Ho letto questo libro sapendo di essere uno psicoanalista e, quindi, sapendo che il mio mestiere è nell’immaginare continuamente gli altri vertici possibili delle cose concrete che spesso i pazienti propongono. In un certo senso che il mestiere dell’analista è sostanzialmente nell’uso del sogno. In questo senso si tratta di un libro complesso, ma che propone, in modo articolato, una tesi semplice e leggera, cara agli psicoanalisti, ovvero che la mente si nutre di immagini, anzi, che nasce dalle immagini e che le storie raccontate per essere ascoltate debbono transitare da quella caverna delle ombre fatue dove già esistono come protoimmagini.
L’incipit è,ovviamente la premessa del percorso. Infatti, Pavan nell’introduzione pone il tema delle relazioni di base fra cinema e psichiatria partendo, ovviamente, dai primi esempi che risalgono al 1904 (il cortometraggio the escaped lunatic) in cui si inaugura lo stereotipo del paziente bizzarro, pericoloso o persino omicida. Ritengo — come notano altri autori nel volume come lo stesso Luciano Arcuri — che tale stereotipo sia qualcosa di più che la rappresentazione del folle secondo la cultura dell’epoca, ma che — come lo stesso Freud avrebbe potuto suggerire — si tratta di uno stereotipo che si fonda su dinamiche squisitamente proiettive che, pertanto persistono tuttora e che, penso, si evidenziano soprattutto nei dispositivi di comunicazione regredita — quale quella iconica — che sono più prossimi al funzionamento inconscio. Questa prossimità del linguaggio iconico con quello inconscio (Musatti) è sottolineata dai molti contributi presenti nel libro quali quello di G.P. Brunetta che sottolinea la equivalenza tra schermo ed inconscio nella capacità di "rendere visibile l’invisibile". Al tempo stesso, a questo livello di prossimità con il funzionamento primario — quella esile dimensione dove si compiono all’infinito le trasformazioni e che Bion chiama Barriera di contatto – Elisabetta Marchiori propone la visione di un film come la partecipazione ad un parto in cui si è testimoni, e di cui si è al tempo stesso aiutanti, di un evento nuovo, mai esistito prima e che nasce dal particolare incontro tra un film ed uno spettatore. Tale evento è nella intersezione continua delle identità dei due soggetti in gioco: il film e lo spettatore. Dico film e non "regista" forse perché faccio lo psicoanalista e considero un film come un sistema che comprende il regista, ma che non coincide con esso. Altro stereotipo — rileva Pavan è la rappresentazione "prevalentemente negativa" e violenta dello psichiatra nei film anche quando questi viene idealizzato "come magico riparatore di traumi". Pavan suggerisce che le autentiche dinamiche "psicologiche" che interessano psichiatri e psicoanalisti sono soprattutto nei film di soggetto non psichiatrico, come a dire, allorquando il cinema ha lo statuto del lapsus che dice della cosa senza occuparsi della cosa.
De Mari coglie come le immagini, sono nella cultura del nostro tempo e sempre più sono chiamate a dinamizzare i nostri discorsi, anche quelli che un tempo passavano attraverso le "soporifere" relazioni scritte. In realtà, penso che, da sempre, i discorsi più incisivi e che passano di più sono quelli che "si vedono" di più (Kundera, Il Sipario, 2004, p. 25)) . Il cinema, molto presto, si è presentato come dispositivo capace di sostituire la realtà, prima che di rappresentarla: è Brunetta a ricordarci il grave incidente del 1897 in cui a seguito della proiezione dell’incendio del bazar de la Charité morirono circa 120 persone. La stessa tesi di McLhuan (Gli strumenti del comunicare, 1964) quando ci parla del panico di popolazioni africane di fronte a filmati in cui foreste venivano incendiate. In questo senso concordo con la citazione di Fellini ripresa da Elisabetta Marchiori che suggerisce di "non parlare mai di un film… perché esso, nella sua vera natura è indescrivibile a parole…". Ritengo però, come molti autori di questo libro, che una cosa è un film, altra cosa è il dispositivo iconico della comunicazione che è dispositivo potente proprio perché regredito, indefinito e (come per i sogni) condensato: "Un’immagine — scrive Bollas, non a caso parlando dell’isteria – vale mille scene".
A più riprese nel libro viene sottolineato il gemellaggio cinema-psicoanalisi che, ad un primo livello, sembra essere nella sedimentazione sincrona di due metodi di "rappresentazione": col tempo (dopo circa 20 anni, suggerisce De Mari) questa sincronia diventa interrelazione inevitabile e, a partire dai primi sospetti di Freud, non sappiamo bene se tale interrelazione sia stata fertile. Personalmente, penso di no e lo stesso De Mari trova più ombre che luci nella rappresentazione dello psicoanalista al cinema: il motivo ovvio è nel dato che ciascun dispositivo ha una sua intrinseca specificità e, se il cinema è una macchina di sogni "la sua funzione rischia di diventare grottesca… quando si propone di rappresentarli formalmente". Nel suo contributo Umberto Curi allude allo "scandalo", persino "ostilità" che nei contesti accademici si possa introdurre l’insolito (perturbante?) delle citazioni che partono dai film, sia che si tratti di filosofia che di altre discipline "serie". Capisco di cosa parla, ma onestamente non mi sono mai posto il problema, perché evidentemente i film — magari, alcune volte, arte irrispettosa dell’accademia — ha il grande vantaggio di portare continuamente immagini e nuovi vertici alla staticità delle cose (quella che gli analisti chiamano "coazione a ripetere"…) e che descrive i processi di spegnimento della vitalità dei sistemi. Considero le immagini una fortuna della nostra mente e il film la felice verifica che esse esistono anche prima e nonostante noi. In fondo, il senso (psicoanalitico, ma non solo…) di questo libro è proprio la celebrazione dell’immagine quando essa è organizzata in un film.
Simona Argentieri sottolinea il nesso fra la messa in scena dei tentativi di soluzione terapeutica e i numerosi casi di "Nevrosi di guerra" che coinvolsero molti analisti (Rimmel, Ferenczi, Ellen Deutsch, Eitington, e poi Greenson e Murray…) durante e subito dopo le due guerre, come anche per gli eventi blellici più recenti quali il Vietnam, la guerra del Golfo o i conflitti nei paesi slavi.
Per Simona Argentieri il film è documento e testo su cui si sedimentano, come su un palinsesto, le dimensioni nevrotiche dei registi e di intere culture, necessariamente orientate ad operazioni difensive verso l’insostenibile evento del trauma: i film ci dicono della parabola intima del regista ed i registi attraverso un oggetto nevrotico riescono a porsi in contatto con l’altro come se l’altro fosse un analista a cui presentare i propri traumi. Di altri traumi, quelli gravi della vita quotidiana, si occupa Vittorio Volterra. Giovanni Colombo e Ida Bertin parlano di "percorsi", li chiamano "i viaggi nel cinema e nelle psicoterapie". Nel leggere il loro saggio viene in mente la progressione, il "muoversi" che per Chatwin (Anatomia dell’irrequietezza) è all’origine del pensiero. Soprattutto nei film, il viaggio, come ad esempio ne I diari della motocicletta, viene a toccare il senso del progredire e del processo che, prima che nei luoghi, si compie soprattutto su scenari intimi.In questo senso è felice, a mio parere, il suggerimento del "viaggio come metafora della psicoterapia" soprattutto perché, in questa ottica, il modello "cinema" può essere assunto per evocare qualcos’altro che altrimenti non è possibile descrivere.
Per tutto il libro, attraverso i vari contributi, si riflette continuamente sul dispositivo iconico del cinema come evocativo, prima che descrittivo. Non si tratta , come suggerisce Dalle Luche, di "rappresentare in modo verosimile il delirio" perché un tal caso il cinema è particolarmente (spesso, pesantemente…) tuttaltro che delirante, ma "di farci rivivere, in modo del tutto verosimile l’esperienza delirante". Il montaggio, come suggerisce Ignazio Senatore — e come tutti i registi sanno – è l’anima di un film e, al tempo stesso, può essere da noi assunto come il continuo organizzarsi delle infinite versioni del percorso terapeutico a cui concorrono paziente ed analista come, nel film regista e montatore.
Nella terza parte il libro si cala dentro la scena del film e, dall’interno, cerca di osservare quelle categorie che sono i topos del processo analitico e che spesso ricorrono nei film, ovvero, "la reincarnazione del mythos classico che è il cinema" (Curi, p. 76). Si tratta di proporre come i film possano consegnare un loro vertice alla rappresentazione dei luoghi dell’analisi. Si passano in rassegna, quindi film come Peter Pan (Massimo De Mari) e Strange days e Betrayal (Vittoria Costantini e Paola Golinelli) ed infine l’analisi di Sacchetto su un film molto usato dagli psichiatri quali Psycho (in questo libro analizzato anche nel saggio di Elena Grassi e Massimo De Mari) messo a confronto con "La donna dai tre volti" (Johnson, 1957), ed infine il contributo di Stefano Marino su un regista cult della nostra generazione quale Nanni Moretti e di Alberto Spadoni sulle radici riminesi nell’opera di Fellini. P. Roberto Goisis indaga le motivazioni che sono all’origine di un prodotto filmico: non quelle concrete ed ovvie del mercato, ma quelle soggettive del regista che cura un proprio desiderio sospeso. Nel caso di cui si occupa Goisis le motivazioni della regista sono complesse, particolari e, magari, insolite; Bion (Cogitations, 1992) direbbe che si tratta del passaggio da un livello di narcisismo verso un "socialismo", ovvero il film per la regista (forse è sempre un po’ così?…) rappresenta uno spazio di cura in cui possono essere messe in immagini emozioni antiche connesse al lutto di una bambina per la perdita tragica di una madre. La cosa importante, per le analisi di uno psicoanalista è che si tratta di immagini che già esistevano come tali da sempre (in filmati super-otto) e che un nuovo codice, ora, ricompone in un ordine nuovo e vi assegna una nuova funzione, questa volta finalmente di possibile riparazione del lutto. Nel testo toccante di Goisis, è il dialogo con la regista che si confessa, questa volta a parole, come nel film ha potuto fare con le immagini e i ricordi. Mi è sembrato che la nota su "Un’ora sola ti vorrei" sia la sintesi leggera di tutto il libro, ovvero che le parole e i pensieri nascono dalle immagini, e che sono le immagini a custodire le emozioni e il senso intimo dei ricordi. Le parole, quando va bene, vengono dopo.
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