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Ovunque sei. In quanti sogni viviamo?

3 Ott 12

Di Giuseppe-Riefolo

"l’adattamento è una ridotta capacità di amare"

(Gaburri Ambrosiano, 2003)

Il film.

Una giovane coppia sta consumando le ultime energie di un amore che dura da anni. Hanno una bambina, una bella casa. Matteo, lavora sulle ambulanze, Emma, è un chirurgo. Entrambi esercitano nello stesso ospedale. Una notte Matteo è di turno in ambulanza: il servizio è duro, appena alleviato dalla forte attrazione che prova per Elena, una giovane volontaria che fa esperienza di pronto soccorso e che somiglia molto alla moglie da giovane, Emma cede alle avances di un suo collega, Leonardo. Un incidente sconvolgerà definitivamente gli equilibri tra le coppie. Matteo muore. Emma dal canto suo si lascia consumare dal dolore e, nelle sembianze di Elena, riesce a superare tale perdita solo rivivendo, nei ricordi, la nascita della sua storia d'amore con Matteo. Lentamente si riavvicina a Leonardo il quale ora può essere accolto nella piccola famiglia con Emma, la bambina e il cane Spina..

La "visione"

Verso la metà del film ho cominciato a pensare che il film mi riguardava. Mi riguardava a vari livelli: per i pazienti che quotidianamente mi consegnano la loro vita e prendono parte della mia; per il lavoro al servizio, per la mia vita, per la passione che quando mi sostiene riesce a rendermi lieve la fatica.
Il film a quel punto mi stava parlando di quello che succede quando improvvisamente ti viene a mancare bruscamente quella parte del mondo che ti appartiene intimamente e che gli analisti chiamano "Oggetto-Sé". Il film diceva anche che nessuna mente è preparata a perdere improvvisamente un pezzo di sé e che forse la mente stessa è nata per curare questi strappi. Nel film questa cura erano i ricordi levigati dal sogno.

A Emma, improvvisamente viene strappato l’oggetto che la fa vivere. Ciò che veramente ti tiene in vita non è quello a cui presenti i doni e l’amore, ma è quello che è dietro tutto questo. Ovvero è quello che ti permette persino di tradirlo, perché il suo amore non è in discussione (si tratta dell’amore? o è la sua esistenza, impregnata di reciprocità, che riesce in ogni istante a farti sentire vivo?): "O sciocco, non si tradisce che il compagno" (Pavese, 1947, 54). Io so bene che si amano solo gli oggetti, non le cose. Gli analisti sanno che il trauma è la sospensione del processo delle immagini, di quelle che usiamo per lavare e rivestire continuamente gli oggetti dalla loro concretezza (Winnicott, 1959, 174). Freud le trovava come "zone psichiche morte" (1934-38), ma erano i tempi in cui la psicoanalisi doveva cercare le cause, mentre da un po’ agli analisti e ai loro pazienti interessa solo muovere due "menti emozionate" (Gaburri, Ambrosiano) verso la trasformazione continua della quiete ferma del proprio stato mentale che l’incontro con un’altra mente emozionata o impaurita (Bion) agita e costringe a nuovi, e continuamente instabili, assetti. Per questo Emma comincia a sognare.

Il film fino a quel punto si trascinava secondo linee contorte e scontate. Forse, accade proprio questo quando la vita procede scontata e prevedibile finché non usiamo la leggerezza dei sogni? In TV, la sera prima avevo visto la pubblicità di un cartone sulla storia di Giuseppe in Egitto: quel sogno, tuttosommato gli salva la vita salvando la vita degli altri. Quando i sogni funzionano sono la perfetta rappresentazione della tesi bioniana della relazione simbiotica tra due menti. Ma i sogni, dice il film, ci vengono soprattutto come una necessità: è l’unica possibilità che abbiamo per ritrovare una madre quando questa dovrà assentarsi. Per questo impariamo a chiamare lecose col nome degli oggetti; ma gli oggetti, per fortuna, cambiano continuamente assorbendo la nostra vita e quella che gli altri ci prestano e noi ne rincorriamo all’infinito la stabilità insatura. Altra cosa è quando l’oggetto ti viene tolto. Gli analisti sanno bene che la mente non è preparata alla guerra; e non è preparata neanche alla miseria (quella degli affetti). Con i miei pazienti continuo a verificare che la mente non è neanche preparata alla sgradevolezza quando questa è eccessiva. I conflitti sì! Quelli vanno bene… ci fanno vivere, ma la guerra è una cosa che gli uomini all’inizio hanno inventato per vivere, per guardare in faccia il loro avversario finché l’avversario scompare ed allora è come per Emma, muoiono le tue immagini e devi andare a cercare quello che ti è stato tolto.

Facevo fatica a lasciarmi prendere dal corso e dalla storia del film. Una sottile vena di irritazione per una storia troppo costruita e pensata che, nei passi migliori sembrava aver malamente preso ispirazione da qualche film di alcuni anni fa, meglio riuscito. E’ il mio limite che curo con attenzione ed evito di risolvere: non riesco a seguire le storie dei film perché continuamente la mia attenzione viene provata da immagini mie che, non autorizzate, si insinuano nello schermo e, però, mi permettono di rimanere sveglio. Infatti, puntuale, ad un certo punto, sulle peregrinazioni di Matteo ho cominciato a trovare il fantasma che da alcuni mesi Carlo sta inseguendo. Non si tratta di amore, ma di quello che gli analisti chiamano "oggetti". In fondo è la stessa cosa dell’amore! Carlo mi dice che da alcuni mesi sua moglie Marta è cambiata: è cambiata per lui… per come lui la sente… per l’uso che lui ne fa! Mi dice: "è come se non fosse più puntuale agli appuntamenti con me… c’è troppo bisogno di spiegarsi con le parole… un tempo era diverso. Sente che lei parla di "essere vecchi" e per questo lui non la riconosce più. Non sa più dove poterla immaginare. Una specie di perdita profonda, come Matteo che muore proprio mentre Emma sta con un altro: non saprai mai se Matteo l’avevi già fatto morire prima che l’ambulanza cadesse nel fiume. Ho pensato all’ultimo capitolo di Kaos dei fratelli Taviani, quando Pirandello, per uscire dalla depressione, deve concretamente recarsi nel luogo della perdita e rendersi conto che la madre non poteva più essere immaginata in quella casa di Agrigento. Il luogo da immaginare ora contemplava un vuoto: "prima io sapevo sempre che tu eri qui, anche se non ti incontravo mai. Ma adesso non posso più immaginarti qui!" Ancora il blocco del dispositivo delle immagini, forse proprio quello che gli analisti chiamano la funzione alfa. Carlo si è meravigliato qualche giorno fa scoprendo sua moglie mentre si fermava a godere della vista di una bella moto: "come se non fossi più pronto a vederla entusiasta". Io ho pensato ad un’affermazione di Kohut (1984) per il quale una coppia si mantiene finché uno dei due funzioni come Oggetto-Sé per l’altro. Ho pensato anche che attraverso Marta lui stesse descrivendo la sua capacità di riprendere ad entusiasmarsi, a smetterla di sentirsi spento solo perché quando ha perso il padre ha scoperto che non era affatto vero che non aveva mai avuto bisogno di lui. Come per la madre di Pirandello, o per Emma che perde improvvisamente Matteo, Carlo sta attraversando i luoghi di Marta alla ricerca della capacità di entusiasmarsi ancora alla vita, perché lei è morta, ma lei è anche viva. Non so quanto Marta realmente appartenga alla zona del padre che improvvisamente ti lascia, mancando agli appuntamenti consueti, ma sicuramente – come nel film – Marta per Carlo si ricompone nei sogni. "ho sognato che parcheggiavo la mia moto in un posato dove c’era un gruppo di mafiosi. Io volevo tornare indietro, ma uno di loro mi stacca il sellone dalla moto. Mi è subito venuto in mente – mi dice – una volta in cui da ragazzo ero riuscito finalmente a fare un giro in moto con una ragazza di cui ero molto innamorato". Da qualche tempo quel blocco sembra ricomporsi e nell’analisi ricompare il movimento e la tensione d’amore. Mi parla di un altro sogno che ha il sapore delle ultime scene del film: "una donna giovane che camminava come se scivolasse. Io sentivo che era bella, ma non riuscivo a raggiungerla. Avevo la sensazione che lei sapesse che io non sarei riuscito a prenderla!". Anche qui un’associazione che riporta alle cure: "ho pensato subito a M.me Chauchat della Montagna Incantata… Tomas Mann la descrive esattamente così…"

Emma nel film insegue Matteo che la precede sempre di un soffio, la distanza dei ricordi quando diventano immagini e Matteo sembra accompagnarla verso la possibilità di riprendere ad amare, proprio quel nuovo amore che nel momento del cambiamento era stato un tradimento troppo grave ed era stato la morte. Sicuramente questo pensiero non appartiene al film, ma ho pensato che per questo Leonardo è un personaggio così antipatico e goffo: il traditore che contribuisce e si insinua nel luogo del lutto. Ho pensato a Carlo e alle situazioni che nella vita ci impongono la necessità di cambiare e ci procurano fatica e dolore. In queste situazioni i contesti esterni e quelli interni sono nati insieme. E’ una specie di consapevolezza di Sé (alcuni analisti la chiamano "Senso del Sé" e la suddividono in una serie di sottoclassi), quando il corpo e la mente, sempre indissolubili, possono rappresentarsi nella stessa funzione ed è sempre il corpo ad imporre il cambiamento: "…gli avvenne per la prima volta di sentirsi troppo vecchio per un’impresa. Dall’età dell’adolescenza quel concetto quasi impersonale degli anni non gli era mai apparso come una realtà per sé stante, né mai ancora gli era sorto in mente il pensiero: c’è qualcosa che tu non puoi più fare!" (Musil, 697).

Nel film, intanto, ciascuno sembra ripetere, come per le orme, i gesti anticipati da Matteo, come a sottolineare che per conquistare un oggetto(acquisirlo al Sé) esso deve essere appartenuto già a qualcuno che possa consegnarcelo. Per questo la bambina sale sull’alto rudere posto sulla riva del fiume come aveva già fatto il fantasma del padre appena riemerso dalle acque. E giù vede il padre finalmente allontanarsi con Spina, il cane amico. Al culmine della parabola del lutto (del trauma?) Emma può sentire che Leonardo non è più il tradimento, ma il nuovo amore consegnatole dai ricordi e dal lavoro dei sogni.

Sono uscito all’aria fresca della città dopo un film mancato. Ma nonostante tutto mi accorgevo che l’esperienza del film mi era servita: forse la particolare situazione della sala cinematografica insolita; forse una mia particolare disposizione; forse la compagnia di Annamaria e Paolo; forse perché ogni ferita ha il tempo giusto per essere lenita, mi rendevo conto che avevo potuto occuparmi di una mia profonda difficoltà che, nella passione che ho nel mio lavoro al servizio, da qualche tempo mi procurava dolore. Ho pensato che in quella ferita c’era Matteo, c’era Emma, la bambina e il cane Spina. Leonardo era il fantasma da accogliere quando l’amore degli altri ti permette di scoprirlo nuovo e non più traditore. Il prodotto delle trasformazioni non lo conosciamo perché non è mai esistito prima e, proprio perché mai esistito prima, deve transitare per una parabola che lo descrive minaccioso e che tende a respingerlo fuori. Solo così le parabole non si chiudono e procedono ancora di un passo. Ho pensato che Carlo ha bisogno dell’amore di quelli che gli sono intorno per accettare che d’ora in poi il padre sarà un padre diverso, altrimenti senza l’amore del gruppo (dell’ambiente) non puoi accettare i lutti e il cambiamento perché il gruppo ci cura (Gaburri, Ambrosiano, 2003), ma perché questo accada bisogna permettersi di "…nutrire la convinzione delirante che esista nel gruppo un fondo inesauribile di amore nei propri confronti" (Bion, 1992). Quando questo succede, quando i padri sono stati recuperati dai ricordi sognati, quando Marta riprende ad emozionarsi per la bellezza delle moto, Matteo può separarsi da Emma consegnandola al bacio di Leonardo: "Per fortuna tu non sei qui e sei rimasta alla vita!"

*Pubblicata anche su www.istitutoricci.it

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