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Sulla liminalità dei servizi

29 Feb 16

A cura di Leonardo Dino Angelini

Diego Napolitani in un suo vecchio articolo dell’86 definiva il nuovo operatore psichiatrico come ‘operatore di frontiera’[1], che in questo luogo liminale non opera più come un doganiere pavido che impedisce alle alterità più inquietanti di abitare i luoghi della normalità, confinandole nei luoghi della esclusione; ma come un coraggioso esploratore che va incontro alle alterità per comprenderle e dialogare con esse sul piano dell’autenticità.
In questo modo il limen – per riprendere il discorso di Napolitani – diventa quel luogo che allo stesso tempo separa e unisce il domi dal foris (la domesticità dall’alterità). E la prevalenza dentro di noi operatori di frontiera della tendenza alla separazione, alla stigmatizzazione, alla ghettizzazione dell’altro, oppure della tendenza alla comprensione, alla contaminazione e all’incontro, dipende dal tipo di ‘discorso’ sull’alterità che ci abita.
Il passaggio che storicamente è avvenuto in Italia dall’uno all’altro discorso sull’alterità è stato contraddistinto dall’emergere nei primi anni ’70 di una nuova comunità interpretante[2] che a poco a poco ha preso il posto di quella vecchia e segregante.
Oggi, dopo vari decenni da quella svolta, tutto appare scontato e non si fa più caso né alle incoerenze sempre più ampie fra richiami teorici e pratica quotidiana; né tantomeno agli aspetti di cornice che avevano permesso la rapida affermazione di quello che in altra sede ho definito come il  ‘discorso delle nuove professioni[3] del welfare.
Ed è su questo secondo elemento che, viste le sempre più frequenti modalità di rapporto di subalternità clientelare fra operatori delle ormai imperanti aziende private no profit e amministratori, mi preme di fare una puntualizzazione.

All’inizio degli anni ’70, dopo la spinta iniziale dal basso contro i luoghi della esclusione che caratterizzò il ’68 italiano, si sviluppò un movimento a macchia di leopardo che vide l’emergere qua e là di nuovi servizi (psichiatrici, psicologici, educativi, etc.) affidati ai nuovi operatori di frontiera; mentre in altri luoghi i movimenti di rinnovamento vennero in un secondo momento, allorché l’esemplarità di quei primi luoghi di sperimentazione si dimostrò vincente e perciò esportabile.
Ora se concentriamo la nostra osservazione su ciò che permetteva le sperimentazioni ritroveremo sempre la presenza in ogni luogo di una alleanza fra questi nuovi operatori e gli amministratori che si prestarono – diciamo così- a istituzionalizzare i movimenti: a trasformarli in servizi del nascente welfare italiano.
In un lavoro sull’amministrazione Adorno[4] parlando degli operatori distingueva fra ‘tecnici’ con funzioni meramente esecutive ed ‘esperti che si pongono il problema della cosa”, che cioè non rinunciano a mantenere un atteggiamento autonomo e critico nei confronti dei problemi legati al proprio mandato.
“Chi si serve dei mezzi amministrativi e delle istituzioni con irremovibile coscienza criti­ca può ancor sempre realizzare qualcosa di ciò che sarebbe diverso dalla pura cultura am­ministrata”, affermava Adorno. E aggiungeva che per andare al di là della cultura amministrata, e cioè per disporsi sul piano della sperimentalità, occorre che gli esperti impattino con degli ‘amministratori accorti’, che valorizzino il loro operare e rispettino la loro autonomia.
Ciò era già vero all’inizio degli anni ’70, quando la ventata sessantottina andava scemando. E questo spiega quell’andamento a macchia di leopardo cui accennavamo prima: non sempre infatti quegli operatori esperti che si ponevano il problema della cosa riuscirono ad incrociare amministratori accorti. Molto, ma non tutto, dipendeva dal fatto che in un territorio il welfare dei servizi prevalesse su questo dei sussidi. Molto dalle caratteristiche personali degli amministratori da una parte[5], e dalla propensione alla sperimentalità, e alla non all’ideologizzazione da parte del gruppo degli operatori, dall’altra.
Certo è questa felice coniugazione che permise la sopravvivenza dei servizi anche quando sparirono i movimenti di base e di massa che li avevano voluti. L’ultimo nato – almeno qui in Emilia – fu il consultorio che, essendo nato quando il movimento femminile e femminista di base era già in declino, fu fin dall’inizio contrassegnato da una scarsa propensione alla sperimentalità, e da una occhiuta presenza da parte di amministratori sicuramente meno accorti e più impiccioni sul piano tecnico, che come primo atto ‘fecero fuori’ dai comitati di gestione dei consultori quel che rimaneva del femminismo emiliano.
 
Qual è la situazione odierna? e quali rapporti ci sono fra il presente ed il passato? È chiaro che il problema richiede un’analisi più articolata che in questa sede non è possibile fare. Per ora si può dire, ripercorrendo il percorso fatto prima, che sono cambiati tutti e tre gli elementi di fondo che lo avevano contraddistinto: il dato contestuale, l’identità degli operatori e quella degli amministratori.
Il contesto attuale è caratterizzato dalla scomparsa di qualsiasi movimento di massa capace di fare un’analisi autonoma dei bisogni attuali di cura. Ciò fa si che emergano sempre più, in loro vece, i bisogni di dominio e di arricchimento di strati e di classi sociali che ripropongono sul piano del welfare ciò che ormai stanno facendo in ogni dove: una sempre più vasta spoliazione dei beni e dei diritti per l’arricchimento dei pochi.
Si chiama neoliberismo. Che nel nostro caso s’incrocia da una parte con l’emergere di una classe politica che produce amministratori attenti solo al proprio interesse, a quello dei gruppi di potere che li mantengono in vita e da ultimo a quelli dei propri clientes, che le leggi istitutrici di lavoro precario vanno facendo nascere nei servizi.
Dall’altra con un nuovo strato di operatori che, spinti da questa precarietà e dal volere insindacabile degli amministratori che ormai possono assegnare a chi vogliono interi servizi senza alcun concorso, sono costretti sempre più ad affievolire il proprio spirito critico, a diluirlo, se non a trasformarlo in adulazione e in operazioni ‘al seguito’, spesso costose e sempre inutili.
Ciò determina la nascita di un’alleanza di tipo nuovo fra amministratori accorti solo al proprio particulare e tecnici che non si pongono, o non possono più porsi 'il problema della cosa'. Anche perché la posizione più solare e affatto liminale dalla quale osservano la realtà impedisce loro di leggerla, o perlomeno di leggerla ad alta voce. Poiché se dal loro seno emergesse anche solo un qualche rado cenno di coscienza critica rischierebbero l’appalto, se non il posto.

 

 



[1] Napolitani D., “La struttura intermedia nel panorama psichiatrico”, in: “Psicoterapia e scienze umane”, N.4, 1986, pag. 74/86.
[2] Per il concetto di ‘comunità interpretante cfr.: S. Fish, C’è un testo in questa classe?, Einaudi, Torino 1987.
[3] Cfr: L. Angelini, Storia delle istituzioni, in: Giovani uguali e diversi, Psiconline, Francavilla a Mare, 2010, pp. 225\238
[4] Adorno Th. W., Cultura ed amministrazione, in: Adorno Th. W., Scritti sociologici, Einaudi, Torino, 1976
[5] Decisiva per noi del CIM di Reggio Emilia fu la figura di Velia Vallini, e la sua alleanza discreta con Jervis e con tutti noi.

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