Credo che molti conoscano la storia raccontata nel romanzo breve di Joseph Conrad, “The Duel, A Military Tale”, scritto nel 1907 durante un soggiorno dell’autore nel sud della Francia, a Montpellier. In tanti, anche grazie ai numerosi passaggi televisivi, hanno visto — e penso ammirato — lo splendido film d’esordio di Ridley Scott, “I Duellanti”, ispirato in modo sorprendentemente fedele al testo, dal quale si discosta solo nel finale, come vedremo.
La critica ha sempre considerato questo racconto come un’opera minore del genio anglo-polacco, lontana dagli abissi di “Lord Jim”, “Cuore di tenebra” o “La linea d’ombra”. Eppure, nella sua apparente levità — che io trovo magistrale — il testo merita non solo un’attenzione letteraria, ma anche una riflessione di natura psicoterapica. È per questo che ho scelto di proporlo ai lettori di Psychiatry Online Italia, come invito alla lettura e alla riscoperta.
La storia, ispirata a un episodio reale scoperto casualmente da Conrad leggendo un giornale, narra di un duello durato quindici anni tra due ufficiali napoleonici. I due attraversano l’intera parabola dell’avventura militare di Napoleone, iniziando a sfidarsi a Strasburgo e continuando a farlo in ogni occasione possibile, pur avanzando nella loro carriera. Nonostante ciò, non rinunciano mai a combattere, senza che vi sia una vera “ragione” per farlo. Il conflitto cruento diventa per entrambi una sorta di ragione di vita, pur nella profonda differenza dei caratteri: aristocratico e compassato D’Hubert, irrefrenabile e cocciuto Feraud, accomunati da un destino militare e personale che li lega indissolubilmente. Sullo sfondo, la storia dell’Impero, dalla sua ascesa alla sua rovinosa caduta.
Nonostante la critica lo collochi tra le opere minori di Conrad, sottolineando come il racconto “pecchi” in profondità e significato simbolico rispetto ai romanzi maggiori, io trovo che la libertà di scrittura che Conrad si è concesso nell’inverno del 1907 — una scrittura di getto, molto diversa dal suo consueto lavoro meticoloso — ci abbia regalato un piccolo capolavoro. Un testo che merita l’attenzione, in particolare, di chi si occupa di salute mentale.
Fiumi d’inchiostro sono stati versati per commenti e interpretazioni psicoanalitiche dei romanzi di Conrad, che si prestano molto bene ad approfondimenti di questo tipo. Come scrive Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera (23 settembre 2002): «Conrad pubblicò per la prima volta in volume Cuore di tenebra, presso l’editore Blackwood, nel 1902. In realtà, il romanzo era già apparso a puntate, in rivista, nel 1898. In quegli stessi anni — uscì, senza calorose accoglienze, nel 1899 — Freud scriveva l’Interpretazione dei sogni. È difficile immaginare che i due si conoscessero. Certo è che la coincidenza non è affatto casuale: se è vero che le idee profonde circolano come fiumi carsici nelle viscere della terra e — simili alle ninfe dell’antichità, trasformate in sorgenti che s’inabissano — riemergono, magari contemporaneamente, a Londra e a Vienna».
Anche “I Duellanti”, a mio parere, non si sottrae a questa carsicità. Anzi, offre una lettura — ancorché involontaria, but who does care of it? — di assoluta impronta psicoterapica. Sotto le mentite spoglie di una faida personale assurda, intrisa di onore, aggressività e accettazione ineluttabile, si cela la teatralizzazione del conflitto nevrotico, della coazione a ripetere, e la chiave di soluzione dello stesso, con una mirabile aggiunta che definirei “tecnica” nel suo bellissimo finale.
Cosa rappresenta, infatti, questo infinito duello tra D’Hubert e Feraud se non il conflitto tra l’emergere delle pulsioni inconsce e il tentativo frustrato dell’Io di incanalarle verso qualcosa di meno distruttivo o insensato del sintomo? Feraud è l’Es, D’Hubert è l’Io, incapace di costruire difese adeguate perché affascinato e legato alle sue pulsioni, che gli impediscono di crescere fino al drammatico e catartico epilogo.
Come in un ritorno del rimosso, Feraud ricompare — intatto nella sua cieca ferocia — nella vita apparentemente rasserenata di Armand D’Hubert, costringendolo, o meglio spingendolo, a ricominciare come se nulla fosse cambiato in quindici anni. Nell’ultimo duello, i due si rincorrono tra le rovine di un castello con due pistole in mano. Feraud sbaglia entrambi i colpi a sua disposizione e si ritrova davanti a D’Hubert, le cui pistole sono ancora cariche.
Ecco il passo del testo:
“Il Generale D’Hubert abbassò con cura il cane delle pistole. L’operazione fu osservata dall’altro generale con sentimenti contrastanti.
‘Mi hai mancato due volte – disse freddamente il vincitore – l’ultima da quasi mezzo metro. Stando alle regole dei duelli, la tua vita mi appartiene. Questo non significa che voglia togliertela ora.’
‘Non so che farmene della tua indulgenza’ – boffonchiò cupo il generale Feraud.
‘Permettimi di farti notare che la cosa mi lascia affatto indifferente – disse il generale D’Hubert. (…) – Non avrai la pretesa di dettarmi cosa devo fare di ciò che è mio.’
Il generale Feraud parve stupito e l’altro riprese: ‘Mi hai costretto per un punto d’onore a tenere la mia vita a tua disposizione, diciamo così, per quindici anni. Benissimo. Ora che la questione si è risolta in mio favore, io farò della tua quanto mi pare e piace, in base allo stesso principio. La terrai a mia disposizione finché ne avrò voglia. Né più né meno. Ritieniti vincolato sul tuo onore fino a nuovo ordine. (…) Non posso certo stare a discutere con uno che, per quanto mi riguarda, ha cessato di esistere.’”
Conrad reifica nel racconto la risoluzione del conflitto interiore, che può avvenire solo se l’Io — e, aggiungo, il terapeuta — riesce a parlare alle pulsioni con il loro linguaggio, un linguaggio che non può essere tradotto per essere compreso, ma solo agito per divenire efficace. Ridley Scott sceglie di chiudere la storia qui, con un gesto di sospensione e dominio. Conrad, invece, va oltre e inserisce nel finale il concetto di integrazione, che sola può garantire una vita equilibrata.
Riconoscere le nostre parti bambine e bisognose come pezzi della nostra storia — come radici che ci hanno portato a essere ciò che siamo — è il cuore del magnifico epilogo, che riporto qui, perché più che una recensione, questo mio scritto è un caldo invito alla lettura di un racconto che, forse, troppo pochi conoscono.
«Se uno dei nomi del vostro bambino fosse stato Napoleone, o Giuseppe, o anche Gioacchino, avrei potuto congratularmi con te per il lieto evento con più cuore. Siccome hai stimato bene di dargli i nomi di Charles, Henri, Armand, io rimango confermato nella mia convinzione che tu non hai mai amato l’Imperatore.
Il pensiero di quel sublime eroe incatenato a una roccia nel mezzo dell’Oceano selvaggio rende per me la vita così scarsa di valore che con vera gioia riceverei il tuo ordine di bruciarmi le cervella.
Il suicidio, ritengo, mi è vietato dall’onore. Ma tengo la pistola carica nel cassetto.»
Madame la Générale D’Hubert alzò le mani al cielo disperata, dopo la lettura di quella risposta: «Vedi? Non vorrà mai riconciliarsi» – disse il marito – «Bisogna che mai, a nessun costo, riesca a sapere da chi gli arriva il danaro. Sarebbe terribile. Non reggerebbe.» «Sei un brave homme, Armand» – disse Madame la Générale, con ammirazione. «Mia cara, io avevo il diritto di bruciargli le cervella; ma non avendolo fatto, non possiamo lasciarlo morire di fame. Ha perduto la pensione ed è assolutamente incapace di qualsiasi cosa al mondo per se stesso. Dobbiamo prenderci cura di lui, in segreto, sino alla fine dei suoi giorni. Non devo forse a lui il momento più estasiato della mia vita? … Senza la sua stupida ferocia, mi sarebbero occorsi degli anni per scoprirti. È straordinario come quell’uomo, in un modo o nell’altro, è riuscito a legarsi ai miei sentimenti più profondi.»
Conrad chiude così il racconto con una nota di compassione e riconoscimento, dove la pulsione distruttiva — incarnata da Feraud — non viene né negata né annientata, ma accolta e integrata come parte della storia affettiva e identitaria di D’Hubert. Il nemico diventa custode involontario di un amore, di una scoperta, di una trasformazione. E il gesto finale — prendersi cura di lui in segreto — è la sublimazione più alta: non la vendetta, non la rimozione, ma la responsabilità silenziosa verso ciò che ci ha ferito e, paradossalmente, reso interi.
Questo racconto, che troppo pochi conoscono, è un piccolo capolavoro di psicologia narrativa. Non solo un duello tra uomini, ma tra istanze psichiche, tra linguaggi, tra destini. E per chi si occupa di salute mentale, è una lettura che parla direttamente al cuore del nostro lavoro: riconoscere, integrare, trasformare.
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