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Finalmente ci siamo liberati della psicopatologia

14 Mag 21

Di Raffaele-Vanacore

I.

Sin dalle proprie origini – con Philippe Pinel e il suo Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale, con la liberazione dei matti dalle catene di Bicêtre e la garanzia del loro diritto alla cura – la psichiatria si è posta come scienza medica che si propone di indagare, comprendere e curare le forme dell’alienazione mentale. O meglio, le forme della follia. Obiettivo di certo ambizioso. Si può, infatti, curare la follia? In un primo momento, dunque – in quella che possiamo definire la fase pre-clinica della psichiatria – la follia era considerata una sorta di stravaganza, una modalità di partecipare alla vita comune per la quale alcune persone venivano escluse dal recinto sociale – al pari di vagabondi, prostitute, sifilitici. E ciò ne legittimava la convivenza in luoghi di esclusione pre-manicomiali; come se l’esclusione in sé fosse sinonimo di follia, la quale non era dunque una questione clinica, ma sociale e morale. In un secondo momento – a partire da Pinel e fino a Freud, Jaspers e Binswanger (per citare solo alcuni, forse i più conosciuti, dei padri della psichiatria clinica) – la follia è stata intesa come modalità soggettiva di esperire una sofferenza mentale, compiendo così un decisivo passo in avanti, verso il mondo della clinica.

Tuttavia, in una terza fase – quella che viviamo oggi – il ruolo della clinica è lentamente venuto ad impoverirsi. La scienza psichiatrica è stata diluita in una salute mentale dei servizi assistenziali e della dispensazione farmacologica. L’era, insomma, è quella della post-clinica. Non sorprende, infatti, che le modalità di intervento siano simili a quelle delle forme stesse della follia. E sono le forme della vacuità, dell’inconsistenza e della perdita della temporalità. In altri termini, si è assistito ad una frammentazione dell’identità clinica, in conseguenza della quale il senso del lavoro clinico è perduto, e ritrovato unicamente nell’intensità delle cosiddette “urgenze” e nelle forme della nuova cronicità che trovano significato nei servizi stessi piuttosto che nel mondo della vita. Nella fase post-clinica, insomma, la psichiatria ha creato dei simulacri di sofferenza – categorie diagnostiche, teorie neurobiologiche, raffinate descrizioni di casi clinici, specifiche tecniche psicoterapeutiche – che hanno soppianto la clinica stessa. Ma si può parlare, nuovamente, di vita piuttosto che di simulacri di vita?

 

II.

Partiamo da un presupposto: la psichiatria è una “scienza medica”, e non dell’anima o dei servizi socio-assistenziali. Oggi, infatti, in un senso o nell’altro, si fa confusione: come se alla psichiatra fossero in deroga dei disturbi “funzionali” senza apparenti correlati “organici; o come se la psichiatria fosse un servizio sociale per persone anche un po’ agitate o emotivamente instabili. Il fondamento dell’approccio medico alla psichiatria non poteva che essere la psicopatologia, nei termini e nella metodologia delineati da Karl Jaspers nel 1913 nella sua Psicopatologia generale. Ciò è stato decisivo, ma a lungo dimenticato, e tutt’oggi considerato superfluo per chi si interessi di psichiatria. E questo soprattutto perché, rileggendo la definizione di psichiatria che abbiamo dato sopra, questa non significa proprio nulla. Che significa, in effetti, “sofferenza mentale”? Vi è, quindi, una sorta di “mente” che controlla e guida le nostre azioni? Una sorta di background cerebrale che dobbiamo tentare di portare a galla? Quello che consideriamo come “mentale”, nei termini antropo-fenomenologi che hanno consentito di porre la psicopatologia alla base del metodo clinico psichiatrico, dovrebbe, tuttavia, più propriamente intendersi come quel fondo vitale alla base dell’esperire soggettivo stesso (la dimensione matriciale e strutturale della paticità l’ha definita Aldo Masullo; la nuda struttura della vita l’ha denominata Gilberto Di Petta).

Ma spieghiamoci meglio. Edmund Husserl, nelle sue opere più tardive, ha considerato l’esperire soggettivo nei termini dell’intersoggettività e del mondo della vita. In altre parole – e questo è prioritario per la nostra comprensione del “soggettivo” non nei termini del “mentale”, ma dell’“antropologico”, o del “patico”, o dell’umano stesso – ogni esperienza soggettiva, da un lato, è originariamente e radicalmente intersoggettiva, ossia costituita con l’alterità che incontra. D’altro lato, essa è la manifestazione di un’esistenza – o meglio di una ek-sistentia – ossia di una soggettività che si trascende e si costituisce in un mondo della vita, ossia in un mondo già dato nella sua fatticità auto-evidente (il mondo dell’oggettività e dell’impersonale) e nella sua storicità sociale e culturale (il mondo del tempo e degli orizzonti). In altri termini, sarebbe irrealistico pensare di comprendere un’esperienza soggettiva senza che questa venga considerata in quanto matrice strutturale, fondata sul costante incontro con l’alterità e costituita nel mondo della vita, storico e naturale – matrice strutturale di cui l’esperienza soggettiva è la manifestazione. È in quest’ottica che possiamo parlare di fenomeni e non di sintomi, di vissuti e non di categorie, di corporeità e non di somaticità, di paticità e non di mentale. Precisamente, dunque, la psichiatria è quella scienza clinica che si interessa di indagare, comprendere e curare l’esperienza umana in quanto manifestazione di una esistenza che rivela se stessa in questa esperienza.

 

III.

Quindi, ciò verso cui si rivolge la psichiatria non è un “mentale”, quanto le forme dell’esperire umano stesso, nella sua portata più ampia e, allo stesso tempo, più fondamentale. Ogni esperire, però, si avvicina a dei modelli – o tipologie, o idealtipi – ai quali, tuttavia, non può mai essere del tutto assimilato. Sarebbe infatti assurdo considerare una persona come un “bipolare” o un “ossessivo”. Questi modelli sono delle tipologie generali delle esperienze di sofferenza umana – come visto, umano nel senso di “antropologico”, o di “patico” – alle quali esperienze individuali di sofferenza possono avvicinarsi. Ma se non esistono delle categorie definite o dei modelli effettivi, ha senso parlare della psichiatria come scienza clinica? Come visto sopra, Pinel parlava della psichiatria come di scienza medico-filosofica. In un’ottica contemporanea, questa definizione non sarebbe altro che un ossimoro, o un osso di seppia la cui dissoluzione lascia uno scheletro inutilizzabile e senza sapore. Ma è proprio in questo dissolversi della carne che l’incontro medico-filosofico – o meglio, clinico-antropologico – si pone come base per ogni scienza che voglia dirsi psichiatrica.

Da un lato, dunque, la clinica si pone come legittimazione di forme di sofferenza la cui matrice è da rintracciare nella struttura stessa dell’esperienza umana. E questa struttura è costantemente e dinamicamente espressa nelle forme secondo cui ciascuno si atteggia alla vita – o meglio, nelle esperienze che ciascuno fa del proprio vivere e che si manifestano nel mondo. E tali esperienze, in quanto in maniera continuativa risonanti con l’alterità di cui il mondo è costituito, tendono a manifestarsi, come detto, secondo modelli o idealtipi in certi contesti storici e culturali. Ma ciò che interessa alla psicopatologia è l’esperienza stessa, non il suo simulacro denominato secondo un modello. D’altro lato, il rigore filosofico – o, altrimenti detto, la ricerca antropologica – contribuisce a svelare le forme secondo qui quella particolare esistenza – o quella singolare persona umana – ha avuto la possibilità di costituire le condizioni per il manifestarsi di quella particolare esperienza. È in questi termini che Ludwig Binswanger ha posto le posti per la Daseinanalyse o antropoanalisi.

 

IV.

Quanto detto sinora può apparire ripetitivo, o addirittura rétro, ma – nonostante ciò – di estrema attualità. Soprattutto nella misura in cui, oggi, non è ben chiaro quale sia il compito dello psichiatra. Vagando tra i servizi pubblici, o tra le cliniche universitarie in cui gli psichiatri si formano, quasi a nessuno è ben chiaro cosa fare. Considerare queste forme della follia come malattie biologiche da curare con farmaci, sebbene in assenza di evidenti e definitive prove a riguardo? O, piuttosto, ritenere queste forme come una sorta di devianza sociale da ricondurre ad un reintegro nel sistema? Come se, in entrambi i casi ed in un’ultima analisi, l’essere umano potesse essere disfunzionale rispetto ad oggettività predefinite. Non c’è né scienza né filosofia, né clinica né poesia, né cura né immaginario in questo. Operiamo secondo una sorta di cocktail di buonsenso socio-morale e di ricerche statistico-biologiche inutilizzabili nella clinica di tutti i giorni. La pressione sugli operatori, tuttavia, è altissima. In assenza di strumenti clinico-antropologici rischiamo di divenire ossi di seppia, carcasse alla mercé delle forze marine ed esterne. Forse questo è il destino dello psichiatra: divenire un ibrido tra un rasserenatore morale o farmacologico ed un impiegato socio-mentale. Ma già Janzarik, come visto altrove, ammoniva sul ruolo futuro dello psichiatra: “custode di psicotici istituzionalizzati” o “psichiatra della società”? Ma che significa, poi, psichiatra della società? Per un verso, non possiamo operare come guardiani post-moderni di quelle forme di sofferenza che oggi – piuttosto che psicotiche – sono considerate borderline. D’altro verso, quando Janzarik parlava di “psichiatra della società” non intendeva psichiatri “al servizio della società”, quanto psichiatri che operano per trasformare le dinamiche sociali, ossia quell’insieme di relazioni in cui l’esperienza, tanto dei pazienti e dei familiari quanto degli operatori, viene a formarsi. In altri termini, psichiatri del mondo della vita.

Un mio paziente, un giorno, mi ha detto che si sentiva instabile, sospeso. Gli ho chiesto se si sentisse come in bilico su di una corda. Mi ha detto che non avevo capito niente. Non c’era nessuna corda. Nessuna persona che potesse andare in frantumi. Nessuna valle dove schiantarsi. E questo era terribilmente spaesante. Era smarrito perché non c’era più alcuna condizione che potesse consentirgli di ritrovare il cammino. Siamo anche noi smarriti in strade perdute? Non c’è più alcuna possibilità di ricostruire un cammino? Siamo anche noi “psichiatri istituzionalizzati”? Abbiamo, in altre parole, istituito un simulacro della clinica, sostituto della clinica stessa in quanto, nella frammentazione identitaria del nostro lavoro, non abbiamo altro che spezzoni di conoscenze – un po’ di farmacologia, un po’ di socio-assistenzialismo, un po’ di scale psicometriche. Non c’è una matrice metodologica che possa consentirci l’incontro con le esperienze di sofferenza umana che abbiamo di fronte. La psicopatologia, al contrario, ha provato a fornire un fondamento medico che potesse consentire l’incontro e la comprensione di queste forme. Ma, soprattutto, ha posto le condizioni per cui, incontrando dei vissuti e non dei simulacri, la libertà dell’esistenza umana potesse rivelarsi.

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1 commento

  1. gilbertodipetta

    caro Raffaele, sono contento
    caro Raffaele, sono contento che un giovane psichiatra con tanta precocità si accorga che la psichiatria attuale è senza psicopatologia. Ma siamo sicuri che c’è stato un momento in cui l’ha avuta? la psichiatria italiana mai. Le uniche due psichiatrie che hanno avuto una “sezione aurea” in cui psicopatologia e psichiatria si sono intersecate, sono state quella tedesca, essenzialmente coagulata intorno alla scuola di Heidelberg, e quella francese, tra Parigi e Marsiglia. Un’eccezione è stata la Scuola di Utrecht. E’ stata. Sono tre “rondini” che non hanno mai fatto primavera. il punto è che la psicopatologia deriva dalle scienze umane o storiche, la psichiatria dalla clinica medica. Alla psichiatria, in quanto clinica medica, è stato necessario sbarazzarsi del pendant “umanistico”, per rientrare a pieno titolo tra le discipline mediche, e rifarsi un’anima. Il bagaglio umanistico della psicopatologia avrebbe impedito l’ingresso nel pantheon della scienza. Dunque il bambino psicopatologico è stato gettato via con l’acqua sporca. fino all’avvento degli psicofarmaci, nella nebbia della follia, agli psicopatologi veniva dato un certo credito, poichè essi formulavano ipotesi chiarificatrici. In assenza di estintori, ogni cosa che aiutasse a “tagliare il fuoco” era bene accetta. Con l’avvento della psicofarmacologia, che, paradossalmente, avrebbe potuto aprire la strada al dialogo con l’insensato, che solo la psicopatologia può sostenere, gli psichiatri hanno preferito maneggiare gli estintori, anzichè riflettere sulle ragioni del fuoco. Sulle condizioni di possibilità del fuoco. Sulle vie di fuga del fuoco. Il fuoco della follia. L’articolo a cui tu ti richiami, di Janzarik, non a caso è degli anni Settanta. Ovvero dopo circa un ventennio di psicofarmaci, diveniva chiaro che la psicopatologia non serviva più. Non ci si sarebbe disfatti della psicopatologia se la psicopatologia fosse stata integrata. Il punto è che non è mai stata integrata. Pensa che Minkowski scrive, nella prefazione del suo “Trattato di Psicopatologia” (siamo negli anni Sessanta), che si augura che un giorno gli studenti di filosofia apprezzeranno ciò che egli scrive. Di fatto oggi gli studi migliori sugli psicopatologi sono quelli fatti dai filosofi. Masullo ha ripreso il patico di Straus, Griffero le atomosfere di Tellenbach e così via. Sembra che la psicopatologia sia stata un’episteme di passaggio tra una generazione di filosofi e l’altra. Tipo : Scheler e Heidegger portano a Tellenbach, e Tellenbach porta a Griffero e a Schmitz. Per ciò che concerne la funzione sociale dello psichiatra, credo che si giochi nell’articolazione tra follia e ragione,nel senso di Foucault. Quel senso che hanno colto, finora, solo Pinel e Basaglia. I quali sogno gli unici che utilizzano il termien “follia”, anzichè malattia mentale. La follia essendo qualcosa di non riducibile alla malattia mentale. Ora noi cosa possiamo fare? non lo so. Di certo per me è una gioia leggere il tuo scritto, perchè ciò significa che, come ho fatto io a suo tempo, ora ci sono giovani, come te e qualche altro, che avvertono una penosa insoddisfazione epr ciò che la psichiatria è. Semplicemente, proverei a ribaltare la questione che tu poni, e forse questo reintroduce la speranza. Ovvero : la psichiatria non si è liberata della psicopatologia. Essa non l’ha mai integrata. Non la ha ancora integrata. Ciò significa che può farlo. Detta così, per te e i tuoi colleghi, non si tratta di un’operazione nostalgica, ovvero di recuperare il perduto, ma di una operazione avveniristica, cioè cercare di riarticolare il discorso della psichiatria contemporanea in chiave psicopatologica. In una chiave non ancora utilizzata. Per me, sentire che ci sono persone come te, significa sentire anche me stesso un pò appartenere al futuro, e non rappresentarmi solo come il cavaliere solitario di una idealità perduta, o l’epigono di una tradizione scomparsa. ti abbraccio.

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