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Dove andranno la psichiatria e la fenomenologia nei prossimi anni?

14 Ott 23

Di FRANCESCO BOLLORINO
Dopo quasi quattro anni, eccomi arrivato all’ultimo periodo di specializzazione. Ho scelto la specialità in psichiatria perché mi piaceva, perchè ne sono rimasto affascinato studiandola e forse anche per un senso di scoperta personale (come tanti?). Come la maggior parte degli specializzandi, mi è capitato di lavorare in comunità, in CPS (o CSM), in SPDC. Non nei servizi per le dipendenze, che per qualche motivo a me oscuro sono lasciate ai margini di molte scuole di specializzazione italiane. Al momento mi trovo a Londra a fare un Internship per l’ultimo anno e sto quindi conoscendo anche un sistema sanitario diverso (non so ancora dire se migliore!) dal nostro. Ho conosciuto in questi anni tanti colleghi appassionati del proprio lavoro, però spesso anche molto stanchi, frustrati dalle dinamiche aziendali, dalle carenze di organico e dall’ennesimo turno di guardia che sono stati costretti a fare. Non so se non ci siano più i maestri di una volta, come spesso ho sentito dire, posso solo dire che ho conosciuto molte persone competenti e desiderose di insegnare, ho conosciuto persone autorevoli ed altre autoritarie, ma questo penso faccia parte di qualsiasi ambiente lavorativo. Mi sto formando in un sistema dove gli anni di specialità si stanno accorciando sempre di più, dove le carenze di personale ci chiamano ad essere ‘quasi specialisti’, prima della fine del percorso di specialità.

Sinceramente, non mi sento come i soldati del film ‘La sottile linea rossa’ come scriveva Gilberto Di Petta nella sua ‘lettera allo specializzando’ (spero di non cadere nella piaggeria dicendo che l’ho trovata molto bella) (Di Petta, 2021). Mi sento come uno a cui piace fare il suo lavoro e che si è trovato mediamente bene in tutti i contesti in cui ha lavorato, confermando le aspettative che avevo. Alcune volte mi sono anche divertito. Ovviamente, i periodi difficili ci sono stati.

La mia scuola di specializzazione (Pavia) come tutte, ha i suoi difetti, ma ha la peculiarità secondo me di essere una delle poche scuole dove viene data ancora importanza agli aspetti psicodinamici e fenomenologici. Ad esempio, al primo anno di specialità dobbiamo studiare per l’esame la ‘Psicopatologia generale’ di Jaspers. Scelta che ha dei pro e dei contro: ancora mi chiedo, e come me i miei colleghi il senso di studiare al primo anno un libro di moltissime pagine, di non facile comprensione e dal linguaggio filosofeggiante, quando sarebbe forse meglio consolidare prima delle basi di neurobiologia, clinica psichiatrica e farmacologia. Perchè questo è quello che ci viene chiesto al lavoro, dai pazienti, nelle guardie in SPDC, dagli strutturati. La domanda che affligge tutti gli specializzandi pavesi al primo anno è: ha senso studiare Jaspers o sarebbe forse meglio studiare la psicofarmacologia, sapere ad esempio la differenza fra i vari antipsicotici, o imparare bene come titolare e monitorare la Clozapina?

Jaspers è uno di quei manuali che probabilmente inizi ad apprezzare alla seconda/terza lettura, tipo i libri che dovevi leggere al liceo e apprezzi solo anni dopo. Devo dire che però forse anche grazie a Jaspers mi sono un po’ appassionato alla fenomenologia, ho letto (non so se li ho anche capiti) qualcosa di Binswanger, Minkowski, Blankenburg, Cargnello, mi sono guardato gli interventi di Filippo Maria Ferro su Bonhoeffer, di Giovanni Martinotti sulla coscienza e la temporalità nell’abuso di sostanze, per citarne solo alcuni. Trovo il ragionamento fenomenologico molto affascinante, ma anche dopo tutto questo continuo a chiedermi: tutto questo ragionamento a dove porta? Qual è la ripercussione pratica nell’avere delle solide basi di fenomenologia?

Mi sembra di poter dire che spesso il pensiero fenomenologico manchi di risvolti clinici. Binswanger stesso, ad esempio, affermava che la Daseinanalisi non poteva essere utilizzata in termini psicoterapeutici. Cargnello, più tardi, si azzardò a dire che ‘l’antropoanalisi non si preclude eventuali sviluppi verso una metodologia terapeutica che la sua stessa apertura verso l’umano sembrerebbe additare’ (Cargnello, 1961).

Faccio un altro esempio, più recente, di un libro che ho appena letto (e che consiglio per gli appassionati del tema), di Guilherme Messas, ‘La struttura esistenziale dell’abuso di sostanze’ (Messas, 2022). Il manuale offre un’interessante e dettagliata prospettiva fenomenologica sui disturbi psichiatrici maggiori e in particolare sull’abuso di sostanze. I collegamenti con la pratica clinica, però, sono riservati a un capitolo di alcune pagine intitolato ‘Rilancio di una biografia personale: la dialettica della recovery’, precisamente alle pagine 271-277, su un libro di 277 pagine totali. Un po’ pochino, forse.

Quindi mi sono chiesto, ad esempio: a cosa mi serve sapere la teorizzazione dell’abuso di sostanze fatta da Messas, o il modello della psicosi esogena di Bonhoeffer, se un giorno sarò di guardia e arriva in Pronto Soccorso un paziente che sotto l’effetto di sostanze ha sfasciato tutto e viene accompagnato dalle Forze dell’Ordine? Dovrei sapere come impostare magari una terapia sedativa, come gestirlo clinicamente, ma lì la fenomenologia serve a poco.

La domanda è perciò sempre la stessa quando mi approccio alla fenomenologia: ‘e quindi? So, what?’.

Penso che una delle sfide dei prossimi anni della fenomenologia, ma che potrebbe coinvolgere anche il pensiero psicodinamico e psicoanalitico, sia cercare il più possibile risvolti clinici, pratici, è necessario trovare un linguaggio sempre più comune fra fenomenologia, psicodinamica, neuroscienze e clinica. Passare dal concepirli come mondi distaccati e lontani a realtà collegate fra loro. Probabilmente è una fatica mia, ma ho davvero difficoltà a cogliere i riscontri pratici del ragionamento fenomenologico (e in parte anche di quello psicodinamico), nella clinica di tutti i giorni, quando si ha davanti il paziente.

Eppure, ne riesco a cogliere l’incredibile fascino e la profondità intellettuale. Come me, non pochi altri. Alla SOPSI di quest’anno, ad esempio, nell’unico simposio in cui si parlava di fenomenologia la sala era stracolma, e molti erano specializzandi. In quello di presentazione del DSM-V-TR la sala era mezza vuota. Quindi è segno che c’è bisogno, e tanto, di questi incontri, ma non solamente in contesti dove si parla solo di fenomenologia.

Ai congressi sento parlare (giustamente, non vorrei essere frainteso) di depressioni resistenti, dei nuovi farmaci, dell’ADHD, però poco di fenomenologia. È un peccato, perchè la fenomenologia dovrebbe essere insegnata, quasi tramandata. Si potrebbe forse obiettare che le case farmaceutiche finanziano i congressi dove si parla di farmaci, interessano meno invece Minkowski, Blankenburg e Bonhoeffer…

Mi piacerebbe nei prossimi anni vedere la fenomenologia più integrata con la ricerca scientifica, con il mondo accademico, e (non ho però le competenze per dire se sia possibile), più intercalata con la clinica. Altrimenti rischia di rimanere un fine ragionamento psicopatologico, ma molto teorico.

Ho letto spesso che in Italia, differentemente da quanto accaduto in altri Paesi, la fenomenologia e in generale il pensiero psicodinamico-psicoanalitico è rimasto un po’ ai margini del mondo accademico, che privilegia invece il modello di psichiatria biologica e la ricerca psicofarmacologica. Probabilmente questo è vero, però allora chiedo, un po’ provocatoriamente: non è anche ‘colpa’ di gran parte dei fenomenologi, psicodinamici e psicoanalisti che hanno quasi rigettato il mondo accademico e la ricerca scientifica, non ritenendola adattabile al loro pensiero?

È essenziale anche fare ricerca in psicoterapia (non solo in setting esclusivamente psicoterapeutici ma anche psichiatrici), pur tenendo conto delle oggettive difficoltà metodologiche, e sugli interventi integrati fra psicoterapia e psicofarmacologia. Alcune volte ho sentito dire, anche da eminenti personaggi, che la psicologia e la psichiatria non hanno basi scientifiche e pertanto non ha neanche senso farci della ricerca. Trovo però che affermare questo sia un po’ pericoloso, non facendo altro che alimentare quella dicotomia fra psichiatria biologica-psichiatria relazionale, oggettivamente un po’ superata. Bisogna stare molto attenti credo alle ideologie, ricordando che l’obiettivo dovrebbe essere solo uno: cercare di fare stare meglio i nostri pazienti. Mi piacerebbe che nei prossimi anni non esista più la psichiatria ‘pro-DSM’, e quella ‘anti-DSM’. Sarebbe bello che esistesse un’unica psichiatria, che integri tutti questi aspetti.

Mi piacerebbe vedere quindi nei prossimi anni sempre più ricerca in psicoterapia, e nei vari (tanti) orientamenti di psicoterapia disponibili. Mi piacerebbe leggere sempre meno studi che comparino ‘farmaco A-vs farmaco B’ e sempre più studi che mettano a confronto ‘farmaco A-psicoterapia A’ e ‘farmaco B-psicoterapia B’. Stesso discorso vale ovviamente per gli interventi psico-sociali. La psicoterapia dovrebbe essere sempre più targeted, e quindi studiata meglio: un tipo di psicoterapia sbagliata per un paziente può creare danni quanto un farmaco sbagliato, se non di più. Il farmaco si può switchare con relativa velocità, la psicoterapia meno.

Sarebbe anche intelligente poi cercare di fare chiarezza fra i troppi macro e micro-indirizzi di psicoterapia. Anche nei vari orientamenti principali ci sono poi delle sottodivisioni, con un panorama ancora più diviso e litigioso dei partiti che ci governano. Questo serve forse a soddisfare il pensiero concettuale di qualcuno, ma aiuta poco la persona che ha la sacrosanta idea di iniziare un percorso di psicoterapia (ed ha i soldi per farlo), ma non ci capisce nulla quando deve sceglierne una. Servirebbero più chiarezza e meno scissioni sulla base delle idee scientifiche. Forse servirebbe anche più informazione corretta in questo senso, partendo dalle categorie più ‘a rischio’ (adolescenti, età scolare, famigliari di pazienti con disturbi mentali), anche per ridurre lo stigma che ancora affligge la psichiatria, ma anche la psicoterapia.

Trovo poi assurdo (e qui probabilmente mi inimicherò i colleghi psichiatri), che lo psichiatra mantenga ancora il titolo di psicoterapeuta, senza un’adeguata formazione in psicoterapia e soprattutto senza avere effettuato un percorso personale. Premettendo che la formazione più profonda di un buon terapeuta è probabilmente quella personale, a mia conoscenza la formazione in psicoterapia nelle scuole di specialità in psichiatria italiane non si fa, o se la si fa la si fa male, perché mancano il tempo e le risorse (comprensibilmente). Quindi non so quanto sia deontologicamente corretto che noi psichiatri manteniamo il titolo di psicoterapeuta, senza una formazione e un percorso personale adeguati. Giustamente dopo un po’ di anni è stato capito, e la legge è stata cambiata almeno in parte.

In generale servirebbe forse anche più informatizzazione e meno burocratizzazione cartacea, con sempre più collaborazione fra i servizi anche in termini informatici. Mi piacerebbe vedere nei prossimi anni sempre meno cartelle cartacee (gli alberi ringrazierebbero) e sempre più informatizzate, consultabili nei diversi servizi e (perché no?), anche dal Medico di medicina generale (in UK lo fanno da anni!). Capisco che mantenere la memoria biografica del paziente sia importante, gli studi sulla temporalità ce lo dicono. Ma se il paziente è al decimo ricovero in dodici mesi, forse avrebbe senso e sarebbe più rispettoso per lui recuperare le informazioni anamnestiche essenziali da un portale telematico.

Siamo sicuri che per fare passi avanti in questo ambito servono ‘tempo e risorse’, o forse serve solo buonsenso?

Lavorando a Londra ho imparato che gli inglesi sono più bravi e coesi di noi a capire che cosa non va e a cercare di migliorarlo. Lo sono meno di noi, però, a ‘pensare oltre le linee’ (o oltre le linee guida, che è necessario conoscere, ma i pazienti non sono dei protocolli, per sfortuna o per fortuna!). In quello, probabilmente noi rimaniamo migliori. Perché sì, forse per fare lo psichiatra serve anche un minimo di capacità di uscire dagli schemi e di creatività. Però la creatività deve essere accompagnata da organizzazione e buon senso.

Quanto a me, non so bene cosa mi piacerebbe per i prossimi anni. L’unica cosa che mi piacerebbe è mantenere quel minimo di passione che per ora mi sembra di avere, di continuare ad andare al lavoro mediamente contento nonostante le difficoltà lavorative e personali che sicuramente ci saranno, le carenze di organico, le dinamiche aziendali. Spero solo che tutte queste cose non mi facciano passare la voglia di fare un mestiere che, nonostante anche i rischi che i fatti di cronaca recente hanno dimostrato che possono accadere, rimane magico ed affascinante. Forse però verrò deluso, e ciò non accadrà.

Bibliografia:

-Cargnello D., ‘Dal naturalismo psicoanalitico alla fenomenologia antropologica della daseinsanalyse. Da Freud a Binswanger’, Istituto di studi filosofici, 1961

-Di Petta G., ‘Lettera a una/un giovane specializzanda/o in psichiatria’, http://www.psychiatryonline.it/node/7247

-Messas G., La struttura esistenziale dell’abuso di sostanze. Uno studio psicopatologico, Giovanni Fioriti Editore, 2022 (Edizione Italiana)

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2 Commenti

  1. gilbertodipetta

    Caro Filippo, ho letto con
    Caro Filippo, ho letto con piacere la tua “lettera”. Con piacere perchè è importante vedere un giovane (credo che tu non abbia ancora trentanni) che si pone interrogativi cruciali, come fai tu. Forse posti con l’ingenuitas (in senso buono, cioè di verginitas) di chi non conosce la storia. Ovvero non conosce come sono andate le cose. Purtroppo tra le varie carenze che tu sottolinei, auspicando un’integrazione, a volte troppo ecumenica, trascuri di citare la storia della psichiatria, che è innanzitutto, come la storia di ogni sapere, “storia di paradigmi”. Il paradigma neurobiologico è solo l’ultimo in ordine di arrivo, per certi versi esso è una riesumazione in chiave molecolare del paradigma positivistico. Purtroppo non supportato da un’adeguata formazione nella clinica (solo la frequenza dei pazienti e di adeguati maestri può darla) e nella psicopatologia (che non si esaurisce nello Jaspers). A cosa servono fenomenologia e psicoanalisi? la risposta è : pressochè a niente. “Presque rien” è il titolo di un libro di Jankelevitch. Vediamo quel “pressochè a niente” come può essere “tutto”, in certe circostanze. Ad oggi non abbiamo, a dispetto delle magnifiche sorti e progressive, alcun marker biologico di malattia mentale, o di mental disorder, o di mental illness come vuoi dire. Il che significa una cosa: che le malattie mentali sono delle entità concettuali, non delle entità di natura. Ovvero che esse vanno concettualizzate sulla base di vincoli logici che scaturiscono da percezioni dirette, opportunamente integrate in schemi di riferimento variabili, alle cui provvisorie conclusioni si può arrivare solo attraverso un’equazione personale. Significa dire che la diagnosi la fai con ciò che sei, oltre che con ciò che sai, e con come ti poni, visto che fai parte del campo di emergenza dei fenomeni. La psicoanalisi (non studiata ma praticata come paziente sulla tua persona) ha il compito di “pulire la lente” attraverso cui guardi e conferire ad alcune parti di te delle proprietà “reagenti” all’impatto con il dolore umano o con la follia. La fenomenologia lavora sul come ti poni, dandoti la possibilità di mettere in evidenza, spesso per sottrazione di superfluo, i tratti essenziali di ciò che si sta svolgendo tra te e il paziente. Sia ” a bocce ferme”, ovvero in un colloquio clinico standard, sia in emergenza, gli scorci eidetici, ovvero le “imagines”, le figure, le forme, le configurazioni che ti appariranno ti consentiranno un appiglio per procedere, nella comprensione e nella cura. Certo, non sono chiodi piantati nella roccia, ma ai ciechi (e noi lo siamo) basta a volte il sentore per non precipitare in un fosso. Il sentore. Per prescrivere farmaci il “sentore” è più della conoscenza perfetta delle loro (presunte) interazioni con presunte vie recettoriali. E cioè i farmaci rispondono sulla base di un’empiria intrasmissibile, che sarai costretto a farti sulle tue ossa. Nella clinica i conti non tornano mai. “La sottile linea rossa” non puoi sperimentarla da “visiting” o negli attraversamenti formativi. La attraverserai drammaticamente quando sarai solo, di notte o di giorno, con le tue decisioni, prese sulla base di un conferimento di senso, certo non univoco, ma euristico e probabilistico, alla situazione che sarai chiamato a decodificare. Il quadro della psichiatria dato dalle scuole di specilità, anche dalla tua che valorizza qualche testo classico, è illusorio. La “psichiatria del marciapiede” o “della strada”, o “a domicilio”, o in PS, è un’altra cosa. Sul perchè tutto questo che scrivo non sia stato integrato ci sono ragioni storiche che qui è complicato spiegare. Ti basti la parola riduzionismo. Che tutto è fuorchè la totalità dell’essere umano che sarai costretto ad impattare. Con conseguenze destinali, per te e per il paziente. In ogni modo, al di la di quello che scrivi, si sente che hai una breccia aperta verso la nostalgia. Di cosa? Lo vedremo, certo, nei prossimi anni. quando la faciloneria dei fuochi fatui lascerà emergere la profondità delle cose essenziali. Spero di poterti incontrare, e di discuterne davanti ad un caffè, e con qualche esperienza in più tatuata sulla pelle.

  2. giuseppe.salerno1990

    Caro Filippo,
    grazie per il

    Caro Filippo,
    grazie per il tuo articolo, che ha il coraggio di guardare dentro il vaso della nostra fenomenologia, quella impegnata nella salute mentale e in psicoterapia. Le tue riflessioni sono comprensibili – non tutte condivisibili per me – per chi abbia letto e studiato la fenomenologia dei libri, che troppo spesso resta lontana dalla prassi. Moltissimi studenti che leggono di fenomenologia hanno la tua stessa impressione e la sentono troppo lontana dal mondo concreto, che volente o nolente ti chiede di fare qualcosa davanti al paziente (anche in psicoterapia). Condivido quindi con te la necessità di cercare una via più diretta per la clinica. Su questo altri paradigmi ci possono insegnare qualcosa, secondo me, se impariamo ad ascoltarli.
    Nel tuo discorso però sento che manca l’esperienza diretta della fenomenologia all’opera nei gruppi, nelle comunità terapeutiche, negli studi professionali. Poni il problema della declinazione terapeutica della fenomenologia, che però è stato affrontato (e secondo me superato) dalla terza generazione di fenomenologi italiani, di cui fanno parte Giovanni Stanghellini e Gilberto Di Petta. A noi giovani, io credo, non resta che avere il coraggio di parlare senza remore di psicologia fenomenologica e di psicoterapia fenomenologica.
    Non condivido, infine, il ragionamento sulla ricerca in psicoterapia. Ci trovo una certa confusione di livelli logici: una cosa sono i dati, un’altra (come dici tu stesso) è l’essere umano in carne ed ossa. Una clinica fenomenologicamente fondata è un ingaggio uno-ad-uno, non esistono ragionamenti statistici che tengano. La soggettività, la sofferenza e la cura non si fanno incatenare nelle maglie delle statistiche. Ma anche di questo puoi solo fare esperienza o impararlo direttamente da qualcuno. Questo ragionamento evidence base in psicoterapia secondo me funziona fino a un certo punto. L’unico vero dato di un clinico fenomenologico è la sua esperienza del paziente, che come ci ricorda Laing (1967) è l’unica vera evidenza che abbiamo a disposizione.

    Grazie comunque per aver aperto questa discussione interessante. Ti aspettiamo anche sul blog psicologiafenomenologica.it con qualche altro articolo su Kimura e la fenomenologia giapponese 😉

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