I. Introduzione: Il cinema come sintomo della civiltà
Il cinema di Pier Paolo Pasolini non è una filmografia, ma un sintomo. Un sintomo della civiltà occidentale, della sua crisi, della sua colpa. È un corpo che si offre allo sguardo come un sacrificio, un linguaggio che si lacera per dire l’indicibile, un sogno che si infrange contro il principio di realtà. È un cinema che non rappresenta, ma rievoca; non racconta, ma rielabora; non consola, ma denuncia. È un cinema che si pone come atto psichico, come elaborazione del lutto, come ritorno del rimosso.
Pasolini non è un regista. È un analista della cultura. Un poeta che ha scelto la macchina da presa come strumento di indagine dell’inconscio collettivo. Ogni suo film è una seduta analitica, dove il soggetto – individuale o storico – viene messo a nudo, interrogato, esposto. La cinepresa è lo sguardo dell’analista: non interpreta, ma ascolta; non giudica, ma osserva; non cura, ma rivela.
In questo senso, il cinema pasoliniano è profondamente freudiano. Non solo perché tematizza il desiderio, la pulsione, il rimosso, ma perché assume la struttura stessa del sogno: condensazione, spostamento, simbolizzazione. I suoi film sono sogni a occhi aperti, incubi lucidi, visioni oniriche che mettono in scena il conflitto tra Eros e Thanatos, tra principio di piacere e principio di realtà, tra desiderio e legge.
“Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore.”
— da Poesia in forma di rosa
II. Il sottoproletariato come archetipo: Accattone e Mamma Roma
Il Cristo laico e la fame come destino
Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) sono le prime due stazioni di una via crucis laica. Il sottoproletariato romano non è oggetto di indagine sociologica, ma incarnazione di un archetipo: l’uomo abbandonato, il figlio senza padre, il corpo senza legge. Vittorio e Ettore non sono delinquenti, ma eroi tragici. Sono Cristo senza resurrezione, figli di un Dio che non parla più, orfani di una Legge che non protegge.
Pasolini filma la fame come se fosse un destino. Non c’è redenzione, non c’è ascesa. Il corpo è inchiodato alla terra, alla miseria, alla colpa. La macchina da presa non osserva: adora. I volti sono icone, le strade sono altari, la morte è liturgia. La musica di Bach accompagna la caduta come in una messa funebre.
L’Edipo spezzato: la Legge assente
Freud ci insegna che il soggetto nasce dall’interiorizzazione della Legge paterna, dal superamento dell’Edipo, dalla rinuncia al godimento incestuoso. Ma nei primi film di Pasolini, la Legge è assente. Il padre è morto, la madre è impotente, il desiderio è senza interdizione. Il soggetto pasoliniano è pre-edipico: vive in una dimensione arcaica, orale, fusionale, dove il corpo è tutto e la parola è muta.
Accattone non può diventare adulto perché non ha interiorizzato la Legge. Vive in uno stato di perenne infanzia, di dipendenza, di regressione. La sua morte non è una punizione, ma una necessità: è l’unico modo per uscire da un ciclo senza fine di colpa e ripetizione.
“Io ho una nostalgia terribile dell’infanzia della mia vita, della mia civiltà.”
— da Scritti corsari
III. Il sacro come trauma: La Ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccellini
Il sacro profanato: Stracci e la morte reale
La Ricotta (1963) è un film cruciale. Stracci, il sottoproletario che interpreta Cristo in un film sulla Passione, muore davvero sulla croce. È la rappresentazione che diventa realtà, il simbolo che si fa carne, il cinema che uccide. È il ritorno del rimosso: la fame, la miseria, la colpa.
Freud ci insegna che il trauma non è l’evento, ma il suo ritorno. Stracci non muore per caso: muore perché il suo corpo non può più sostenere la finzione. Il cinema, che dovrebbe rappresentare, finisce per ripetere il trauma. La macchina da presa non è più uno strumento di distanza, ma di esposizione.
Il Cristo pasoliniano: un Altro senza potere
Il Vangelo secondo Matteo (1964) è il film più puro di Pasolini. Un Cristo rivoluzionario, senza miracoli, senza dogmi. Un Cristo contadino, poeta, fratello. Pasolini lo filma come si filma un amico. È il sacro che si fa umano. È la religione che si fa poesia.
Ma anche qui, il sacro è un trauma. Il Cristo pasoliniano non salva: disturba. Non redime: espone. È un Altro che non protegge, ma che chiede. Che guarda. Che interroga. È l’Altro freudiano: enigmatico, inquietante, non pacificato.
Il pensiero che cammina: Totò e il corvo
Uccellacci e uccellini (1966) è una parabola filosofica. Totò e Ninetto camminano in un paesaggio desolato, seguiti da un corvo parlante che predica il marxismo. È il pensiero che cammina, che si perde, che muore. È la filosofia che non salva, che non consola, che non serve.
Il corvo è il Super-Io: parla, giudica, accusa. Ma viene ucciso e mangiato. È il ritorno del rimosso che viene divorato. È la Legge che non regge più. È la cultura che non ha più presa sul reale.
“La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni.”
— da Il sogno di una cosa
IV. Il desiderio come perturbazione: Edipo Re, Teorema, Porcile, Medea
Edipo Re (1967): il mito come struttura psichica
Pasolini affronta il mito fondativo della psicoanalisi con una radicalità che lo rende uno dei suoi film più intensi e teoricamente densi. Edipo Re non è solo una trasposizione cinematografica della tragedia sofoclea: è una riflessione sull’origine del soggetto, sulla costruzione dell’identità, sulla colpa e sul desiderio.
Freud ha posto l’Edipo al centro della sua teoria: il bambino desidera la madre, teme il padre, interiorizza la Legge, rinuncia al godimento, diventa soggetto. Pasolini destruttura questa sequenza. Il suo Edipo è un figlio che non sa di essere figlio, un amante che non sa di essere incestuoso, un re che non sa di essere colpevole. È il soggetto che si forma attraverso il trauma, non nonostante esso.
Il film è diviso in tre tempi: l’infanzia nel Friuli fascista, il mito greco, il ritorno alla realtà. Questa struttura tripartita è una messa in scena della temporalità psichica: il passato rimosso, il presente simbolico, il futuro come ripetizione. L’Edipo pasoliniano non guarisce: si acceca. Non supera il trauma: lo abita. Non diventa adulto: si annulla.
Lacan ha detto che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Pasolini mostra che il mito è il linguaggio dell’inconscio. Edipo Re è il sogno del soggetto occidentale, il suo incubo, la sua origine.
Teorema (1968): l’ospite inquietante e il desiderio che dissolve
In Teorema, un giovane misterioso entra in una famiglia borghese, seduce tutti – padre, madre, figlia, figlio, domestica – e poi scompare. Ognuno reagisce in modo diverso: chi si spoglia, chi si prostituisce, chi si ammala, chi si converte. È il desiderio che irrompe e sconvolge.
L’ospite è il perturbante freudiano: familiare e straniero, desiderato e temuto. È il ritorno del rimosso. È il desiderio che non può essere simbolizzato. È l’Altro che ci guarda e ci trasforma.
Il film è una seduta analitica collettiva: ogni personaggio affronta il proprio inconscio, la propria pulsione, la propria verità. Ma non c’è guarigione. Solo dissoluzione. Il desiderio non salva: distrugge.
Porcile (1969): la pulsione che divora
Porcile è un film bifronte. Da un lato, un giovane che ama i maiali. Dall’altro, un ribelle che uccide per fame. È la pulsione che divora, che non si lascia addomesticare. È il desiderio che non si può dire, che si esprime solo nella perversione, nella violenza, nella morte.
Freud ci insegna che la pulsione non ha oggetto, ma solo una meta: la soddisfazione. Il giovane di Porcile non ama i maiali: è la sua pulsione. È il soggetto che si dissolve nel godimento. È la civiltà che si autodistrugge.
Il ribelle, invece, è il soggetto che agisce la pulsione di morte. Non uccide per odio, ma per fame. È la fame come trauma, come necessità, come condanna. È il ritorno del rimosso storico: la violenza come fondamento della civiltà.
Medea (1969): la madre arcaica e il sacrificio del figlio
Medea, interpretata da Maria Callas, è la tragedia pura. La madre che uccide i figli. Il mito che si consuma. Pasolini non giudica: contempla. Filma il dolore come si filma un’eclissi.
Medea è la madre arcaica, la madre terribile, la madre che non accetta la Legge del Padre. È la madre che vuole tutto, che non rinuncia. È la madre che incarna la pulsione di morte.
Freud ha parlato della “ambivalenza materna”: amore e odio, nutrimento e distruzione. Medea è questa ambivalenza incarnata. Ama i figli, ma li uccide. Non per vendetta, ma per necessità. Perché il mondo non le lascia altra scelta.
Il film è un rito sacrificale. Il corpo del figlio è l’offerta. Il desiderio della madre è l’altare. La civiltà è il carnefice.
“Il sesso è consolazione della miseria.”
— da Il sogno di una cosa
V. La Trilogia della Vita: il corpo come festa e fallimento
Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte
Negli anni ’70, Pasolini tenta un gesto estremo: salvare il corpo. Lo fa con la Trilogia della Vita: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974). In questi film, il corpo non è più crocifisso, umiliato, condannato: è celebrato, esibito, liberato. Il sesso non è più colpa, ma gioco. Il desiderio non è più peccato, ma festa. Il piacere non è più devianza, ma diritto.
Pasolini cerca nel passato – nel Medioevo, nell’Oriente, nella favola – un tempo mitico in cui il corpo non fosse ancora stato colonizzato dalla morale borghese, né mercificato dal capitalismo. È un tentativo di regressione a uno stadio pre-edipico, dove il desiderio non è ancora represso, dove la Legge non ha ancora imposto la castrazione simbolica.
Ma questo sogno si infrange. La società dei consumi, che Pasolini definisce “nuovo fascismo”, ha già vinto. Ha già trasformato il corpo in merce, il sesso in pornografia, il desiderio in pubblicità. La Trilogia della Vita viene fraintesa, travisata, cooptata. Pasolini si sente tradito. E allora rinnega quei film, li definisce “ingenui”, “falliti”, “compromessi”. E prepara la sua vendetta.
“La rivoluzione vera è quella che distrugge il potere dell’ideologia borghese sul corpo.”
— da Scritti corsari
VI. Salò: il cinema come tortura, il godimento come morte
Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) è il film che non si può guardare. Non perché è violento, ma perché è vero. È il potere che tortura. Che umilia. Che trasforma il corpo in oggetto. È il fascismo come pornografia. È il sadismo come estetica. È la morte come spettacolo.
Pasolini non filma il dolore: lo impone. Lo spettatore non può fuggire. Deve subire. Come i personaggi. Come i corpi. Come la Storia.
Freud ci insegna che la pulsione di morte è parte costitutiva della psiche. In Salò, essa si manifesta in forma pura: non più mediata dalla cultura, non più sublimata dall’arte, ma esibita nella sua nudità. Il godimento non è più piacere, ma distruzione. Non è più eros, ma thanatos. È il godimento dell’Altro, che si realizza solo nella cancellazione del soggetto.
Salò è il testamento di un uomo che ha capito che la poesia non basta. Che la bellezza è stata violata. Che il cinema deve diventare atto politico, atto etico, atto estremo.
“Io so. Ma non ho le prove. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, uno che cerca la verità.”
— da Scritti corsari
VII. Conclusione: il cinema e la poesia, due lingue per lo stesso trauma
Il cinema di Pasolini non può essere separato dalla sua poesia. Sono due lingue diverse per dire lo stesso trauma. La poesia è l’io che parla, che si confessa, che si espone. Il cinema è l’altro che guarda, che interroga, che giudica. Ma entrambi nascono dallo stesso luogo: la ferita originaria, la perdita dell’innocenza, la nostalgia dell’infanzia.
Nelle sue poesie, Pasolini cerca la madre, la lingua friulana, il corpo amato, il tempo perduto. Nei suoi film, cerca la Legge, il Padre, il sacro, la comunità. Ma in entrambi i casi, ciò che trova è il vuoto, l’assenza, la morte.
Il poeta e il regista sono due volti dello stesso soggetto: un soggetto che non si rassegna, che non si adatta, che non si salva. Un soggetto che continua a parlare, a scrivere, a filmare, anche quando sa che nessuno lo ascolterà.
“La realtà non mi ha mai dato ragione. Ma io continuo a scrivere.”
— da Lettere luterane
Il cinema di Pasolini è una ferita aperta. Non si rimargina. Non si dimentica. Si contempla. Si soffre. Si ama. Come la sua poesia. Come la sua vita. Come la nostra.
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