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Dagli archivi de GLI ARGONAUTI: “Quid est veritas?”

26 Apr 16

Di Carlo-Zucca

NDR Articolo pubblicato nel numero 148 (Marzo 2016) de GLI ARGONAUTI – Carocci Editore

La banalità dell’economia liberista
 
Il mercato è globale, si sa; il mondo è ormai un mercato comune, ma non nel senso per cui comune richiama comunità. E’ un non- luogo, virtuale ma concreto, comune perché primitivo e selvaggio, con mesto odore di sangue poiché tutti i lupi sono usciti dalle tane a glorificare il classico homo homini lupus del cosiddetto liberismo. Il cinismo, in questa cultura, è considerato coraggio e intelligenza. Se in un paese gli operai non hanno costruito proprie organizzazioni forti, molte aziende straniere vi si insediano con armi e bagagli finché è conveniente produrre con salari molto bassi. Convenienza, utilità, profitto, cose da lupi, insomma, sono le parole d’ordine pubblicizzate dovunque e sotto qualsiasi forma. Il conseguente populismo, cioè il modo di ottenere più potere mascherandolo come protezione dei ‘bisogni della gente’, fa perno sulle paure spesso proiettive delle persone che non hanno potuto sviluppare possibilità di pensiero autonomo e di ragionare con la propria testa e con un certo spirito di solidarietà. Soprattutto, in questo clima di pensiero reattivo, la responsabilità personale di pensare, di scegliere e di vedere realisticamente  le cose, per sé, per la propria vita personale, famigliare e sociale, si riduce notevolmente. Come in tutte le organizzazioni di potere repressivo, per il tornaconto di alcuni, la propaganda anti pensiero libero è un elemento fondamentale della loro sussistenza.
In questo clima, le regole e le norme non sono fondate su criteri ideali, né relazionali ed affettivi, né solidali, ma sulla predazione. La stessa trasformazione dell’essere umano in homo oeconomicus, o homo consumens, lo rende evidente. Queste sono specifiche funzioni, che, come ci hanno insegnato l’umanesimo e il vero pensiero bilaterale, non sanno distinguere quelle parziali dall’intero e gli esseri umani l’uno dall’altro, per specifici interessi di consumo basati esclusivamente sul profitto. La bramosia globalizzante ha, infatti, messo in secondo piano i valori fondamentali di eguaglianza e solidarietà degli esseri umani liberi che varie epoche culturali avevano saputo conquistare.
Se questo è il nuovo mondo ‘culturale’, come possiamo pensare che non abbia un’influenza sulle persone, sulla identità in tutti i suoi vari aspetti, consci ed inconsci? Sarebbe come se pensassimo che gli esseri umani che vivono in un’aria mefitica non soffrano conseguenze sulla salute organica, ma anche psichica, nelle sue varie forme e sfumature.
In più, il liberismo trionfante ha inventato uno spostamento fondamentale dal proprietario alle società e dall’economia reale a quella finanziaria. Il principio guida di questo cambiamento è quello che sintetizza il detto latino ‘pecunia non olet’. Difatti, oggi, non è possibile trovare nel potere finanziario un proprietario riconoscibile contro i cui soprusi eventuali si possa protestare. E’ anche in questo senso che va compresa la ‘società liquida’, come ci ha insegnato a vederla Bauman. In un recente studio è emerso che ottanta società anonime governano finanziariamente il mondo occidentale e questa forma di potere si sta allargando anche a quello orientale. Non più, quindi, cumuli di tesori concreti, non più piscine piene di monete d’oro sullo stile di Paperone, ma enormi ricchezze virtuali che, come ‘puro spirito’, volano qua e là. Questo é il potere finanziario.
Sulle conseguenze di tale ambito globale, Kaës, grande psicoanalista francese che ha saputo analizzare i rapporti tra la realtà sociale ed economica e la psiche, si domanda: “Con che  cosa e con chi si identificano i bambini e gli adolescenti delle società economiche iperliberali? E quelli delle società cosiddette emergenti? E quelli delle società che regrediscono?”. Sono domande essenziali, perché un essere umano, bambino o adolescente, per crescere emotivamente ha bisogno di riferimenti dai genitori, dalla famiglia, dalla comunità di appartenenza, dalla società tutta intera. E se ci fosse anche un nuovo patto inconscio tra le generazioni, per cui i genitori, oltre ad essere realisticamente implicati nel sostegno di quei figli che non hanno un lavoro o ne hanno uno precario, non accettano narcisisticamente di invecchiare tranquillamente? Una loro funzione ‘genitoriale’ inevitabilmente così proseguirebbe e con essa anche un loro potere. E i bambini, figli e nipoti, che crescono in questo scenario, vedendo che i loro genitori sono ancora per certi versi essi stessi dipendenti e ancora attaccati alla famiglia d’origine, quali posizioni psichiche ne traggono? Non bisogna trascurare che, come genitori di figli adulti che hanno ancora bisogno di protezione, essi stessi rimangono, quando ne hanno la possibilità, dei buoni consumatori. In questa rete di generazioni, i bambini allevati come Sua Maestà Il Bambino, sono al centro dell’attenzione per un futuro da eroi di questa società, e vengono accompagnati alle lezioni di nuoto, di lotta giapponese, di sci, di inglese, di disegno e tanto altro, il tutto per pensare che lo sviluppo dell’identità sia quello corrispondente al ‘successo sociale’. Poca attenzione e poco tempo hanno i piccoli per scoprire se stessi attraverso il confronto diretto con i coetanei, via regia  per la crescita come persone.  Allevati per primeggiare, per credersi superiori, quei bambini e quegli adolescenti sono poco educati alla responsabilità emotiva di avere autonomia e capacità relazionali, con sentimenti ed affetti e consapevolezza dei loro lati negativi.
Per le famiglie meno abbienti, lo scopo educativo profondo non si discosta troppo: invidia e risentimento mirano al riscatto sociale,  cioè a far raggiungere ai figli una medesima posizione sociale di potere.
Nei nuclei familiari attuali, la parità tra l’uomo e la donna non di rado concretamente si esplica con il fatto che entrambi vogliono lavorare, formando, però, una disparità nella divisione del potere. Spesso è la donna che finisce con l’assumersi grandissime e faticose responsabilità nell’allevare i figli, nell’occuparsi della casa e nell’andare al lavoro. Anche per questi motivi, Sua Maestà Il Bambino deve fare una vita diversa nel presente, con tutte le cure che riceve e nel futuro, con il successo che ‘dovrà’ avere nel mondo. Appaiono, tuttavia, qua e là, non poche innovazioni che fanno pensare ad una vera parità di diritti e di doveri tra l’uomo e la donna, con una ‘nuova’ responsabilità affettiva in cui, nello scambio, essi sanno riconoscersi come persone di valore. Forse da questi cambiamenti nascerà un modo nuovo di considerare anche il senso del lavoro. A questo riguardo è notevole che i nuovi modelli per valutare il Prodotto Interno Lordo comprendono la qualità della vita personale oltre ai dati economici. Tuttavia, se i capitali debbono andare rigorosamente ed assolutamente là dove c’è la possibilità di un profitto, è chiaro che nessuno si occupi seriamente del clima ecologico, antropologico, sociale ed emotivo in cui si lavora e si vive.
 
La crisi del preconscio ed il suo scenario
 
Nell’ambito culturale e sociale attuale, la conseguenza psichicamente più grave di quanto abbiamo delineato è l’impoverimento del preconscio, la sua grande crisi. Questo fondamentale spazio psichico va in difficoltà, a mio modo di vedere, quando il mondo culturale è ad una dimensione e ci sono poche differenze e sfumature. In questo contesto le abitudini e i comportamenti sono condizionati dal poco tempo e poco spazio e la vita di tutti i giorni costringe ad aver paura e a cercare di sopravvivere per vivere, l’atteggiamento quotidiano si deve far furbo, strumentale e le relazioni, di conseguenza, sono governate dall’interesse per l’utile. La povertà del preconscio genera regressione, debolezza del Sé e mancanza di pensiero personale e critico e ciò crea il pericolo di doversi sottomettere, in un modo o in un altro, alla propaganda di chi detiene il potere finanziario, commerciale, politico.
Se il linguaggio dall’area materna in poi, e dico linguaggio in senso lato e vasto (parole, immagini, modi di dire, cresciuti nell’affettività e nella cura dell’infante) non serve o serve poco per una vera comunicazione tra le persone e le generazioni, allora si è costretti ad usare modalità di espressione per la sopravvivenza ma non per altro.
E’ come essere ‘psicotici’ senza esserlo e questo non può non implicare ritiri schizoparanoidei e continue tensioni aggressive. Soprattutto, però, forma gruppi a disposizione di qualsiasi ‘pastore-predatore’. Questo linguaggio seduttivamente ‘invita’ tutti al pensiero operatorio, tecnico e non relazionale, che prepara la servitù volontaria e il conformismo.
Ci sono altri motivi profondi e diversi per la crisi del preconscio. Tra questi, i vecchi ideali che crollano e non funzionano più come idee-limite che attraggono, organizzano e contengono il mondo interno ed i cambiamenti. Per lo smarrimento che ne consegue si cerca di riaggrapparsi a vecchie ideologie e valori, pur di non sentirsi nel vuoto e nella confusione: la dipendenza pur di stare tranquilli. E se nel mondo degli affetti e delle emozioni  si creano recinti e muri, discipline scientifiche fondamentali come la biologia, la medicina, la fisica e l’informatica continuano a cercare il ‘plus ultra’. Esse trovano nuove vie, nuovi prodotti e non si fermano mai e in questo si esprime una vitalità prorompente che ci affascina, ci attira e persino ci esalta: è il trionfo del pensiero operatorio.  Anche i costumi sociali sono in continuo cambiamento a partire dalle considerazioni sull’uomo (sul padre), sulla donna (sulla madre), sulle identità sessuali (eterosessualità /omosessualità), sulla posizione del bambino (figlio/a), sugli anziani (nonni). Molti cambiamenti di per sé creano preoccupazioni, ansie e non di rado angosce, anche se lasciano intravvedere possibilità di scenari inauditi di libertà nelle relazioni. Ciascuno è spinto verso la ricerca di soluzioni personali, anche questo in una prospettiva di responsabilità individuale che affascina, ma, al tempo stesso, nella continua angoscia di sentirsi soli. Sicuramente un certo preconscio, in questa vitalissima occasione di cambiamento e di sviluppo, non priva di confusione, si arricchisce. Non si tratta, però, di quel preconscio che suggerisce ed esprime autonomia e relazione emotiva di scambio, bensì di quello che offre l’armamentario tecnico del pensiero pragmatico, che fa funzionare le persone verso l’adattamento. Saper trovare la via per distinguere ciò che è valido da ciò che non lo è, ciò che è maturo da ciò che è immaturo, diventa sempre più difficile. I mutamenti, le novità ci rapiscono e noi apprendiamo parole e concetti che riguardano quelle tecnologie che ci occupano tutti i giorni facendoci anche godere di straordinari strumenti. Forse anche per questo, non riusciamo a trovare il tempo ed i modi per apprendere parole, idee, immagini e modelli che possano rifornire il preconscio più vitale delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri, dello scambio vivo e vero tra le persone. Perdiamo così anche lo sviluppo della morale quotidiana e dell’etica. Bisognerebbe non essere così presi dalle tante innovazioni, tanto affascinanti da sbalordirci. Ma come si fa? Le possibilità di conoscenza tra le persone sono tantissime, ma quelle di costruire veri rapporti non ci trovano né pronti né disponibili, perché c’è sempre qualcos’altro da fare di più urgente. Il fare predomina sul sentire e sul pensare, l’agire sull’elaborare.
Ribadisco, quindi, che la crisi del preconscio si basa sulla riduzione del  simbolico ad operatorio per la velocità e l’intensità dei cambiamenti e per le necessità della vita quotidiana che ci obbliga a fare, più che a pensare. Il pensiero diventa così la teoria della tecnica.
Quando ascoltiamo i giovani pazienti, che finalmente trovano qualcuno di cui fidarsi, proprio perché li ascolta senza aver già in mente che cosa debbano essere o diventare, essi mostrano chiaramente la crisi del nostro tempo e del preconscio. Dichiarano difatti una sottile e continua ansia per i risultati da conseguire a livello sociale, rivelando un’intima preoccupazione sul senso di sé, sul timore di non farcela in qualsiasi performance, scolastica, sportiva o culturale. Nel novero delle prestazioni rientrano anche la possibilità di sviluppare amicizie,  di costruire storie d’amore e, soprattutto, di sperimentare creativamente la sessualità La grande paura è quella di non avere successo in tutte queste manifestazioni di sé. Essi temono di non saper conquistare quella ragazza o quel ragazzo che gli interessano, dubitano di riuscire a costruire rapporti stabili, hanno paura di non ‘essere capaci’ nella sessualità, sono angosciati dall’eventuale frustrazione o delusione. La classica posizione dello sviluppo libidico-emotivo delineata da Freud come fallico-genitale regredisce a fallico-narcisistica, facendo involvere l’adolescente ed il giovane adulto rispetto alla relazione con l’oggetto. L’esperienza viene allora affrontata esclusivamente come prova identitaria per vedere se si è vincenti oppure perdenti. In tal modo non c’è uno spazio per il Sé e per l’apparato psichico preconscio adeguato ad elaborare un evento reale eccessivo, a far crescere emotivamente, a consolarsi di una frustrazione o di una perdita  e a ‘misurare’ un successo. Naturalmente, oggigiorno essi temono anche di non riuscire a diventare competitivi in un’attività professionale o in un mestiere  e addirittura di non poter trovare lavoro.
L’ansia principale, oltre ad avere motivazioni realistiche, è, anche in questo caso, causata dall’aspettativa fallico-narcisistica dell’Io ideale, per cui si ha il terrore di non essere adeguati a quelle posizioni che danno prestigio sociale. Il sentimento che blocca questi giovani, costringendoli a rimanere passivi e ritirati, è quello della vergogna. Le aspettative sociali, quelle familiari, quelle personali tendono tutte a curare l’immagine, a temere la brutta figura, ad avere il terrore della valutazione e del giudizio degli altri: un Super Io sociale e personale arcaico e molto rigido, ad una sola dimensione, feroce nella sua implacabilità. Questa iper considerazione della prestazione soffoca e blocca la libera espressione del Sé.
Ciò che questi giovani dicono, al nostro ascolto rivela uno stato di disperazione e occorre ricordare che la mancanza di speranza è tipica degli stati-limite. Eppure, a questo profondo malessere, che impegna gli psicoterapeuti nei centri specializzati per adolescenti e giovani adulti, si contrappone un’energia nuova che sembra voler trasformare lo stato dominante della cultura attuale. Questi movimenti sembrano non voler rinunciare alla creatività dell’illusione, alla speranza, cercando di trasformare la disperazione. Alcuni giovani si affidano ad idoli (cantanti, sportivi, divi di vario tipo, protagonisti di imprese al limite), altri a nuovi sistemi ideologici (sette, religioni) che, anche se in questa forma, mantengono tuttavia una certa ricerca di cambiamento, una speranza. Non pochi, tuttavia, più realistici e coraggiosi, reagendo allo scoraggiamento depressivo di coloro che pensano di non trovare possibilità dignitose di vita con il lavoro, cercano di trasformare l’onnipotenza delle illusioni infantili con la creazione di uno spazio psichico transizionale, in cui l’ideale è in rapporto con la possibilità di realizzazione. Questi giovani si impegnano in attività culturali, sociali e politiche di rinnovamento del rapporto tra l’individuo e la realtà e dei soggetti tra loro. Sono gli stessi giovani che intraprendono nuove vie anche sul lavoro, inventando non di rado start-up di successo.  Provengono da quella cultura fatta da insegnanti e adulti autorevoli, persone che sono soprattutto maestri di vita e si possono trovare in casa, in famiglia, nella scuola e in quei luoghi d’incontro per ragazzi curiosi di apprendere. Sono infatti  ‘veri insegnanti’ coloro che hanno autorevolezza per esperienze particolari, che sanno fare bene un lavoro e che possono quindi trasmettere, oltre alle abilità e competenze, anche modalità e linguaggi adeguati per la vita istintuale e affettiva della tensione relazionale.
L’apparato psichico di mediazione tra stimoli ed impulsi, il Preconscio ed il Sé, si struttura sufficientemente bene quando l’apprendimento è avvenuto per fiducia, quando il genitore, il maestro e l’adulto parlano ai più giovani in modo autentico, per testimonianza. Sono testimoni portatori di valori che, comunque, con le loro modalità più ancora che con i contenuti, sanno trasmettere stili di vita autentici. Invece, una società divisa tra gruppi, persone, istituzioni, in conflitto tra loro, non comunica ai più giovani il preconscio creativo, quello trasmesso da chi ha vissuto, sofferto e pensato le proprie esperienze. Nella società retta dal potere e dal profitto, infatti, la comunicazione tra le generazioni è soprattutto virtuale o tecnica e l’alimentazione del preconscio è fatta più da linguaggi narcisistici che da quelli della relazione tra persone.
 
Il riconoscimento
 
La vita nell’attuale società è diventata difficile perché tutti devono fare molta attenzione a difendersi, sia rispetto al mondo interno che a quello esterno. Il naturale bisogno di riconoscimento dell’essere umano richiede ogni giorno molta energia e la preoccupazione di essere non riconosciuto e quindi ‘escluso’ è sempre presente. La lotta per il bisogno di quel riconoscimento va ben al di là della dialettica servo-padrone di Hegel. L’uomo, fin dall’inizio, cresce con la necessità di ‘rispondere’ alle parole, ai messaggi delle carezze  e delle cure prima ancora di poter parlare. L’infans apprende il primo senso di sé, i primi significati personali,  rispondendo alla madre e all’ambiente  con il linguaggio corporeo, con l’imitazione e le prime sillabe. La madre, con la rêverie, con il saper prevedere ed anticipare, dà risposte alle domande silenziose del suo bambino e, questi rispondendole, apprende il senso, il significato, la parola. Non si tratta di domande e risposte chiare ed evidenti, secondo il punto di vista adulto, ma di domande e risposte intrecciate tra loro, in cui le domande non vengono prima delle risposte, ma, anzi, quelle si capiscono a partire da queste. Così sorge il soggetto umano, così inizia la sua ’psicologia’. Un fatto, quindi, intersoggettivo, intrinseco nel rapporto madre-ambiente-bambino. Questa esperienza primaria fonda il bisogno di riconoscimento di ciascuno di noi da parte dell’altro. E tanto più è intenso questo inizio, tanto più ricco sarà il preconscio.
L’identità è, quindi, intrinseca alla relazione. Ogni essere umano, a partire da questo inizio, fa in modo che il suo desiderio, per quanto possibile, venga accolto ed accettato dagli altri, perché ha bisogno di essere considerato. Con la crescita emotiva, esso diminuisce ma non verrà mai meno. Il Sé non può vivere senza questa speranza di considerazione e il preconscio creativo è tale perché tiene viva l’illusione che c’è un futuro, uno spazio in cui continuare ad investire sentimenti come la speranza e la fiducia in un oggetto trasformativo (Bollas). L’ambiente sociale e culturale attuale non è tanto favorevole ad alimentare questa tensione evolutiva fatta di speranza e di fiducia, soprattutto perché il re, oggi, ha a disposizione strumenti formidabili per non apparire nudo. Può riuscire persino ad esercitare il suo potere senza nemmeno apparire. Non ne ha bisogno. La sua propaganda è eccezionale nel preparare spettacoli circensi, che vanno in tutte le case all’ora di cena, ben graditi perché promettono tranquillità. E quando quel re vuol far sul ‘serio’, viene promosso il pensiero utilitaristico, con il suo feticismo autarchico da ‘istruzioni per l’uso’, che  riconosce l’individuo della tecnica e del mercato ma non la persona. Il linguaggio operatorio è soprattutto pragmatico e funzionale e persino nelle relazioni personali ‘serve’ per il narcisismo, per la propria esibizione e per la denigrazione dell’altro. Questi deve sottomettersi (essere dei ‘nostri’ come nelle cupole mafiose) o diviene un nemico da continuare a screditare e da abbattere. Il dialogo diventa così competizione e non scambio. E’ una violenza ‘psicotica’ quella che la cultura attuale tende a proporre con i suoi riti. Si diventa così sempre più singolari e sempre meno plurali, dimenticando che il massimo della solitudine è la schizofrenia e che l’individualismo narcisistico obbliga a sempre nuove ‘imprese’ e a nuovi eccessi per nascondere il vuoto della disperazione. In queste condizioni, non si dispone più delle mediazioni culturali e di rappresentazioni sulle quali appoggiarsi, con idee e parole che abbiano etimologie profonde e che trasportino in sé affetti tradizionali. In realtà le parole più vere non sono tecniche e le frasi della comunicazione non sono slogan. Esse esistono per comunicare tra le persone con semplicità e autenticità. In definitiva, le parole ‘vere’ sono testimonianze, in senso lato, di legame, di relazione e d’amore.
 
La banalità del malessere quotidiano
 
Debbo posteggiare la macchina. E’ sera. Non ci sono posti e giro molto per cercarne. Anche gli angoli più ‘segreti’ sono occupati. Il mio sguardo cade su due auto medie: ci sarebbe posto per tre, ma le due macchine malmesse lo hanno occupato tutto. Mi capita spesso di vedere questo fatto, come credo capiti a molte persone. Vado via per posteggiare altrove, e stavolta c’è posto. Accosto il marciapiede, ma tocco con la gomma. Potrebbe andare bene anche così. La mia macchina é sistemata, ma occupa più dello spazio necessario. Nella mia mente, memore del menefreghismo dei più, sorge l’idea, quasi vendicativa, di fare la stessa cosa, subito scacciata da altre voci e da altri dialoghi, in cui c’è memoria di vecchi apprendimenti affettivi. Preconsciamente sento mio padre che dice di stare attento alle regole e alle norme: “Se tutti facessero così, senza fare attenzione agli altri, dove si andrebbe a finire?”. E ancora risento un po’ il brivido del ‘baratro’ (dove si andrebbe a finire) e del discredito conseguente. E così avrei potuto sentire mio nonno, i miei insegnanti e tanti altri in diverse circostanze. Il mio preconscio sembra poter funzionare offrendomi modelli di diritti e doveri per la convivenza civile.
Adesso questo tipo di educazione viene identificata come repressiva, quasi dannosa. Il farne a meno illude di crescere ‘libero’ Sua Maestà il Bambino. L’arroganza contro le regole e i limiti è la più grande mancanza di libertà perché, quando domina la volontà di potenza, i sentimenti e gli affetti della relazione tra persone non possono sorgere ed esprimersi.
Mi viene quindi il desiderio di seguire l’attenzione per le necessità altrui come un valore e mi sento bene quando scendo dalla mia macchina dopo aver lasciato spazio ad altre vetture. Un piccolo esercizio di relazionalità che si può ripetere in tanti modi, tutti i giorni. E così combatto la tristezza delle seconde e terze file di SUV ad attendere il figlioletto ‘stravolto dalla perfida scuola’. Trenta metri più in là ci sarebbe lo spazio per posteggiare correttamente senza ingombrare, evitando il caos dei clacson e le urla di chi protesta.
Poco dopo, sto chiacchierando con un mio amico, proprietario di una pescheria, che mi sta dicendo di quanto siano fresche le sogliole, quando irrompe una donna sui quaranta col cipiglio determinato, decisionista. Senza rendersi conto della situazione, evidentemente solo pensando al suo bisogno e non vedendo altro, fa delle domande su un pesce, poi su un altro e, infine, ordina di prepararle il “solito crudo” e se ne va. Dopo pochi secondi, però, rientra, mentre io ed il negoziante stavamo scherzando sul suo modo di comportarsi. Ordina un’altra cosa, per cui alza la voce più forte di prima e se ne va dicendo che sarebbe passata a prendere il tutto qualche ora più tardi. I commenti tra me e il mio amico si fanno, quindi, un po’ più salaci e ci scappa anche qualche osservazione inevitabile sui tempi che corrono e con un suo“E vai…!” con ironia e umorismo ci salviamo.
Terzo esempio. Entro in un negozio per informarmi su un regalo che voglio fare ad una persona a me cara.
C’è un merletto trinato in bella vista in vetrina, con sopra scritto qualcosa. Sembra un negozio come ce ne sono diversi a Milano, un po’ artigianale e personale. Entro sorridendo, disponibile e di buon umore verso la proprietaria. La risposta è formale e freddina. Quando le domando se c’è una sciarpa di un certo colore, la giovane donna sembra come un po’ astratta. Io penso: forse è uno di quei tipi che a me piacciono, un po’ stravagante e come assorta in qualcosa che naturalmente immagino debba riferirsi a qualche fantasia su un nuovo prodotto. Risponde, invece, meccanica. Quel tipo di colore proprio non c’è perché non si usa più. Provo a chiedere qualcosa d’altro, proponendo qualcosa di mio gusto. Risposta rigida. Forse ha dei guai con il suo negozio, penso. Sono tempi difficili. Poi arriva un giovane nord africano che sembra aver svolto una commissione per la negoziante. Viene trattato gelidamente anche lui. Saluto, ringrazio ed esco. Sulla vetrina, vedo ora che sul merletto c’è scritto: “Lo stile è essere se stessi”. Una bella frase retorica di grande successo in questi anni. Essere se stessi, invece, richiede un lavoro evolutivo per arrivare a riconoscere ed esprimere disponibilità emotiva verso l’oggetto, considerandolo come persona nella sua realtà più intera. Io ero un possibile cliente, lei era una possibile venditrice e prima ancora eravamo due persone che potevano trattarsi con simpatico riguardo. E’ un atteggiamento molto diffuso quello di questa signora e si ritrova in tante situazioni di tutti i giorni, dove sembra che si debba essere corazzati per svolgere una continua battaglia di tutti contro tutti. Un mondo paranoideo, dove il modo sintonico con cui si esercitano attività è triste volontà di potenza e di profitto. E’ preoccupante perché dilagante. Per fortuna il preconscio di molti di noi si è formato in altre epoche, resiste ancora e non sono pochi i giovani che ne apprezzano il senso. Non sono poche neppure le proteste verso un certo modo di vivere e diverse iniziative sembrano dare consistenza alle potenzialità che nonostante tutto permangono. E le lucciole di Pasolini sembrano così tornare ad esserci.
 
Credere
 
Julia Kristeva, nota psicoanalista di formazione lacaniana con uno stile originale, persona di grande acume e spessore culturale,  ha riflettuto a lungo e in più occasioni sul concetto di credere. La cosa più interessante è che lo ha fatto da psicoanalista, non da credente, poiché lei stessa si professa laica. “Paradossalmente, necessariamente, è un ebreo ateo, Sigmund Freud, che, sondando gli abissi dell’inconscio, ha fatto del ‘bisogno di credere’ un oggetto di conoscenza”. Così si esprime la Kristeva e noi aggiungiamo che l’autore di ”Mosè e il monoteismo“ lo ha fatto senza criticare il ‘bisogno di credere’, anzi valorizzandolo. A questa premessa, a commento del titolo di questo capitolo, mi viene da associare un episodio della mia vita.
Da ragazzo, non di rado, andavo ad acquistare giornalini e libri in una edicola-libreria di Corso Buenos Aires. Alla domenica, con la mancia settimanale in tasca, seguendo senza averne coscienza, una via che, secondo me, mio padre, senza dirmelo, autorevolmente mi indicava: “Compra soprattutto dei libri”. Quelli che potevo acquistare erano molto economici perché la carta ed il cartoncino della copertina erano di materiale povero. Erano rossi quei libri della casa editrice Sonzogno. A me lo stesso nome dell’editore suggeriva la parola sogno e di questo mi convincevano i suoi autori, insieme ai suoi titoli. Gli eroi erano il Corsaro Rosso, sua figlia, ma anche e soprattutto i personaggi di Jack London, ideali e unici, per me straordinari, perché tutti sapevano perdersi e riprendersi. Erano personaggi che sapevano rinascere. Fra tutti, i più affascinanti per me erano i meravigliosi protagonisti di “La valle della luna”. I libri costavano il giusto per me, perché mi lasciavano un po’ di denaro per passare in altri negozi con dolci o con giochi. Una domenica, in testa a tutti i libri Sonzogno, ce n’era uno strano, diverso, più alto degli altri (fuori posto, pensai), che attirò subito la mia attenzione. Era “Psicopatologia della vita quotidiana” di Freud. Lo presi e lo sfogliai, ma lo rimisi quasi subito al suo posto perché, nella lettura pur furtiva, provai imbarazzo. Facendomi coraggio, lo acquistai qualche domenica dopo, avendo anche sperato di non ritrovarlo. Lo lessi di nascosto, occultando anche il libro. Si parlava di sessualità. A parte l’ansia di avere quasi tutti i disturbi di cui si accennava nel libro, mi piacque il mondo nuovissimo delle spiegazioni e lo spirito evolutivo che le reggeva, un po’ come nei libri di London. C’era una tensione ideale, una potenza dell’illusione, direi oggi, che mi confortò molto di fronte alla paura di avere tutti i malanni delle nevrosi descritte da Freud. C’era in quel libro, per ciò che ne capii, un ottimismo di ripresa che in qualche modo mi affascinò. Si potevano comprendere le origini e trasformare i modi di essere, i caratteri, ciò che sembrava irrimediabilmente naturale destino e quindi immodificabile. Si faceva, cioè, del ‘bisogno di credere’ un oggetto di consapevolezza perché questa tensione divenisse espressione di relazione e di vita. Un po’ come la psicoanalisi che intendiamo oggi. Per me, era riconoscere che al mio interno, la speranza, quasi una ‘fede biologica’ nel divenire migliore, poteva lenire le difficoltà, le ansie in cui mi sentivo talvolta  intrappolato. L’interpretazione, l’analisi, il parlare con qualcuno che sapeva fare da guida per dubbi e problemi mi aprivano la strada  a una possibilità di cambiamento e … a una passione per una professione. I nodi potevano essere sciolti, aprendo alle energie, così liberate, nuovi orizzonti.
Come accenna la Kristeva, l’esperienza analitica ha una sua base importante proprio in questo ‘credere’ che previene e sostiene il  suo percorso. Io, allora, ero, per così dire, un pre-paziente, in quell’importante condizione fondamentale del credere in qualcuno a cui affidare le posizioni più intime e personali che addirittura quasi non si conoscono, e dell’aver fede in un’altra persona che ti può accogliere e sostenere per cambiare. È un trionfo del credere e quando si arriva a questa condizione emotiva profonda si è giunti ad un punto tale che, da quel momento in poi, non si vuole altro che sviluppo. È il dono del transfert da parte del paziente e da parte del terapeuta. Sì, perché anche l’analista crede nel suo paziente e non solo per capire meglio con il controtransfert le sue comunicazioni, ma anche con il proprio transfert, che mantiene il più positivo possibile, nell’accoglienza e nell’ascolto. Allora pensavo che un medico così attento e sensibile fosse molto ben disposto ad ascoltare quelle cose che a me sembravano persino inascoltabili. Capii, cioè, detto con termini attuali, il transfert positivo dell’analista. Sono da tempo del parere che non c’è nulla di intrusivo in tutto questo, poiché l’analista esponendosi anche come persona, in un certo senso, “butta via il libro” (Hoffmann), ma perché lo vuole vivere. Lo mette cioè da parte, dopo averlo ben letto, facendo predominare, talvolta, se stesso come persona testimone delle posizioni che indica. Aumenta, in tal modo, lo spazio dello scambio relazionale affettivo. Proprio come sapeva fare il mio primo ‘analista’, Jack London, con i suoi personaggi nei loro dialoghi. Leali e onesti, affettivamente credibili nei loro discorsi. Quei personaggi condividevano uno spazio comune affettivamente orientato e, se c’erano delle differenze di sviluppo, non importava, perché c’era una base di reciproco riconoscimento personale. Sapevano comunicare tra loro e, nei dialoghi sulle  esperienze avventurose e sulla vita, capirsi e crescere  emotivamente, reciproci testimoni.
Mi sento un po’ così quando racconto, talvolta, qualche mia esperienza complessa di emancipazione della mia adolescenza o della mia vita. Quando ne parlo, in certi momenti e con certi pazienti, è perché ho presente me in una situazione molto simile a quella  loro e sono certo che non ci sia nessun aspetto di intrusività. Ho spesso notato come quello che dico di me a un paziente in un certo momento tornerà fuori più tardi, ‘digerito’, quando egli mi dirà del suo cambiamento, delle sue difficoltà per la perdita, del suo disorientamento e poi, “proprio come era successo a lei”, comincerà a intravedere una luce che sembra togliere nebbia e a sentire vivo e intero e ‘con un peso’  il proprio corpo, in un suo spazio credibile e dignitoso nella vita.
I conflitti ed i confronti affettivi tra paziente ed analista possono essere diversi, talvolta fortemente discordanti, ma vengono, alla fine, riconosciuti validi. Per questo tipo di comunicazioni del terapeuta, enactment o self-disclosure che siano, bisogna saper attendere il ‘momento giusto’ per dire che è una comunicazione di scambio tra persone, dove non c’è un calcolo né tanto meno superiorità. Non c’è l’aria ‘torbida’ di chi si fa esempio, ma l’aria ‘pulita’ di chi mostra la difficoltà di un cammino, la difficoltà personalmente vissuta, che si offre alla relazione. L’analista si fa, cioè, testimone. Ora è più il tempo dei maestri-testimoni che dei maestri patriarcali,  e ciò non vuol dire abdicare alla autorevolezza.  Significa, per me, credere in qualcuno aldilà del timore e del tremore. Il paziente giustamente ha bisogno di persone vive e vere con cui comunicare di sé, dei suoi limiti, ma anche del suo modo di esserci per quanto regredito e persino perverso. Su questo si fonda la possibilità di sviluppare  il credere e l’essere e l’idealizzazione sana.
Ne “L’Io e l’Es”, Freud ci parla di una identificazione primaria “diretta ed immediata” con il Padre. È un’autorità che, pur amando, distingue, e quindi fa sentire al bambino di ‘esserci’ anche staccato dal contenitore materno. E con i padri, che sempre più numerosi si propongono come coloro che si prendono cura dei figli fin dall’inizio, questa funzione del Padre amorevole primario favorisce la possibilità della distinzione. Bambino-persona affettivamente, psicologicamente distinto dalla simbiosi onnipotente. Mi sembra che la psicoanalista che lo ha capito meglio sia stata Jessica Benjamin, che ne ha parlato come di un’esperienza fondamentale soprattutto per l’identificazione femminile. Un padre che ama, che pur avendo qualità affettive e di cura simili a quelle della madre, è distinto ed indipendente da lei, fa presagire e facilita l’emancipazione, risveglia dall’ipnosi del materno arcaico (Kristeva), ribadendo il riconoscimento dell’assetto narcisistico di base del bambino. Un frutto potente dei nostri tempi è che questo passaggio evolutivo fondamentale verso la propria individuazione personale, verso la creatività, verso l’espressione nell’area transizionale sia, ad un tempo, separata e distinta, ma anche condivisa dalle due autorità, i genitori, perché essi, per certi versi, si possono scambiare i ruoli e contribuire entrambi al riconoscimento sia dell’esserci che dell’essere del bambino.
 
Sul padre amorevole
 
Consideriamo un padre visto da un figlio che ha ben risolto il rapporto con lui. Dice,
al proposito, Giuliano Sangiorgi, cantante intelligente, in un’intervista ad un giornale: ”Stare vicino ai figli vuol dire comunicare la bellezza che loro per primi, i genitori, hanno conosciuto. Mio padre mi ha trasmesso l’amore per Totò, per Fellini, per il cinema, per la poesia”. Il giornalista che lo intervista per un’inchiesta sui figli che hanno perso troppo presto il padre, dice come Sangiorgi  condividesse con il proprio, le grandi melodie, Puccini,  Rota, ma anche Dalla e Tenco …, e che il padre ascoltava con passione la musica e si addormentava cullato dalla ‘Rapsodia in blu’ di Gershwin. Sangiorgi aggiunge: “Sono cose che poi ritrovi nella vita. Tra noi, tra me, figlio, e mio padre e mia madre, c’è sempre stato un rapporto onesto, semplice, pulito”. Ecco il ‘metapsichico’ possibile nuovo contratto generazionale: “Voi mi volete bene, mi date delle regole, ma mi lasciate libero di seguire i miei interessi e gusti e io, per questo, vi ascolto e rispetto”  – dice il figlio. E i genitori, da parte loro: “Tu, amato da noi e riconosciuto nella tua soggettività, accetti, per questo, di apprendere i limiti e i contenimenti che ti vogliamo indicare per vivere nel mondo reale degli adulti”. Su questa base, i genitori di questo cantante sono stati capaci di non accettare ciò che il figlio aveva guadagnato suonando precocemente in un gruppo, imponendogli di restituire quei soldi “perché le tue aspirazioni sono in pericolo. Esse si fermeranno qui e magari, per guadagnare subito dei soldi, non termini gli studi”. “Accettai – dice Sangiorgi- anche se a malincuore”. Si capisce che non fu obbedienza da sottomissione, ma fiducia per il rapporto che c’era e perché i genitori accettavano profondamente le sue passioni fino a proteggerne loro stessi lo sviluppo.
Questa situazione di relazione tra figli e genitori, attualmente possibile, si regge, appunto, sul riguardo reciproco, ognuno nel suo ruolo, accettato da tutti. Un nuovo contratto generazionale. “C’era confidenza – racconta ancora il cantante – Eppure non c’è mai stata confusione di ruoli. I miei erano genitori a tutti gli effetti”. La comprensione sottile e amichevole non ha implicato togliere autorevolezza e possibilità di proporre limiti, divieti e contenimenti, perché le spiegazioni al riguardo erano chiare, condivise dai genitori, ma fondate sul precedente e sotteso terreno di affetto e attenzione personale, sensibile alle caratteristiche e ai modi specifici di essere di quel figlio. E’ ancora raro questo incontro tra generazioni, ma sembra diventare sempre più possibile.
Il conflitto generazionale non sparisce, ma può svolgersi all’interno di una situazione relazionale in cui il riguardo permette a chi deve crescere una visione più intera e personale delle posizioni dei genitori con cui identificarsi. Questi esprimono naturalmente l’amore per la vita, hanno passioni e le  mostrano ai figli con leggerezza sana e non come esempio esibizionistico di un modo narcisistico di essere soddisfatti di sé. Il piacere nel fare e nel vivere viene introiettato dai figli e queste introiezioni identificatorie sono tali da far vivere gli inevitabili conflitti come prove di confronto, di competizione fino ai limiti più duri, ma senza distruttività.
Per il tramonto del complesso edipico, il concetto ormai classico di Loewald  ripropone le tesi di Freud, ma con qualcosa di innovativo che riguarda soprattutto la capacità di contenere le posizioni onnipotenti allo scopo di favorire la relazione tra persone. E’ la proposta di una cultura del Noi che supera e sviluppa adeguatamente l’Io, con una rivalutazione delle istanze del Superio e dell’Ideale dell’Io. Secondo lo psicoanalista americano, l’erede interiore di questa stagione psichica è l’ideale dell’Io.  Mentre l’Io è essenzialmente il rappresentante del mondo esterno, della realtà, il Super-Io e l’ideale dell’Io gli si ergono contro come avvocati del mondo interiore, dell’Es e dei vari livelli di realtà di cui ciascuno di noi è fatto. Nella traduzione di Musatti, Freud dice: “È stato mosso infinite volte alla psicoanalisi il rimprovero di non curarsi di ciò che nell’uomo vi è di più alto, di morale, di superiore alla persona singola (…). La psicoanalisi non ha mai voluto essere un edificio dottrinale completo e perfezionato in ogni sua parte, ma ha dovuto invece costruirsi passo per passo (…)  per studiare quello che nella vita psichica viene rimosso. Ma ora che ci stiamo avventurando nell’analisi dell’Io, possiamo rispondere a tutti coloro i quali – scossi nella consapevolezza delle norme etiche – hanno protestato che deve pur trovarsi nell’uomo qualcosa di superiore: Certo che è così. E questo qualche cosa è l’essere superiore, l’ideale, o Super-io, il rappresentante del nostro rapporto con i genitori. Da bambini piccoli abbiamo conosciuto, ammirato e temuto questi esseri superiori, e più tardi li abbiamo assunti dentro di noi ”.
“Conosciuto, ammirato e temuto”. Ed ora possiamo aggiungere:“amato”. C’è, quindi, qualcosa d’altro (something else),oltre l’interpretazione del rimosso. Qualcosa d’altro che nasce dalla relazione tra persone, il paziente e l’analista.
Il padre amorevole, che la Kristeva analizza a proposito del Credo della tradizione cristiano cattolica, ha le sue radici in quella serie di legami amorosi di cui Freud parla in Totem e tabù e poi, appunto, ne L’Io e l’Es. L’Ideale dell’Io, il bisogno di credere, nasce quindi dall’amore materno e cresce, come fatto affettivo, con quello paterno.
L’autorità paterna, non più quella patriarcale, si presenta ai nostri giorni “dotata di una capacità sublimatoria” (Kristeva), in cui il riconoscimento con amore comprende anche la cura fisica fin dai primi giorni del bambino. Ciò stimola i rudimenti affettivi concreti della potenzialità di sublimare e cioè di costruire simboli (tessere di riconoscimento e di relazione) e dà al bambino il valore non solo di poter esserci, ma anche  quello di poter essere. È una costruzione emotiva e affettiva, d’amore verso il Noi. Sono il linguaggio e la cultura, l’area transizionale, che permettono di sviluppare quell’amore per l’autorità del padre. Su questo si fonda la vera educazione morale ed etica di un Noi come scelta e responsabilità soggettiva essenziali. Una legge morale deve avere una solida base affettiva perché possa essere accettata e divenire efficace e vitale.
 
L’analista profeta
 
“Produci, consuma, crepa”: Michele Serra ci segnala in un suo articolo questa scritta apparsa su un muro. La reazione più profonda alla ‘cultura’ distruttiva che questo graffito crudamente sintetizza, è fondata invece sull’autorità amorevole del genitore, dell’insegnante, dell’adulto, amorevole perché sa anzitutto accogliere la ’persona’ del bambino e, poi, sa insegnare il valore dei limiti e del contenimento. L’indipendenza che sa convivere con la dipendenza dall’altro è l’unico antidoto che può contrastare il veleno violento di quelle ideologie che stanno alla base di una condizione di vita che quel graffito ci butta in faccia con  sintesi sferzante.
L’identificazione, che nasce dal credere con fede  in un altro che ha valore per noi, può essere un sublime ‘alterarsi’ che spezza la simbiosi e l’implicito stato di necessità. Questo può preludere anche alla sottomissione e al suo rovescio, la tirannia, ma se l’emancipazione, l’uscita dallo stato fusionale per le buone cure primarie, ha formato un assetto narcisistico di base sufficientemente valido, è molto difficile che si cada nella servitù volontaria per l’idealizzazione di un despota,considerando che il tiranno più grande è proprio il ‘produrre per consumare’.
La  ricerca affettiva del credere inizia con la prima separazione del bambino dalla madre e dal suo ambiente che porta con sé una fiducia di base nel cambiamento e non smette mai finché dura la vita. Muta in base all’esperienza ed all’età, ma una certa ricerca di qualcosa che ci attende per risponderci c’è  finché  la voglia di vivere sussiste. Ogni epoca della vita ha il suo nome per l’oggetto di questa ricerca, ma come ci suggerisce il grande poeta Machado, ciò che conta è che l’andare avanti sia mosso da una tensione verso il senso (“caminante no hay camino /el camino es el andar”).  Un sentimento saldo dell’esserci tende di continuo verso l’essere, come ci dice, con parole precise ed evocative, la Kristeva: “Da un lato il sentimento oceanico che estrapola la dipendenza materna in rappresentazione del contenuto-contenente e conferisce all’Io la certezza esultante di appartenere al mondo, l’onnipotenza di esserci. Dall’altro l’identificazione primaria con il Padre, la cui autorità amante placa l’angoscia primaria e trasmette la convinzione di essere”.
Dove finisce, che strade prende questa energia libidico-emotiva primaria? Bisogna recuperarla per riconquistare la forza dell’autorità pre-religiosa senza finire nell’imperialismo tirannico e dittatoriale. Bisogna -è Freud che lo dice-  “incoraggiare le proprie sublimazioni recuperando la fede”. 
E’ necessario, cioè, ed è ancora la Kristeva a suggerirlo, rispondere al bisogno antropologico di credere, senza assoggettarlo alle forme storiche che gli attribuisce la storia delle fedi,  ma sublimandolo, come raccomanda Freud, in pratiche e creazioni diversificate delle varie forme di cultura.
E’ l’esperienza analitica che incoraggia di per sé, per definizione direi, le sublimazioni sane e, con ciò stesso, il valore ideale dello sviluppo. Non sempre ciò corre il rischio di divenire malattia dell’idealità (Chasseguet-Smirgel). Dice al proposito Freud: “C’è la possibilità che la persona dell’analista sia collocata dall’ammalato al posto del suo ideale dell’Io; a ciò si connette per l’analista la tentazione di assumere verso il malato il ruolo del profeta, del salvatore d’anime, del redentore. Ma poiché le regole dell’analisi escludono decisamente una tale utilizzazione della personalità del medico, bisogna onestamente riconoscere che è posta qui una delimitazione all’efficacia dell’analisi la quale non ha certo il compito di rendere impossibile le relazioni morbose, ma piuttosto quello di curare per l’Io del malato la libertà di optare per una soluzione o per l’altra …”. Freud sembra dunque sul punto di allargare il discorso analitico a tematiche che sono le nostre, attuali, come quelle della parte costruttiva in analisi attraverso nuovi modelli di identificazione che superino il narcisismo immaturo. Alla luce dello sviluppo della psicoanalisi fino ai nostri tempi non ci è difficile immaginare come Freud, nel suo contesto storico, abbia sentito il bisogno di mantenere in ambito ‘scientifico’ la sua teoria psicologica e di star ben lontano dalle suggestioni  pericolose alla Bernheim di Nancy, che lui conosceva bene per aver seguito le sue lezioni  e che temeva proprio per la ‘violenza’ delle sue pratiche sui pazienti, ipnotiche. E, tuttavia, nelle libere riflessioni sui tanti temi che attiravano la sua attenzione, egli non di rado trovava spunti straordinari di aperture mentali e culturali che tutt’oggi ci affascinano. Così come si deve al padre della psicoanalisi e alla straordinaria capacità di cogliere i significati dei sintomi per superare davvero le loro cause, se oggi sappiamo usare i farmaci con criteri più ampi, valorizzando davvero la  loro funzione all’interno di una relazione e di una presa in carico multipla, in grado di poter affrontare i malesseri psichici più gravi della nostra epoca. Oggi, nel modo più controllato possibile dalla consapevolezza dell’analista e nel rigore non feticistico del setting, per i nuovi pazienti con il Sé così fragile e così grandioso, c’è, non di rado, bisogno di riprendere il valore evolutivo dell’idealizzazione senza troppa paura. Noi ora, pur consapevoli del valore del rigore, possiamo ed abbiamo bisogno di pensare che, con i pazienti nevrotici-borderline con disturbi narcisistici di comportamento e di personalità, occorre ‘scendere a patti’. Questi compromessi rinnovano la possibilità che diversi concetti della psicoanalisi abbiano ancora tanto da dire. Per le patologie del Sé e del preconscio occorre dunque saper giostrare con sapienza e abilità tra lo psicoanalista, la persona e la relazione fluttuante. Ogni contesto storico ha la sua psicoanalisi, ogni sistema di pensiero ha bisogno di adeguarsi alla realtà che cambia e nelle trasformazioni  necessarie dimostra la sua vera vitalità.
Bauman accenna più volte ad un fatto importante: la moralità e l’etica non traggono origine né “dall’alto né da presuntuosità scientista”. Esse derivano dal contatto narcisistico dell’amore che vive il bambino con l’ambiente materno. Ed é da questo primo insieme, dalla diade madre-bambino winnicottiana, che nasce il concetto che ha permesso un’importante sviluppo della psicoanalisi. Questo stesso concetto, che descrive la situazione relazionale primaria come vera matrice dell’ideale, fonda  l’etica post-moderna su base affettiva. Non quindi un’etica astratta, ma, come già sottolineato,  una morale che si basa sulla prima relazione umana di ogni uomo, quella con la madre ed il suo ambiente. E, prima ancora, dai genitori in attesa, con la creazione del bambino come ‘portatore della realizzazione dei loro sogni’, ma anche di una propria originalità di soggetto individuale distinto. Così lo rassicureranno che sarà il prossimo anello della catena, come loro stessi lo sono stati rispetto ai propri genitori. Anelli di una catena che il desiderio attraverso le varie  generazioni ha trasmesso e questa è la base dell’ancoraggio del Sé necessario per combattere i fautori dell’individualismo narcisistico. Ma la nostra epoca raggiunge un’altra profonda aspirazione che si espande tra i giovani più accorti: quella catena ha aperture inusitate, protegge ma non chiude poiché ha anelli duttili che sanno aprirsi alla vera individualità di ciascuno.
Freud nella sua riflessione fondamentale sul narcisismo sostiene l’importanza di due tempi fondatori. Il primo é marcato dall’anticipazione narcisistica di un altro, e di più di un altro,  il cui effetto è di far avvenire l’Io come oggetto dell’investimento narcisistico . Il secondo riconosce  questo investimento da parte del  Sé soggettivo del bambino stesso. Kaës, riprendendo questo tema, lo descrive in termini di “appoggio congiunto del narcisismo dell’infans e del narcisismo genitoriale”. Secondo me, da questo impasto narcisistico sano e straordinario tra l’infans, la madre e l’ambiente relazionale primario di lei, che ora più che mai comprende  il padre del bambino, sorge uno stato della mente, un presagio del fatto umano per eccellenza, il pensiero relazionale, che, meglio di ogni altro, Bauman ha descritto nel suo fondamento con queste parole: “Tutti si devono ineluttabilmente rimettere agli altri e alla reciproca solidarietà”. Fin da prima della nascita, come abbiamo appena visto. E quando questo non è stato possibile nell’infanzia e nella crescita emotiva  sorge il malessere psichico di cui, nel migliore dei casi, si occuperanno la psicoanalisi e la psicoterapia dei nostri giorni, talvolta accettando, senza paura e con i piedi piantati per terra, persino la posizione del ‘profeta’, così come quella del ‘testimone’, miscelando l’oro col rame e trovando che viene fuori un nuovo  tipo di oro: il benessere del paziente.
 
Quid est veritas?
 
“Quid est veritas?”. Che cosa è la verità? E’ la domanda che Pilato, potente funzionario romano, apparentemente senza troppa polemica, propone a Gesù nel testo di Giovanni. E’ una risposta in realtà, con una reattività neanche tanto velata, a quanto aveva affermato Cristo: ”Chiunque è per la verità ascolta la mia voce sulla verità”. E’ una posizione, questa, stringente ma dogmatica nella sua passione di credere per fede, e non pochi autori l’hanno commentata. Bacone, già moderno con la sua attenzione posta sulla comprensione del mondo che pensa a questa vita come fattore centrale dell’esperienza umana, reagisce alla eccessiva sicurezza dell’affermazione di Gesù Cristo. Per Bacone, Pilato assurge al personaggio che ha fatto una straordinaria domanda che dà il vero valore al Nuovo Testamento, proprio per la critica implicita al fideismo.
Quando un mio paziente, colto ed intelligente, mi pose, senza scetticismo e ironia di sufficienza, la stessa domanda, mi resi conto della profondità con cui me la proponeva, ma, fortunatamente, trovai pronta una risposta. Emerse dal preconscio, cioè da tante esperienze  accumulate di analisi e di vita personale e dalle  suggestioni di autori e personaggi  delle mie letture: “E’ quanto è sorto tra noi due, persone, prima ancora che ruoli, nell’ascolto, nell’accoglienza, nel conflitto, nella discussione e nelle soluzioni che abbiamo saputo finora trovare”. Gli piacque la risposta, e la riflessione sulle connesse associazioni sulla sua vita  occupò per un lungo periodo la relazione analitica.
Un bellissimo articolo-saggio di Silvia Ronchey, apparso su Repubblica, ha descritto l’episodio del Vangelo della domanda di Pilato a Gesù. L’autrice  ricorda come sant’Agostino rispose a questa stessa domanda, paradossalmente, con un anagramma a dir poco geniale , ispirato dalla grazia del suo talento. “Quid est veritas?”. Agostino risponde: “Est vir qui adest”. E’ l’uomo che è qui,vicino a me, con cui parlo ( per la traduzione di vir è, è per noi Argonauti, meglio ‘persona’ che ‘uomo’. Adsum, in latino, significa: ‘Sono presente, vicino, a portata di dialogo’). Sulla terra, ora, tra due persone vive e vere che comunicano, leali tra loro, per un progetto comune, ognuno per la sua parte: andare avanti. L’allegria della mente che ne scaturisce, frutto della fiducia e della speranza reciproche,  non appartiene in alcun modo al mondo del calcolo e del profitto, bensì a quello dell’esserci-essere del dono. Il mio paziente ed io continuammo a comunicare tra noi con questo stato sottile di allegria. Ah! A proposito, la metafora ‘allegria della mente‘ ce l’ha donata anch’essa il geniale preconscio di Sant’Agostino.


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