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Onora il padre e la madre (Before the Devil Knows You’re Dead — 2007 Sidney Lumet)

2 Ott 12

Di Davide-Ferraris

copyrights 2008 POLit

Questa recensione è stata scritta in ritardo rispetto ai tempi di uscita nei Cinematografi, e quando la leggerete il film probabilmente sarà già sparito dalle sale di proiezione.
Iniziamo proprio dal titolo, e da una breve polemica: l’originale "Before the devil knows you’re dead" è stato "tradotto" in "Onora il Padre e la Madre".
Ora, non siamo certo dalle parti dello scempio ("Eternal Sunshine of the Spotless Mind" che diventa "Se mi lasci, ti cancello" resta cult…) ma si tratta comunque di tradire l’ambiguità e l’ironia ghignante del titolo originale con un austero, lapidario e poco fraintendibile quarto comandamento.
Come se, appunto, l’ambiguità (valore fondamentale nell’arte, porta d'ingresso alla pluralità di interpretazioni e di analisi) dovesse esser per forza normalizzata, perché un messaggio sia accolto favorevolmente dal pubblico.
Sembra indispensabile rendere tutto evidente, didascalico, precotto.
Inoltre, considerando la scelta del titolo che si attribuisce ad un’opera un indispensabile momento di sintesi, che raccoglie e in alcuni casi (come questo) addirittura allarga l’orizzonte di letture di un’opera d’arte (di qualunque tipo, non si parla solo di Cinema…), direi che il vizio tutto italico (ma anche spagnolo, francese e tedesco) di cambiare il titolo ai film in uscita, oltre che di doppiarli (altra bestemmia) non rappresenta certo un esempio di rispetto (da parte dei distributori) e di educazione (nei confronti degli spettatori) verso l’arte cinematografica.
Ora, proprio del titolo desideravo parlare: "May you be in heaven half an hour, before the devil knows you’re dead".

Sarebbe un augurio (di provenienza irlandese) che si usa fare ai criminali di mezza tacca, troppo cattivi per andare in Paradiso, ma al contempo poco memorabili nella loro cattiveria perché il Diavolo si "ricordi" di loro.
Applicato al contesto del film in questione, questo potrebbe essere inteso in maniera duplice:
– May you be in heaven half an hour… ti auguro una mezz’ora di illusioneprima che i tuoi ideali, i tuoi sogni, le tue aspettative si sfaldino come neve al sole, immersi nella banalità del reale e nella fallibilità dell’agire umano (nella vita terrena). 
– …before the devil knows you’re dead non conti nulla, quindi pure il diavolo impiegherà un po’ di tempo prima di ricordarsi di te (nell’aldilà).

Inizia con una sequenza decisamente spinta l’ennesima fatica di Sidney Lumet (84 anni, più di quaranta titoli per il cinema, più altro materiale girato per la televisione…), ed ha tutta l’apparenza di una dichiarazione programmatica.
Come a dire: ora vi faccio vedere io, altro che vecchio e tramontato….
La partenza bruciante infatti non viene tradita, e l’anziano ma lucidissimo regista mette in scena un film secco e calibratissimo, tra le sue migliori prove.
Mi ripeto, per fare una cosa del genere si deve essere ancora molto, ma molto lucidi.
E soprattutto entusiasti.
Della vita e del Cinema.

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L’impianto del narrato potrebbe essere quello di un noir, del tipo "rapina andata male", sul quale si innestano elementi tragici.
Volendo ridurre la trama al massimo, si potrebbe scrivere:
Andy ed Hank sono fratelli, entrambi con problemi legati al denaro.
Andy (il primogenito della famiglia Hanson) ha un matrimonio in crisi con Gina e sogna di poter tornare con lei a Rio de Janeiro, dove in vacanza avevano (apparentemente) ritrovato il fuoco della passione.
Hank è divorziato, con una figlia affidata all’ex- moglie, alla quale deve un sacco di soldi per gli alimenti.
Andy coinvolge Hank in un losco affare: si tratterebbe di rapinare la gioielleria dei genitori, Nanette e Charles Hanson, situata in periferia.
Un furtarello semplice, fatto conoscendo il posto, senza feriti, e sapendo che l’assicurazione risarcirà i genitori.
Un piano perfetto.
Infatti fallirà clamorosamente, e la cosa minerà la stabilità di tutta la famiglia, portando a galla vecchie ruggini…

La cosa che più colpisce di quest’opera è la fusione tra uno stile visivo e di messa in scena assolutamente classico, quasi retrò, con una narrazione fatta di continui flashback e salti temporali, materia tipica dell’attuale "cinema postmoderno" che da "Pulp Fiction" in poi ha riportato in auge l’utilizzo della narrazione spezzata.
Giustamente Valerio Caprara sul "Mattino" scrive: "… la qualità del film va quindi ricercata nella raggiunta fusione di uno stile classico, appunto lumettiano, con l'andatura nevrotica tipica del cinema contemporaneo, adeguata a una visione del mondo disillusa, rabbiosa e nichilistica…".

Veniamo quindi al sodo: qual’era la necessità espressiva di adottare uno stile narrativo di questo tipo?
Si tratta di un semplice adeguamento ai tempi da parte di un regista vecchio?
Oppure costituisce un semplice espediente per mantenere desta l’attenzione di uno spettatore sempre più facile alla noia?
Secondo Paolo Mereghetti tutto questo consiste in "…una trovata di sceneggiatura come ne abbiamo viste molte ma a cui lo scrittore Kelly Masterson affida un compito meno scolastico e più complesso: illustrare non tanto i meccanismi della storia e gli intoppi che la fanno deragliare ma piuttosto svelare l' abiezione e la pochezza dei vari personaggi. In questo modo la tragedia non nasce dal susseguirsi degli eventi, coinvolgendo lo spettatore in un meccanismo narrativo incalzante, ma piuttosto dalla scoperta dell' inumanità dei vari personaggi, delle loro debolezze e piccolezze" (dal "Corriere della Sera").
Analisi acuta, alla quale però sento di dover aggiungere una parte.
La destrutturazione temporale del narrato non serve certo a rinfocolare l’attenzione del pubblico (se così fosse Lumet avrebbe potuto utilizzare senz’altro uno stile più rapido e videoclipparo) ma a rendere una strana struttura a loop, una storia che si "incarta" e ritorna continuamente indietro, come un giradischi che si incanta, come se chi la stesse narrando non ne riuscisse a descrivere gli sviluppi.
E’ ossessione pura.
Ecco la dinamica che regge buona parte della pellicola: l’ossessione.
La narrazione che continuamente si riavvolge pare avanzare ma poi ritorna, cerca di analizzare meglio personaggi, azioni e reazioni (magari ritornando due volte sulla medesima scena ripresa da un diverso punto di vista) ma si riavvolge di nuovo per poi ripartire.
Come un pensiero ossessivo, come una rimuginazione continua su un passato che ormai non può più cambiare.
Come un senso di colpa che non ne vuol sapere di lasciarci in pace.
Rende quindi l’incapacità nostra e dei personaggi di accettare il fatto che ciò che è avvenuto il giorno della rapina è ormai irreparabile, e l’unica cosa che ci aspetta è osservarne i matematici sviluppi.
Non è un caso che le didascalie utilizzino "il giorno della rapina" come continuo punto di riferimento: è ovviamente questo il fulcro di ogni rimpianto, e l’origine di ogni male descritto.
Il film continua a riavviarsi in modo apparentemente casuale, disorientandoci un poco, per un’ora e mezza buona.
Poi finalmente si sblocca, e lo fa precisamente nel momento in cui i vari personaggi imboccano una strada senza ritorno.
Da qui, gli eventi assumono la tragica fisionomia dell’ineluttabilità.
Charles viene a sapere dal ricettatore (suo antico principale e maestro) che è stato Andy ad ideare la fatale rapina: la successiva vendetta sarà inevitabile, quasi meccanica. 
Andy viene a sapere che Hank è stato ricattato: non può evitare un ultimo disperato tentativo di "salvare il salvabile".
Tutto quello che ne consegue è fisica pura.
Inutile rimuginare ancora: Lumet ha impiegato tre quarti di film per aumentare l’energia potenziale.
Ora si tratta solo di sedersi comodi ed osservarla mentre si trasforma in energia cinetica.

Proviamo ad analizzare i quattro personaggi principali della vicenda.

Andy (un Philip Seymour Hoffman sempre più bravo) è il figlio primogenito della famiglia Hanson, tanto retto e realizzato nella vita all’apparenza (è un agiato agente immobiliare), quanto disordinato e frustrato nel profondo ("Vedi… il bello della contabilità immobiliare è che puoi aggiungere cifre in mezzo alla pagina e in mezzo alla pagina, e i conti tornano… la mia vita, invece, quella non torna… io non sono la somma delle mie parti" confessa a un indifferente pusher che vede solo su appuntamento, e che non sa far altro che rispondergli lapidario: "Trovati una moglie e uno psichiatra…").
Ha imparato a controllare le sue pulsioni, frenato fin da piccolo da un padre severo che non ha mai amato ("se doveva ammazzare qualcuno, perché non ha ammazzato lui…" si lascia sfuggire, riferendosi alla rapina che è costata la vita all’amata madre Nanette) e da un nucleo familiare di cui non si è mai sentito realmente parte ("siete così belli… sei sicuro che sono tuo figlio?" dice al padre Charles).
Ha sempre dovuto tamponare le bravate del fratello più piccolo, Hank, ma non si è mai sentito protetto a sua volta da nessuno quando ad essere in difficoltà era lui.
Cerca di aiutare Hank, ma sottilmente lo invidia ("Hai sempre apprezzato di più Hank, anche se era molto più stronzo di me", ancora rivolto al padre).
Sfoga le sue malcelate pulsioni con attività illegali fatte di nascosto: una volta alla settimana si reca da uno spacciatore che gli inietta una dose di eroina, ma flirta anche pericolosamente con la cocaina.
Pare inoltre che abbia truccato alcuni bilanci all’interno dell’agenzia immobiliare.
E’ormai distante dalla moglie Gina, pur giurandole "sei tutto quello che voglio dalla vita": infatti ad inizio film Andy si guarda allo specchio durante l’amplesso, e pare ormai chiuso in un’arida autoreferenzialità, cosa peraltro confermata dal freddo dialogo che i due avranno poco dopo.
Lo stato di apparente calma e razionalità di cui si riveste in superficie crollerà a poco a poco durante il corso degli eventi, fino ad esplodere con Gina in auto, dopo il confronto avuto col padre.
Non riesce neppure ad arrabbiarsi quando Gina le rivela di tradirlo da anni con Hank: si limita, appena la moglie se n’è andata, a buttare all’aria qualche oggetto della casa, ma flemmaticamente, quasi trattenendosi.
E quando arriverà a rovesciare sul tavolo le pietre contenute nel vaso, di nuovo lentamente (grande momento di recitazione, quasi sicuramente frutto dell’improvvisazione), comprendiamo la sua grande sofferenza: le pietre cadono una ad una.
Quasi uno stillicidio, un cavarsi il sangue goccia a goccia.
Quando si tratterà di regolare i conti, diverrà furioso, e manifesterà tutto l’astio incamerato verso il mondo intero, uccidendo tre persone e arrivando molto vicino ad far fuori anche il fratello, quest’ultimo salvato in extremis dalla moglie di Bobby.
Indicativo è il fatto che il primo colpo di pistola parta ai danni di un ciccione coricato sul letto dello spacciatore in pieno "high" dopo la dose: il gesto è completamente gratuito.
In quel grasso consumatore di eroina Andy vede sé stesso, e non può sopportarlo.
Ha ormai perso il controllo, infatti questo omicidio sarà per lui come aprire un rubinetto.
Le altre uccisioni saranno una reazione a cascata.
Quando vedrà il padre vicino al suo letto d’ospedale, sembrerà un bambino mentre confessa una marachella.
Cinicamente, ed in piena coerenza con il tono dell’intera opera, finirà per pagare lui l’ennesima sciocchezza commessa da Hank.

Hank (Ethan Hawke) è il piccolo di famiglia Hanson.
Poco capace di badare a sé stesso e poco responsabile verso l’ex- moglie e la figlia (ma anche verso il fratello, dal momento che ha condotto per anni una storia extraconiugale con Gina), si potrebbe dire che è l’esatto contrario di Andy: eccessivamente emotivo e fragile, non percepisce però il peso degli eventi al pari del fratello, ed ha la tendenza a cercare sempre una protezione esterna (emblematico è il momento in cui, appena terminati i funerali della madre e fuggito dal ricevimento dei parenti dopo la cerimonia funebre — "non posso fare questa sceneggiata", dice lui- non saprà far altro che chiamare Gina).
Non si assume nessuna responsabilità per la disgrazia (che ha effettivamente causato lui, con la goffa idea di chiamare una terza persona a compiera la rapina perché "non pensavo di potercela fare da solo"), anzi, pare addossare ad Andy la colpa di averlo tirato in ballo alla losca faccenda ("Vaffanculo, Andy!" urla fuori di sé appena la rapina va storta: peccato che in auto sia solo…).
Ammira Hank, non si sente alla sua altezza e il fatto che abbia una storia con Gina potrebbe non essere così casuale.
Non ha progetti, al contrario di Andy.
Infine la sua profonda debolezza ed immaturità lo porteranno a cercare la morte come possibile soluzione (quando accarezzerà l’idea di ingurgitare tutto il flacone di sonnifero, e quando Andy gli punterà in faccia la pistola: "… avanti, fallo… spara… mi faresti un favore…").

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Charles (Albert Finney) è il padre di famiglia.
Nel momento in cui la moglie muore, si trova solo per una ragione tanto stupida da risultare inaccettabile ("…cosa ci faceva lì quel teppista, ha appeso una piantina di New York al muro e ha tirato una freccetta?").
Trovare il colpevole di tutto questo diverrà da quel momento in avanti l’unica ragione della sua vita.
E anche l’ultima, visto che ormai della gioielleria non può più importagliene nulla ("Dovremmo bruciarlo, quel maledetto posto").
Il fatto di rimanere vedovo lo priva dell’unica compagnia per affrontare la morte.
Nel momento in cui crolla tutto, però, sente anche il bisogno di riacquistare Andy, il figlio a cui sente di non aver saputo dare l’affetto che desiderava.
Pare che il suo legame col primogenito sia costituito dal solo senso di colpa: infatti una volta
scoperto che é Andy il colpevole, compensato in qualche modo tale senso di colpa, lo ucciderà.
Non lo raffigurerei come Saturno che divora i propri figli: Andy non è mai stato suo figlio.
Non lo ha mai percepito come tale.
Quindi lo potrà anche uccidere, a sangue freddo: e lo farà con assoluta calma.
Troppa calma per pensare ad un omicidio consumato d’impulso (come quelli di Andy, per intenderci). 
Prima pregusterà l’attimo staccando il monitor dell’elettrocardiogramma, poi soffocherà il figlio con un cuscino: tutto questo senza esitazioni o ripensamenti.
Anzi, addirittura con l’inganno risponderà "Sta’ tranquillo, Andy…" al figlio che ha appena confessato le sue colpe.

Gina (Marisa Tomei, mortificata da un doppiaggio che le assegna una fastidiosissima voce da fatalona) è donna debole e vagamente depressa.
Rimane spesso in casa, e il matrimonio fallimentare con Andy l’ha privata completamente di autostima.
Autostima che ricercherà nella storia extraconiugale con Hank, non sentendosi considerata dal marito ("sono negata in cucina, a letto faccio pena, non so perché dovresti tenermi" dice ad Andy dopo l’ennesima defaillance a letto).
E’ oramai estranea al marito, che non le confida più nulla della sua vita e del quale non comprende più i comportamenti (quando Andy si sfoga in auto lei non sa far altro che guardare fuori dal finestrino e continuare a ripetere: "Andy… Andy…" senza aggiungere nulla a questo mantra).
Quando lascerà il marito, cercherà il colpo di coda confessandogli di avere una storia con Hank.
Il silenzio freddo e commiserevole che Andy le offrirà come risposta sarà per lei insopportabile ("Non mi dici niente, non ti arrabbi neanche?…").

Proviamo ora ad analizzare il cosiddetto "specifico filmico".
Abbiamo una perfetta direzione degli attori – tipico di Lumet- e una grammatica visiva ridotta all’osso, costituita perlopiù da inquadrature fisse, da campo-controcampo e panoramiche.
movimenti di macchina si contano sulle dita di una mano, ridotti come sono a due o tre dolly (guarda caso utilizzati nel momento cruciale del film, ossia il funerale di Nanette Hanson), mentre caratteristico (ed appunto retrò) è l’utilizzo in due occasioni dello zoom ottico, ora come ora reperto archeologico del Cinema e strumento che non viene quasi più usato, se non per ottenere un effetto "vecchiume" (vedi l’ultimo Tarantino e lo strepitoso "Munich" di Steven Spielberg).
La fotografia plumbea e gelida vede un prevalere dei colori azzurro e soprattutto grigio, determinando nello spettatore un senso di squallore e di aridità esistenziale (ben reso anche dall’ambientazione "periferica" della vicenda, visto che l’unico grattacielo di New York che viene inquadrato é quello in cui ha residenza lo spacciatore di Andy…).
Per quanto riguardo il montaggio, esso si caratterizza per una lentezza "classica" (non è certo il montaggio ipercinetico a cui l’attuale cinema-videogame ci ha abituati…), e segue per l’appunto le necessità di uno stile narrativo "spezzato" con un espediente piuttosto interessante, che mi ha riportato alla mente per somiglianza tecnica "Easy Rider" di Dennis Hopper: i continui salti temporali sono cuciti insieme con un fermo-immagine dell’ultima inquadratura che si alterna rapidamente al fermo-immagine della prima inquadratura della scena seguente, venendo a creare una sorta di "effetto sfarfallamento".
Veniamo ora alla colonna sonora: essa è costituita quasi nella sua interezza da un unico tema, ripreso più volte, con alcune variazioni.
Anche questo è un elemento che depone a favore di una visione "ossessiva": è un tema musicale breve (una ventina di battute in un quattro quarti, se non vado errando…) iniziato da un pianoforte che delinea una linea di basso grave e funerea, sulla quale si innesta rapida un’arpa a suonare la melodia principale, accompagnata e poi sostuita in questa funzione dagli archi.
Trama sonora lineare e semplice, fredda, cupa, che conserva un che di austero, quasi l’altezzosità regale di chi ci sta mostrando con assoluto distacco che i vari eventi narrati nel film sono universali, propri di ogni misera vita umana (di nuovo Mereghetti: "Onora il padre e la madre è la tragedia della mediocrità e della immoralità, il ritratto senza speranza di un mondo che ha perso ogni possibile dignità").
Un’ultima suggestione: il tema in questione mi ha ricordato, più per somiglianza funzionale che non per una reale affinità melodica, la famosa "Promenade" di Modest Mussorgskij all’interno dei "Quadri di una esposizione".

"Il mondo è un luogo malvagio; alcuni sanno sfruttarlo e ci guadagnano, altri ne sono distrutti" (il Ricettatore, rivolto a Charles Hanson)

Direi che questo film può tranquillamente inserirsi all’interno di un filone (attualmente molto florido) di pellicole nichiliste, paurosamente impietose verso la condizione umana e ancora più paurosamente distanti da qualunque consolazione o supporto divini (se anche Dio esistesse, sicuramente non perderebbe il suo tempo con noi…) e potrei avvicinarlo ad altri titoli usciti tra fine 2007 ed inizio 2008: "Non è un paese per vecchi", "Il Petroliere", "La promessa dell’assassino", "Sogni e Delitti", "Sweeney Todd", e (chi se lo aspetterebbe in questa lista) il rabbioso "John Rambo" del redivivo Stallone.

 

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