospedale Riguarda di Milano, che parla di "Cure palliative in neurologia: come, dove, quando?". Inizialmente vengono delineati gli scopi della medicina palliativa rispetto a quelli della medicina curativa. Quest'ultima è incentrata sulla cura della malattia, mentre la le cure palliative mirano al sollievo del dolore, all'attenuazione della disabilità, all'assistenza a pazienti inguaribili, a propiziare una morte serena e a sostenere la famiglia. E' difficile stabilire la terminalità in neurologia, a differenza di quanto accade ad es. in oncologia. A tal proposito negli USA è stato elaborato un preciso protocollo che definisce i criteri per l'inserimento dei pazienti in programmi terapeutici palliativi per pazienti terminali, diversamente da quanto avviene in Italia, dove non esistono protocolli di questo tipo. La proposta del relatore è quella di prescrivere cure palliative, indipendentemente da criteri di terminalità, se il medico giudica che la morte possa intervenire entro 12 mesi. Viene sottolineata l'importanza di contrastare l'oppiofobia diffusa in Italia. Conclude l'intervento un riferimento alle modalità per comunicare la prognosi infausta.
Il relatore, a questo proposito, presenta un protocollo stilato da uno psicooncologo americano, che prevede innanzitutto la comprensione dei desideri del paziente di sapere o non sapere, in modo da aderire il più possibile al bene del paziente e non a quello che il medico ritiene sia il bene del paziente. 

Depressione: tre diversi aspetti della stessa patologia
A cura di S. Guida e W. Natta
Il primo intervento è quello del dott. Carbonatto, medico di medicina generale di Torino e responsabile nazionale dell'area psichiatrica della SIMG. Innanzitutto viene delineata la peculiarità dell'approccio al paziente depresso da parte del medico di medicina generale, rispetto al medico di una struttura ospedaliera. Il paziente ospedalizzato è isolato dal contesto sociale e l'attenzione viene centrata sulla malattia, mentre il paziente del MMG si trova nel suo ambiente naturale di vita e l'attenzione viene centrata sul malato. Questo aspetto avvicina la pratica della medicina di base a quella psichiatrica. In entrambi i casi si tratta di agenzie sanitarie di primo livello e di pazienti non ospedalizzati. Circa un terzo dei pazienti che giungono all'attenzione del MMG presenta un problema psichiatrico isolato o meno, perciò il MMG è di fatto il primo "psichiatra". La maggior parte dei depressi è curata dal MMG, che si incarica anche di assistere il care-giver. Le principali difficoltà diagnostiche incontrare dal MMG si riscontrano di fronte a presentazioni prevalentemente somatiche della depressione e a disturbi sottosoglia. 
I segnali d'allarme che il MMG dovrebbe riconoscere sono: le alterazioni del sonno e dell'appetito, la facile affaticabilità, ma anche il dolore cronico gastrointestinale o muscoloscheletrico e la cefalea. Inoltre il MMG deve indagare la familiarità per depressione, la comorbidità con abuso di sostanze, con malattie neurologiche o internistiche e la possibilità che il paziente abbia subito numerosi interventi chirurgici. Un altro indicatore di possibile depressione è l'aumentata frequenza di visite mediche effettuate nei 6 mesi precedenti. Gli strumenti a disposizione del MMG per porre diagnosi di depressione sono particolarmente importanti perché spesso la diagnosi di disturbo psichiatrico viene considerata una diagnosi di esclusione. In particolare quando si presentano sintomi fisici non spiegati il MMG corre il rischio di entrare nella spirale dell'accanimento diagnostico senza tenere conto dell'eventualità di una patologia psichiatrica. E' necessario migliorare la conoscenza da parte dei MMG dei sistemi diagnostici quali DSM e ICD e i MMG devono migliorare la formulazione di diagnosi psichiatriche. I MMG potrebbero utilizzare alcuni questionari come il PHQ, rapido ed autosomministrabile. La scelta di inviare il paziente allo specialista dipende da diversi fattori, tra i quali: la specializzazione del MMG, la richiesta da parte del paziente, la risposta alla terapia, il rischio di suicidio, la comorbidità e la presenza di disturbo bipolare o di sintomi psicotici. E' importante che il paziente venga preparato alla consulenza psichiatrica in modo da evitare che la consulenza venga vissuta come espulsiva sia dal medico che dal paziente.
Segue l'intervento del prof. Antonini, del Dipartimento di Neuroscienze dell'Istituto Clinico di Perfezionamento di Milano, che esordisce sottolineando l'importanza di considerare che la depressione possa essere anche un sintomo di una sottostante malattia neurologica. In particolare si è visto che, soprattutto nella sclerosi multipla e nella malattia di Alzheimer, punteggi elevati nelle scale di valutazione della depressione sono presenti anche prima dell'esordio dei sintomi neurologici. A dimostrazione di questa tesi, il relatore porta i risultati di diversi studi nei quali si evidenzia che la gravità della depressione non è in relazione con il grado di disabilità e che il miglioramento della depressione non correla con quello clinico. Conclude dicendo che la depressione nell'anziano è predittiva di malattie neurodegenerative in fase presintomatica. Questo vale particolarmente per il Parkinson in cui la depressione può essere il primo sintomo e può precedere quelli motori anche di 5 anni. Il paziente si presenta sempre più spesso dal MMG per sintomi depressivi e il medico di base si trova in difficoltà dal punto di vista diagnostico, data l'esistenza di numerosi sintomi in comune tra depressione e malattie neurologiche, basti pensare al rallentamento motorio, demoralizzazione, disturbi della memoria, del sonno e dell'alimentazione. Prosegue con la presentazione di studi di neuroimaging su pazienti parkinsoniani che hanno evidenziato la presenza di difetti funzionali che coinvolgono i circuiti dopaminergici nelle aree associative e limbiche. Questo stesso dato è stato anche valutato, sempre tramite neuroimaging, in corso di studi sul rewarding. Da ultimo, viene presentato uno studio sulla stimolazione cerebrale profonda a livello del nucleo subtalamico, che ha evidenziato una relazione tra la comparsa di sintomi depressivi e la stimolazione a questo livello.
Conclude il simposio il prof. Perugi, del Dipartimento di Psichiatria dell'Università di Pisa, che presenta uno schema di interpretazione patogenetico e diagnostico della depressione, intesa come risultato dell'interazione tra fattori genetico – costituzionali ed eventi psicosociali stressanti. La depressione può poi essere valutata in senso clinico (numero di episodi e sintomi residui) o neurobiologico (fattori di trascrizione, modificazione morfofunzionale di circuiti specifici), ma la via finale comune è la genesi di eventi di malattia spontanei. Vengono analizzati i fattori di rischio per la ricorrenza e la cronicità della depressione. Tra questi, il numero di episodi risulta essere il fattore più importante, per via del dimostrato effetto lesivo su strutture cerebrali quali l'ippocampo e l'amigdale. Tant'è vero che la terapia antidepressiva riduce questo danno, verosimilmente con un'azione neurotrofica. Il dibattito finale è stato incentrato sulla scelta dei farmaci antidepressivi nelle varie fasi della depressione. A tale proposito si è evidenziato che non esistono trials clinici che dimostrino la maggiore efficacia di un antidepressivo rispetto ad un altro. 

Report: Conferme e prospettive nel trattamento della Sclerosi Multipla.
(Crabbio)

Il simposio del pomeriggio è stato moderato dai prof V. Cosi e G. Tedesco.
Il primo intervento è stato tenuto dal prof R.Capra, che ha illustrato i dati di un recente lavoro sugli anticorpi neutralizzanti l'azione degli interferoni. I dati riportati si riferiscono ad uno studio che ha coinvolto più centri e che è stato condotto su pazienti in trattamento con terapia interferonica. Tra gli obiettivi ci si proponeva di indagare se gli anticorpi anti-interferone potessero o meno eliminare l'azione preventiva del farmaco, con la possibilità di creare una inibizione reciproca tra diversi tipi di interferone. Si è messa così in evidenza la necessità di dosare i livelli di MxA ( proteina indotta nei pazienti in trattamento con interferone ed interferente con la loro azione farmacologica) nei pazienti in trattamento con interferone che hanno frequenti ricadute o che hanno avuto un buon controllo di malattia per diversi anni ed improvvisamente ricominciano a presentare ricadute.
Il secondo intervento dal titolo " Il trattamento nella pratica clinica: l'esperienza lombarda" è stato condotto dalla prof.ssa C. Milanese. Sono stati riportati i dati di uno studio cui hanno partecipato numerosi centri di Sclerosi Multipla della regione Lombardia e che si è prefissato lo scopo di chiarire l'efficacia delle terapie immunomodulanti e di indagare se esistessero criteri comuni di scelta delle differenti terapie modificanti il decorso. In Lombardia i pazienti affetti da Sclerosi Multipla (SM), attualmente in trattamento, sono 2410 su un totale di 8527. I principali scopi dello studio sono stati di osservare l'efficacia a lungo termine della terapia, di confrontare l'efficacia dei diversi farmaci immunomodulanti, di stabilire l'incidenza ed i motivi di interruzione della terapia, di valutare l'effetto della sospensione sulla successiva evoluzione di malattia e di chiarire se esitano strategie comuni di switch terapeutico. Sono stati considerati solo i pazienti con una forma di SM tipo relapse-remitting (RR). Anzitutto è emerso che tra i principali motivi di interruzione del trattamento ci sono la persistenza degli attacchi, l'aumento della disabilità e la presenza di effetti collaterali. Circa lo switch terapeutico in caso di fallimento della terapia iniziale non è emersa una tendenza comune; in generale chi è in trattamento con interferone viene messo in terapia con un'altra formulazione di interferone o con la stessa a maggiore dosaggio, mentre nel caso del glatiramer acetato si shifta variabilmente verso una forma di interferone. E' inoltre emerso che tra i pazienti in cui l'interruzione della terapia avviene per inefficacia del trattamento pochi rimangono senza terapia. Nei pazienti che hanno abbandonato la terapia per altri motivi, molti sono rimasti privi di terapia, mentre altri hanno shiftato verso dosaggi minori dello stesso farmaco. In conclusione si è evidenziato che esiste un'effettiva efficacia dei trattamenti immunomodulanti nella SM-RR, che tale effetto si mantiene in modo efficace anche dopo 5 anni di terapia, che non vi sono grandi differenze nel prevenire le ricadute tra i diversi farmaci. Inoltre si è visto che l'interruzione della terapia preventiva riattiva la malattia solo nel 42% dei pazienti con un primo attacco a distanza di circa 11 mesi dalla sospensione. La discussione che ha seguito il dibattito ha messo in luce la difficoltà ad individuare un criterio univoco sulla base del quale stabilire chi siano i "responder" ed i "non responder" alla terapia. 
Il terzo intervento dal titolo " il trattamento della pratica clinica: l'esperienza pugliese" è stato tenuto dalla prof.ssa M. Trojano. Il lavoro del gruppo pugliese si è svolto in parallelo a quello della regione Lombardia con la finalità di determinare se esistesse una reale efficacia della terapia immunomodulante e di confrontare l'efficacia delle differenti terapie. I pazienti trattati nel centro SM di Bari sono circa 1400, il 55% degli affetti da Sclerosi Mutipla. La percentuale di drop-out è risultata del 20% con uno switch terapeutico del 20%. Anche in questo studio è emerso che tutti i trattamenti immunomodulanti si dimostrano efficaci ed hanno tutti efficacia sovrapponibile. 
Ultimo relatore è stato il prof. L. Mancardi che ha parlato del futuro terapeutico nella SM. La ricerca di nuove terapie si sta orientando anzitutto verso inibitori della migrazione linfocitaria all'interno del SNC. La molecola che fin'ora è stata studiata a questo scopo è il NATALIZUMAB. Sono stati effettuati due studi di fase III: il primo, AFFIRM ( non hanno partecipato centri italiani), ha evidenziato la presenza di un'effettiva efficacia del farmaco con riduzione del 40% delle lesioni rilevabili in T2 alla RMN e si è mostrato efficace anche sul rallentamento della progressione clinica della malattia; il secondo, SENTINEL (hanno partecipato anche gruppi italiani), ha ribadito l'efficacia del farmaco, anche se in questo studio il natalizumab veniva associato alla terapia con Avonex.. Alcuni mesi dopo la chiusura del trial clinico si sono verificati tra i partecipanti allo studio tre casi di PML che hanno comportato il ritiro del farmaco dal commercio negli USA, dove era stato già approvato dalla FDA. Un'ulteriore novità terapeutica nella SM sembrerebbero essere le statine che hanno dimostrato di poter determinare uno shift dei linfociti verso il sotto-gruppo Th2. Anche in questo caso sono stati condotti trial in cui le statine venivano utilizzate sia in monoterapia che associazione, dimostrando una riduzione del 44% delle aree captanti mdc. Una molecola molto promettente sembra essere la sfingosina I fosfato (SIP) che interferirebbe con un recettore presente sui linfociti. Il farmaco è stato proposto a due dosaggi con l'evidenza di una riduzione dell'attività di risonanza pari al 50-55%. Il farmaco ha presentato tuttavia alcuni effetti collaterali a livello cardiaco e bronchiale. Caratterizzata da importanti effetti collaterali è stata anche la sperimentazione della linomide, farmaco che nelle fasi pre-cliniche aveva dimostrato una potente attività e del quale si sta cercando una molecola con affinità strutturale ma minori effetti secondari. Nel caso in cui tutte le terapie si dimostrino inefficaci si può pensare al trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche, preceduto da una forte immunosoppressione. Questa procedura ha dimostrato un "reset" del sistema autoimmune con annullamento per alcuni anni dell'attività di malattia. 

Simposio: Le canalopatie: valore dell'approccio multidisciplinare allo studio dei tessuti eccitabili
( a cura di A. Repetto)
Il simposio si è aperto con l'introduzione del prof. Meola (Milano) esperto di canalopatie muscolari. Questo capitolo comprende un ampio spettro di condizioni, alcune caratterizzate esclusivamente dal fenomeno miotonico, quali la miotonia congenita, legata ai canali del sodio, e altre condizioni nelle quali ci può essere sia l'evento miotonico che l'evento di paralisi, come la paramiotonia congenita, la forma PAM che vede un aggravamento con l'ingestione del potassio, e poi il quadro di paralisi periodica ipercaliemica. Per quanto riguarda l'aspetto elettrofisiologico, l'eccitabilità di membrana è data dal canale del sodio che regola i potenziali d'azione, mentre i canali del cloro sono responsabili della stabilizzazione della membrana. Per cui le mutazioni dei canali del sodio determinano un guadagno di funzione e quelle del cloro una perdita di funzione con una diminuzione della conduttanza del cloro.
Il professore ha illustrato alcuni segni clinici importanti in alcune forme di miotonie.
Attualmente è possibile fare una diagnosi di genetica molecolare , di fisiologia elettrocellulare, e dal punto di vista terapeutico sono presenti dei farmaci per correggere la disfunzione a livello del canale. Le canalopatie muscolari possono essere considerate un paradigma per le altre canalopatie.
In seguito il prof. Mantegazza (Milano) ha illustrato le metodiche di studio delle mutazioni dei canali ionici. In prima istanza si devono individuare le mutazioni geniche, poi rendere queste in Dna clonato e studiare gli effetti delle mutazioni sulla funzione della proteina corrispondente, codificata, ai fini di uno sviluppo razionale di una terapia appropriata.
Gli studi vengono solitamente effettuati all'interno di grosse famiglie, su cui si fa un'analisi linkage che identifica una regione cromosomica che è associata con la malattia e poi dalla sequenza di geni presenti in questa regione si devono trovare le mutazioni, che poi vengono studiate. Una delle tecniche più utilizzate è l'espressione eterologa in oociti di xenopus (rane). Il gene mutagenizzato viene inserito in questi oociti, poi tradotto, moltiplicato fino ad arrivare alla proteina matura. Poi si effettuano delle registrazioni della corrente con la tecnica del voltage clamp con due elettrodi. Questa tecnica è semplice, economica, efficiente e permette molti esperimenti, ma lo svantaggio è un non perfetto controllo del potenziale. Un' altra tecnica consiste nella transfezione di linee cellulari di mammifero e registrazioni con il patch clamp. In questo caso i vantaggi consistono nella possibilità di registrare modificazioni anche molto piccole delle correnti, uno svantaggio è l'utilizzo di cellule tumorali con proprietà diverse.
La mutazione V1.1 del canale del sodio (subunità beta), prima mutazione epilettogena identificata nei canali del sodio, è stata studiata con la tecnica del voltage clamp negli oociti di xenopus.
I modelli sperimentali migliori, che si avvicinano maggiormente alle reali condizioni fisiopatologiche, sono quelli animali. Il dna genomico viene inserito in cellule staminali embrionali che poi vengono iniettate in cellule di topi sperando che queste cellule entrino nella linea germinale per avere una linea di animali che esprimono il gene mutato. Esistono buoni modelli animali, ma non esiste ancora un modello perfetto. In seguito la prof. ssa Franceschetti (Milano)il prof. Liguori (Bologna) e il prof. Napolitano (Pavia) hanno rispettivamente illustrato le canalopatie epilettogene, muscolari e cardiache presentando alcuni esempi specifici di mutazioni all'interno di queste categorie.
Infine il prof. Avanzini (Milano) ha concluso il simposio sottolineando l'importanza dell' approccio multidiscliplinare (neurologo, neurobiologo, cardiologo), che necessita lo studio delle canalopatie e ha ricordato come il concetto di canalopatia ha avuto la possibilità di affermarsi recentemente, grazie soprattutto agli studi di genetica molecolare, ma in realtà ha radici più lontane risalenti al 1963.

Simposio: Sindromi parkinsoniane e disturbi cognitivi – Domenica 9 ottobre,- 14-16
(M. Ossola) Le sindromi extrapiramidali sono generalmente associate ad alterazioni prevalentemente motorie. In alcuni casi, oltre ai disturbi del movimento, possono essere presenti disturbi della sfera cognitiva e disturbi del comportamento. 
La cinica delle sindromi extrapramidali associate a disturbi cognitivi è stata discussa da A. Padovani (Brescia). E' ormai sempre più riportata negli studi l'osservazione contemporanea tra segni extrapiramidali e deterioramento cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment, MCI), con caratteristiche comuni alla demenza tipo Alzheimer. Ovvero si sta confermando sempre più chiaramente che i disturbi cognitivi sono presenti nei pazienti con parkinsonismi e che segni parkinsoniani sono presenti nei pazienti con disturbi cognitivi (es con Malattia di Alzheimer). In particolare il quadro neuropsicologico di MCI, sinora considerato solamente nell'ambito della Malattia di Alzheimer (AD) come quadro clinico più lieve che può o meno evolvere in AD, sembra essere rappresentato anche nella Malattia di Parkinson (MP)
Sappiamo che la diagnosi differenziale fra i parkinsonismi atipici viene coadiuvata dai risultati dei test neuropsicologici, che spesso indirizzano la diagnosi quando altri dati clinici o strumentali non sono dirimenti. Tuttavia gli studi più recenti confermano che tra i parkinsonismi esistono ampie sovrapposizioni, e ci si accorge che quasi sempre è difficile distinguerli in base ai risultati di singoli test neuropsicologici. Ad esempio si è sempre ritenuto che l'aprassia fosse caratteristica distintiva della Demenza a Corpi di Lewy (LBD), in realtà i dati di alcuni studi mostrano che essa è rappresentata anche fra i pazienti affetti da MP, Paralisi Sopranucleare Progressiva (PSP) e Atrofia Multistemica (MSA).
Qual è il senso di questa eterogeneità? Probabilmente dobbiamo operare un'analisi multifattoriale. Le funzioni cognitive coinvolte sono tre: la memoria, le capacità esecutive e le funzioni frontali. Il rischio che una persona affetta da MP possa sviluppare demenza è condizionato da numerosi fattori quali l'età, il sesso, la terapia, la preesistenza di un basso punteggio al MMSE, la presenza di psicosi ecc� che sembrano, singolarmente, influenzare lo sviluppo di demenza. Il deterioramento cognitivo in sé infatti non è strettamente correlato con la MP, altri fattori devono interagire perché esso si instauri. 
Un'altra osservazione importante è che i disturbi cognitivi nelle sindromi parkinsoniane sembrano rispondere molto più efficacemente ai farmaci colinergici che ai dopaminergici, essendo in questo molto più simile alla AD. Certamente quindi la valutazione dei disturbi cognitivi è fondamentale anche nell'ambito di patologie considerate prevalentemente "motorie".
A. Berardinelli (Roma) ha illustrato le più recenti teorie di funzionamento dei gangli della base e le funzioni della dopamina, che in questo circuito possiede un effetto modulante. Sappiamo dell'implicazione di queste strutture nella sfera motoria, (via diretta, via indiretta), e che l'alterazione dell'equilibrio funzionale dei circuiti corticostrio- talamo-corticali è alla base dei principali disordini del movimento (parkinsonismo, corea, distonia). Ma esistono ormai numerose evidenze del ruolo cognitivo-comportamentale svolto dai nuclei della base. Per funzionare questo circuito deve tener presente una serie di afferenze diverse, anche "emotive". La via diretta, infatti, sarebbe deputata a facilitare l'attività motoria "desiderata", mentre la via indiretta inibirebbe le attività motorie "non volute", determinando così una selezione dei movimenti. 
Il ruolo di questo circuito non è dunque implicato nella generazione del movimento "per se". I gangli della base esplicherebbero un ruolo rilevante nell'apprendimento di nuove capacità motorie e nella programmazione ed esecuzione del movimento volontario, influenzando le caratteristiche del movimento stesso (ampiezza e velocità), mediante un feedback propriocettivo. È ormai accettata l'opinione che a livello dei gangli della base vi siano cinque circuiti paralleli e separati con funzioni diverse (motoria, oculomotoria, prefrontale dorsolaterale, orbito-frontale laterale e limbica). Questi circuiti costituiscono tre diverse divisioni funzionali dei GB (sensorimotorio, associativo e limbico) con funzioni rispettivamente distinte (motoria, cognitiva, motivazione). I gangli della base sembrano dunque essere un crocevia di informazioni svolgendo un ruolo tanto nella sfera motoria quanto in quella cognitiva. Controllo sensori-motorio (putamen), funzioni cognitive (caudato dorsale), funzioni comportamentali/motivazionali (striato libico connesso a corteccia del cingolo, temporale e orbito frontale, ippocampo e amigdala), sono integrati in questo circuito, la cui alterazione funzionale influenzerebbe tutte queste attività, portando ad un disturbo della sfera comportamentale inteso come disturbo del comportamento "in funzione" del movimento. Sarebbe interessante individuare una metodologia che ci aiuti ad identificare questi disturbi del comportamento prima che esordiscano i disturbi motori. 
Come mai, visto il ruolo fondamentale dei nuclei della base tanto nella sfera motoria quanto in quella cognitiva, la dopamina che noi somministriamo nella malattia di Parkinson non ha effetto anche sui disturbi cognitivi? Probabilmente come non riusciamo con la dopamina a riportare le condizioni motorie ad una situazione completamente normale, così probabilmente non accade nemmeno nella sfera cognitiva, sulla quale probabilmente l'effetto è ancora meno "visibile". 
G. Pizzolato (Trieste) ha illustrato come lo spettro clinico dei parkinsonismi e delle demenze possa essere affiancato ad uno spettro istopatologico. Clinicamente possiamo osservare uno spettro sindromico che varia dall'estremo in cui prevalgono i sintomi motori extrapiramidali (Malattia di Parkinson, MP), all'altro in cui prevalgono i sintomi cognitivi (Malattia di Alzheimer, AD), passando, con l'intercalarsi di sintomi psicotici (allucinazioni, disturbi del comportamento), attraverso i quadri "misti" della PDD (demenza associata alla Malattia di Parkinson), della DLB (Demenza a Corpi di Lewy), della variante LB della AD. Dal punto di vista istopatologico, possiamo identificare agli estremi dello spettro, da una parte il prototipo delle "sinucleinopatie" (MP), dall'altra il prototipo delle "taupatie" (AD), passando attraverso i quadri "misti" della altre sinucleinopatie (Atrofia Multisistemica – MSA, DLB) e delle altre taupatie (Demenza frontotemporale-FTD, Degenerazione Cortico Basale-CBD, Paralisi Sopranucleare Progressiva-PSP). 
Le taupatie e le sinucleinopatie possono essere descritte, oltre che dal punto di vista clinico ed istopatologico, anche mediante le neuroimmagini. Le informazioni che ne derivano confermano l'ampia sovrapposizione dei quadri patologici anche sotto questo aspetto. Ad esempio, fra le taupatie, AD e FTD possono essere distinte in base alla localizzazione della riduzione di captazione del tracciante (prevalentemente temporale in AD, soprattutto frontale nella FTD), mentre le alterazioni a carico dei recettori D2 pre-striatali sono presenti in entrambi. Alterazioni metaboliche frontali alla PET sono osservate sia nella PSP che nella MSA. Nella MP, le alterazioni visibili alla SPECT sono a livello pre-sinaptico; esse coinvolgono inizialmente in modo più marcato il putamen omolaterale (elemento distintivo), poi in fasi più avanzate coinvolgono anche il caudato omolaterale ed infine le alterazioni divengono bilaterali. Così potremmo distinguere, sulla base della presenza di alterazioni pre-sinaptiche (SPECT per il DAT) la DLB dalla MP, almeno nelle fasi iniziali. Nella DBL è di comune riscontro il relativo ipometablismo ed ipoperfusione a livello della corteccia visiva primaria, tipicamente conservati invece nella AD, pur essendo entrambe taupatie. Sono state poi date indicazioni relative ai traccianti più adeguati per la diagnostica differenziale (dd): traccianti di perfusione (es. PAU) per la dd tra sindromi cognitive e motorie; tracciante per i recettori dopaminergici post-sinaptici (es. IBZM) per la dd tra i parkinsonismi e traccianti pre-sinaptici (es. FP-CIT) per la dd tra MP e DLB. Nel successivo intervento, E. Martignoni (Novara) ha posto l'attenzione ai più recenti risultati di studi clinici sull'utilizzo di anticolinesterasici nella demenza associata alle sindromi extrapiramidali, in particolare la MP. La demenza è presente nel 20-30% dei pazienti con MP, con caratteristiche cliniche e patologiche simili alla DLB, presentandosi con alterazioni disesecutive e disturbo dell'attenzione. In diversi studi è emerso che i soggetti affetti da MP con demenza hanno peggior risposta alla terapia dopaminergica, maggiori effetti collaterali della terapia stessa, progressione più rapida e minore sopravvivenza. 
Il deficit colinergico, caratteristico della AD, è presente anche in PD e DLB, ed è correlato con il deficit cognitivo che si instaura in queste patologie. Questa comunanza di alterazioni fisiopatologiche comporta anche una risposta a farmaci della stessa categoria? Quali farmaci abbiamo a disposizione per trattare i disturbi cognitivi associati alle sindromi extrapiramidali? I farmaci dopaminegici non risultano migliorare il deficit cognitivo; i neurolettici classici peggiorano la sintomatologia motoria, danno confusione e sedazione; i neurolettici atipici non peggiorano la sintomatologia motoria ma non sono sempre facili da utilizzare e possono comunque dare sedazione e confusone. Gli inibitori delle colinesterasi agiscono su entrambe le molecole acetilcolinesterasi e butirrilcolinesterasi. Studi sull'utilizzo di rivastigmina vs placebo nel trattamento di pazienti con MP e decadimento cognitivo hanno evidenziato un miglioramento molto modesto delle prestazioni cognitive, senza comunque peggiorare i sintomi motori. Somministrato il farmaco a soggetti che durante lo studio avevano assunto placebo, comunque, vi è stato un riscontro di miglioramento, confermando dunque che si tratta di un effetto sintomatico, seppur lieve. Gli studi con rivastigmina hanno evidenziato un miglioramento delle prestazioni cognitive e neuropsichiatriche, miglioramento tuttavia sempre di entità moderata. 
Resta comunque confermato che gli inibitori delle colinesterasi dovrebbero far parte dell'armamentario farmacologico nel trattamento dei disturbi cognitivi associati alla MP. Una nuova molecola sviluppata recentemente (Ladostagil), associazione di inibitore della colinesterasi (rivastigmina) e inibitore delle MAO-B (rasagilina) ha mostrato in un primo studio risultati incoraggianti. 
In recenti studi su AD e PD, il meccanismo d'azione di rivastigmina ed altri inibitori delle colinesterasi è stato associato ad attività antinfiammatoria. E' possibile che proprio tramite questo meccanismo essi agiscano sui sintomi cognitivi? L'acetilcolina è un neurotrasmettitore ubiquitario, i suoi meccanismi d'azione sono complessi e non possiamo escludere che sia implicata in processi infiammatori che possono essere modulati dai farmaci anticolinesterasici.

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