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Caduto da una stella. Figure dell’identità nella psicosi

5 Apr 13

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[Dobbiamo essere riconoscenti nei confronti del coraggio editoriale di Giovanni Fioriti, che ha già pubblicato testi importanti sulla psicopatologia e in particolare sulla psicosi (si pensi all’ormai "classico" testo di A. Tatossian, La fenomenologia delle psicosi). Esce ora in libreria l’ultima fatica di Arnaldo Ballerini: una figura di spicco della psicopatologia fenomenologica italiana ed europea, attualmente presidente della "Società Italiana per la Psicopatologia". Ci auguriamo che attorno a questo importante lavoro, pubblicato all’interno della collana "Psicopatologia" diretta da Mario Rossi Monti, si sviluppi in POL.it un adeguato dibattito. Pensiamo di facilitarlo e di avviarlo pubblicando in anteprima, per gentile concessione dell’editore e degli autori, la prefazione scritta appositamente da Eugenio Borgna per questo libro di Ballerini]
 

PREFAZIONE

Ci sono libri, che già nel titolo indicano il cammino tematico e metodologico lungo il quale si avvia il discorso dell'autore; e questo avviene con il titolo bellissimo del libro di Arnaldo ballerini: "Caduto da una stella. Figure della identità nella psicosi". La splendida immagine di questo cadere da una stella, che nasce dalla autodescrizione lacerata di un paziente a indicare la radicale metamorfosi dell'io e del mondo nella quale egli precipitava nel dilagare della psicosi, è la matrice clinica (radicale e palpitante come non di rado avviene nel discorso di una esperienza psicotica) delle riflessioni psicopatologiche e fenomenologiche sulle molteplici figure della identità che nelle psicosi si vengono delineando e che Arnaldo Ballerini fa riemergere con sonde ermeneutiche nutrite di esperienza clinica e di intuizione fenomenologica, di passione e di cultura, di immedesimazione nei vissuti dei pazienti e di ascolto.

Nella introduzione sono dialetticamente analizzati e descritti alcuni dei grandi temi della conoscenza in psichiatria (dei modi con cui si realizza la conoscenza nella psichiatria clinica e nella psichiatria fenomenologica), e sono illustrate le premesse teoriche che stanno a fondamento di ogni discorso sulle figure della identità.

Sono tre le aree tematiche che scandiscono lo svolgersi del libro che si confronta con questioni di radicale importanza psicopatologica e fenomenologica: mai, comunque, considerate nella loro sola articolazione formale e dottrinale ma immerse sempre nella realtà feconda e incandescente della clinica: dell'ascolto dei pazienti nella loro sofferenza e nelle loro speranze ferite: nei loro orizzonti di senso che, faticosamente e dolorosamente, si possono in ogni caso decifrare anche nel tumulto dell'angoscia e della dissociazione psicotiche.

Vorrei subito sottolineare come, ancorato al divenire senza fine delle esperienze psicopatologiche e antropologiche dei pazienti, e animato da una scrittura insieme rigorosissima e creativa che consente leopardianamente alla ragione di trasformarsi in passione, il discorso di Arnaldo Ballerini si snoda lungo sentieri epistemologici complessi, certo, ma attualissimi e decisivi al fine della comprensione della psichiatria come scienza umana e come scienza naturale; e si snoda con una straordinaria chiarezza, espositiva e con una stregata pregnanza emozionale, e narrativa. A questo contribuiscono citazioni letterarie folgoranti da Alessandro Manzoni a Luigi Pirandello, da Dino Campana a John Keats.

In ogni caso, la prima area tematica del libro è rivolta alla definizione e alla concettualizzazione della identità come categoria antropologica e biologica, filo- sofica e psicopatolopica, sociale e interpersonale.

Richiamandosi al pensiero di Paul Ricoeur, che al problema della identità ha dedicato testi di grande importanza, non solo teorica, Arnaldo Ballerini si avvia a cogliere il background tematico della identità; dicendo: "II problema della identità personale appare essere per Ricoeur il luogo privilegiato per le due declinazioni principali del concetto di identità: la identità come "essere lo stesso" (identità-idem) e la identità come "essere se stesso" (identità-ipse). La distinzione è implicita in molte lingue, e l'A. esemplifica da lingue diverse, ma forse la più chiara dizione resta quella latina fra "idem", che potremmo volgarizzare in: "è quello di prima", e "ipse" : "è lui in persona". Questa due superfici dell'identità hanno una diversa posizione rispetto alla permanenza nel tempo, persistenza che inerisce al concetto stesso di identità, nel suo senso globale".

Nel contesto di una definizione fenomenologica della identità umana, della dicotomia semantica che si può cogliere in essa, le cose che dice Ricoeur sono fra le più rigorose, e le più comprensive della sua natura: rimanendo, ovviamente, al di qua delle sue lacerazioni psicotiche.

Quali sono nondimeno le relazioni fra la psicologia della identità e la biologia della identità, fra la identità biologica e quella personale?

A questa tematica bruciante e attuale, aperta alle più diverse interpretazioni solcate a loro volta da fatali premesse filosofiche e non di rado ideologiche, Ballerini dedica pagine stringate e rigorose; sottolineando come non possa non essere grande il salto fra la identità biologica e quella personale, e come d'altra parte possano anche essere intraviste correlazioni fra l'una e l'altra identità. A questo proposito, richiamandosi ad un lavoro di V. Gallese, egli scrive: "Ci troviamo così di fronte a dati neuroscientifici che sono fortemente in rapporto con le intuizioni fenomenologiche e appaiono essere le possibili basi elementari e costitutive del complesso campo della relazione sociale, della identità sociale e del suo confluire con gli altri aspetti della identità personale"; e ancora: "Questa stimolante via conoscitiva mi pare non sottolineare tanto l'aspetto di fissità, che definirebbe l'identità, di mantenimento inalterato di caratteristiche, quanto più a monte, l'aspetto di costruzione in fieri della identità che "utilizza", ingloba, fa proprie esattamente le modificazioni che l'ambiente intersoggettivo gli offre".

Sono riflessioni, queste, che non sfuggono ad un alone di problematicità, direi, ma che in ogni caso concorrono a dimostrare il rigore e l'apertura culturale, ed epistemologica, di Arnaldo Ballerini che si confronta anche con problemi, come questi, così intricati e così roventi.

La identità come costrutto sociale nelle sue implicazioni relazionali (intersoggettive), che sconfinano nelle vertiginose riflessioni husserliane sulla costituzione della intersoggettività, e la identità come categoria psicopatologica che ne dimostra la precarietà e la dissolvenza nelle psicosi, fanno ancora parte della prima area tematica del libro.

La psicopatologia della identità è ripercorsa nelle sue linee tematiche essenziali muovendo dal pensiero filosofico di Descartes e da quello psicopatologico e fenomenologico di Karl Jaspers e di Kurt Schneider. Sono cose molto note, queste, ma che vengono qui rifunzionalizzate con grande attenzione alle più recenti referenze bibliografiche e con grande originalità.

Non saprei come definire diversamente le cose che Arnaldo Ballerini dice a proposito di quella che egli chiama una notte della identità: la notte, cioè, che precede la conversione, il radicale cambiamento nel suo modo di essere e di agire, dell'Innominato manzoniano.

In ogni caso, il disturbo della coscienza dell'io, che non può non essere a fondamento della lacerazione (del cambiamento) della identità nelle psicosi, apre la strada all'emergere di deliri che si tematizzano, o almeno si possono tematizzare, come deliri sulle proprie origini e come "romanzi familiari": intesi come immaiginari rapporti di filiazione che si possono manifestare nella coscienza psicotica, e che non hanno nulla a che fare con i rapporti di filiazione e di parentela istituiti.

A questo argomento,davvero originale e di grande interesse psicopatologico e clinico, si richiama la seconda area tematica del libro che si confronta con i diversi modi di delirare sulla propria identità e sulle connessioni fra identità e vulnerabilità nel mondo della melanconia e in quello della schizofrenia.

Ascoltare i pazienti, cercando di cogliere le radici nascoste del loro delirare, consente di constatare come i temi della nascita, della genealogia, delle proprie origini siano spesso presenti in molte sindromi deliranti: questa è una originale riflessione clinica a cui giunge Arnaldo Ballerini: che ci ricorda come siano,queste, esperienze psicopatologiche discrete e sommesse che riemergono solo se si sappiano interpretare allusioni e rimandi enigmatici, e se si sappia entrare in una adeguata relazione terapeutica con i pazienti.

Dai pazienti, che nel libro sono analizzati e descritti nella loro fenomenologia cllnica e nelle loro tematiche deliranti, rinascono splendide riconferme della realtà sintomatologica dei romanzi familiari; e, in particolare, del fascino doloroso e straziante che è testimoniato dalla storia della vita del paziente che si sentiva e si riviveva come caduto da una stella.

Come Ballerini ci dimostra, del resto, i romanzi familiari si constatano in sindromi psicopatologico-cliniche diverse, al di là cioè di ogni rigida delimitazione nosografica, e a tal fine è molto bella la metafora con cui egli li definisce: "essi sembrano ordinarsi, come la limatura di ferro in vicinanza di una calamità, attorno ai due poli della possibilità di delirio: quella paranoicale e quella schizofrenica, intese come concetti limite, come "tipi ideali" (M.Weber) di disturbo". Sulla scia di questa riflessione Ballerini giunge a pensare che il romanzo familiare del falso padre, e la trama di "agnizione" della letteratura dell'ottocento, abbiano a delinearsi in sindromi paranoicali e schizoaffettive, e in aree cliniche temalizzate dai disturbi affettivi; mentre il romanzo familiare tematizzato dalla assenza, o dalla invenzione, delle origini si coglie nella sua realtà sintomatologica nella misura in cui ci si avvicini alla schizofrenia nucleare.

In questa seconda area tematica il libro si confronta con il problema delle possibili connessioni e delle reciproche correlazioni fra vulnerabilità e identità: fra quello che precede la scompensazione psicotica e quello che ne costituisce il nocciolo profondo.

Richiamandosi ai lavori di H.Tellenbach, per quanto riguarda la melanconia, e a quelli di E.Kretschmer, ma anche al suo lavoro sull'autismo come patologia di un eremitaggio, Arnaldo Ballerini ribadisce drasticamente la tesi che non sia possibile oggi mantenere una insanabile dicotomia fra la regione dei disturbi di personalità, e quella delle psicosi.

Questo il suo pensiero: "A qualcuno di noi può venire il dubbio che la psicopatologia, e al suo seguito la cllnica psichiatrica, nel dividere in modo così radicale i due campi delle psicosi da un lato e disturbi di personalità dall"altro, possa essersi comportata come uno "scalco maldestro". D'altronde il pensare per dicotomie sembra connaturato al tentativo iniziale di introdurre ordine nel caos dei fenomeni, ma in realtà le dicotomie sono tutte "false", nel senso che sono soltanto utili artefatti per un primo orientamento e per la comunicazione entro la comunità degli esperti. Se la psicopatologia si limitasse a pensare per dicotomie, e non in termini dialettici di proporzione-sproporzione, non farebbe altro che riproporre la nosografia in altro linguaggio".

La psicopatologia fenomenologica, insomma, è incentrata sulla persona, e non sul morbus come fa la psichiatria clinica, e si occupa dei fenomeni e non tanto dei sintomi.

Nella terza, e ultima, area tematica le considerazioni psicopatologiche e fenomenologiche, teoriche e pratiche, si riassumono e si concludono nella tesi che il senso radicale delle psicosi abbia a temalizzarsi come una interrogazione sulla identità; e il discorso di Arnaldo Ballerini ci consente di cogliere le molteplici stratificazioni semantiche di questa struttura fondamentale della condizione umana; recuperandone la dimensione più profonda che sta ben al di là della identità individuale e sociale, della identità di ruolo e di gruppo, della identità nazionale ed etnica, e perfino della identità biologica: che è oggi rimessa in discussione in alcune aree biotecnologiche.

Certo, la crisi più radicale della identità, la sua trasformazione più profonda e impensabile, è quella che si realizza in una esperienza psicotica (schizofrenica). Come egli scrive: "In quest'ultima la crisi dell'identità mi appare ancor più basica: non si tratta di essere in qualche modo ancora, "io" ma con un sesso diverso al quale sento o mi illudo di aver sempre appartenuto, ma di essere un altro "io", del quale il romanzo delirante è una specificazione discorsiva che, come ogni altro delirio svolge anche la funzione di ristabilire un movimento intenzionale verso il mondo, nel passaggio da "non so chi sono" a "io sono" questo o quest'altro".

Insomma, il franare (la decostruzione) della identità si coglie nella misura più sconvolgente e radicale nella schizofrenia; e a questa affermazione Arnaldo Ballerini giunge, lo ripeto perché è una affermazione di grande significazione psicopatologica e clinica, sulla scia delle sue esperienze cliniche che lo conducono a ritenere che il tema della identità (ferita e compromessa) sia sempre presente nelle condizioni di vita psicotica. Anche se con diversa, intensa o smarrita, pregnanza sintomatologica è in esse avvertibile la lacerante e angosciante interrogazione sul "chi sono".

In questa parte conclusiva, del suo lavoro Ballerini si richiama al destino di Friedrich Holderlin che, travolto da una scompensazione psicotica (schizofrenica), è andando rapidamente perdendo la sua incomparabile creatività poetica (fra le più alte e le più sconvolgenti di ogni tempo); e nei lunghi anni della notte psicologica e umana, in cui la sua vita si è arenata, rifiutava di essere chiamato Hölderlin e firmava alcune sue poesie con i nomi di "Scardanelli", o di "Buonarroti". La negazione della propria identità, la sua radicale cancellazione, si manifestava nella sua abissale epifania quando, come ricorda Ballerini richiamandosi a Giuseppe Bevilacqua, il grande germanista, Holderlin ha detto una volta di chiamarsi "Killalusimeno" che sembra corrispondere, stravolgendola, ad una frase italiana dialettale: chi l'ha l'usi meno.

Nella esistenza psicotica di Friedrich Hölderlin si manifesta così nella sua più profonda ed emblematica espressione la nientificazione della propria identità e la sua sostituzione con una identità altra: che non ha più nulla a che fare con quella originaria. Ma in ogni Lebenswelt psicotica (schizofrenica) il filo rosso e doloroso della identità infranta e corrosa si rintraccia., o almeno si può rintracciare, nella misura in cui si ascoltino i pazienti e si dedichi loro il tempo (non tanto, ovviamente, il tempo dell'orologio ma il tempo interiore: il tempo della intersoggettività) necessario a raccogliere le sequenze narrative nelle quali si realizza la storia della loro vita.

Questo mi sembra essere uno dei messaggi che Arnaldo Ballerini ci affida con questo suo libro di una grande (dolorosa) bellezza e di una straordinaria ricchezza tematica: psicopatologica e fenomenologica. Nel solco di questa struttura fondamentale umana, prima ancora che non psico(pato)logica, quale è la identità, egli ci fa conoscere gli orizzonti ermeneutici di una psicopatologia che, animata dalla fenomenologia, fa sgorgare dalle esperienze vissute dei pazienti significati inattesi: ai quali è legata, in ogni caso, una loro più profonda comprensione e anche una più dilatata articolazione terapeutica.

Il discorso psicopatologico e clinico è, del resto, accompagnato da riflessioni filosofiche rigorose nella loro fondazione husserliana e in senso lato fenomenologica che si richiama anche, ad esempio, a Edith Stein; e allora vorrei dire che di questo libro non possono fare a meno psichiatri, psicologi e sociologi ma anche filosofi e, in ogni caso, chiunque si occupi e si inressi di scienze umane.

Nelle parole bellissime e inquiete, con cui si conclude il libro di Arnaldo Ballerini, mi sembra di ritrovare una splendida sintesi del suo discorso; e sono parole che mi sembra giusto citare: nel momento in cui si conclude anche questa prefazione.

"Quando la persona in esordio psicotico si chiede "chi sono", si chiede "cosa mi è successo", ma non nella maniera metaforica che tutti possiamo adottare quando siamo sconvolti da affetti o emozioni che sembrano sommergerci, ma nel senso letterale di essere vittima di un cambiamento che non gli appartiene, per cui egli si avverte come esser trasformato in un altro, in un enigma inquietante e il più spesso misterioso. Ed è tentando di sciogliere questo enigma della propria identità che alcuni psicotici delireranno sulle proprie origini , creando un "romanzo familiare" che in qualche modo reimpianti una comunità identitaria, un anno zero dell'idem, con il quale l'ipseità interagisca ed una nuova storia possa esser magari narrabile, anche se non credibile".

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