In Italia abbiamo una certa immagine dell'America, spesso distorta da un provincialismo presuntuoso, che ci induce a pensare che laggiù vi sia il trionfo della medicina scientifica, della psichiatria biologica in particolare. Ci sorprendiamo infatti quando veniamo a sapere che tutte le Facoltà di Medicina americane hanno corsi di "medical humanities" o che alla Columbia University s'insegna la "medicina narrativa". La realtà è dunque più complessa di come la vorrebbe qualche pregiudizio. La ricchezza di fermenti umanistici o culturali in ambito medico "anglosassone" è in effetti sorprendente, perlomeno nel campo delle applicazioni cliniche e della formazione.
Il questo clima di cambiamento che coinvolge la mentalità, i paradigmi professionali e i programmi formativi, il Comitato per la Psichiatria Culturale formato dal Group for the Advancement of Psychiatry dell’American Psychiatric Association (APA) propone un volume sul tema della dimensione culturale nella psichiatria clinica. Anche se il titolo originale è "Cultural Assessment in Clinical Psychiatry", sembra corretto e pertinente anche nella traduzione italiana. Il libro è infatti un sintetico excursus delle principali variabili culturali accompagnato da esempi di applicazioni cliniche della formulazione culturale, secondo il DSM-IV. L’intenzione degli autori è di "proporre una visione pragmatica e moderna di come la cultura s’intreccia ed entra in relazione con la salute e la malattia mentale". Tale proposito, così importante e ambizioso, non trova tuttavia una realizzazione del tutto convincente nel volume. Forse era necessario saggiare i limiti di un’impostazione troppo "pragmatica e moderna", prima di fare i conti con un campo che ha bisogno anche di una visione teorica e storica. In questo senso il libro presenta però problemi e domande di sicuro interesse.
Nel tentativo, provvisorio quanto necessario, di definire questo campo d'interessi, gli autori identificano cinque funzioni della cultura che interessano direttamente la psichiatria e ne delineano le dimensioni di ricerca e di intervento clinico. Secondo tale modello, elaborato dal gruppo di Alarcòn, la cultura può essere uno strumento interpretativo ed esplicativo di comportamenti umani, funzionare da agente patogeno e patoplastico, ma anche da fattore diagnostico e nosologico, svolgere un ruolo protettivo e terapeutico, e infine rappresentare un elemento critico nella gestione e nella strutturazione dei servizi clinici. Le variabili culturali prese in esame sono l’identità etnica, la razza, il genere e l’orientamento sessuale, l’età, la religione, la migrazione, lo status socioeconomico, l’acculturazione, la lingua, la dieta e l’istruzione. La rassegna è sintetica e presenta esemplificazioni dei principali problemi. Alla fine della lettura si prova però un certo disorientamento, per la difficoltà di coordinare e tenere insieme variabili tanto eterogenee, forse dovuta alla carenza della riflessione teorica e metodologica, ma anche per una certa programmatica volontà di comprendere questi aspetti da un punto di vista "psichiatrico" puro.
Quando si affronta un tema vasto che richiederebbe un’integrazione critica di saperi con diverso statuto, si incontrano infatti svariate difficoltà. Ad esempio, il tentativo di discriminare ciò che è biologico da ciò che è culturale si scontra con l’evidente insufficienza di un’attribuzione rigida e netta, di pertinenza o di causalità Questo dualismo, che risulta ormai – bisogna dirlo – scarsamente utile sul piano euristico, nel contesto dello studio della cultura può apparire persino un residuo ideologico. Prendiamo, tra i molti temi, quello del genere sessuale. Cosa può esserci di più "biologico" di un carattere di tale evidenza anatomica? E tuttavia, non è anche il principale fattore culturale alla base dell’identità dell’individuo e del funzionamento delle società?
Un altro problema esemplare riguarda la difficoltà ad integrare aspetti prettamente socioculturali in un ambito, quello medico, che non ha strumenti adeguati per gestirli. Il libro, ad esempio, accoglie l’identità etnica e la "razza" tra le variabili culturali, ma deve poi onestamente riconoscere le genericità, gli stereotipi e i pregiudizi che le rendono estremamente rischiose nella pratica clinica. L’invito ai lettori è pertanto quello di prestare la dovuta attenzione agli aspetti culturali, ma sempre mantenendo la massima cautela e un senso critico indispensabile in questo contesto.
La conferma della problematicità applicativa della formulazione culturale ci viene dalla lettura dei casi clinici. Si tratta di pazienti con problemi legati all’emigrazione, all’acculturazione o coinvolti nella negoziazione tra valori in conflitto. Il rapporto tra il disturbo mentale e qualche fattore culturale si dimostra importante per la comprensione del decorso, ma è la relazione terapeutica ad essere necessariamente investita da questi aspetti. I casi illustrano la necessità di valorizzare la dimensione culturale per poter rispondere in modo personalizzato e sensibile alle richieste del paziente e della sua famiglia. Trascurare questo impegno potrebbe infatti significare un sicuro fallimento terapeutico. Ecco allora che il Group for the Advancement of Psychiatry propone le linee guida dell’APA e il DSM-IV-TR come riferimenti ineludibili, anche in questo campo. Dalle premesse, che non si possono che condividere, si giunge dunque ad una conclusione che lascia un po’ insoddisfatti. Ma anche di questa conclusione si dovrà tener conto, nel proseguire il dibattito teorico e le ricerche sul campo.
La psichiatria culturale sembra destinata a rivestire un ruolo sempre più importante sul piano clinico, dal momento che si tende a riconoscere l’insufficienza di ogni approccio terapeutico che prescinda dalle variabili antropologiche. Al di là dell’applicazione categoriale o dimensionale della diagnosi, emergono con un ruolo non trascurabile numerosi aspetti qualitativi della condizione di malattia. Può sembrare, allo stato delle conoscenze un’indebita e improduttiva complicazione delle procedure cliniche, ma bisogna comunque fare i conti con le sfide sociali che coinvolgono la pratica psichiatrica. Resta da vedere se la formulazione culturale del DSM-IV-TR sia veramente lo strumento più adeguato per questo compito.
L’affermazione conclusiva del libro – "la componente culturale è un aspetto indispensabile per la formazione degli psichiatri futuri e di altri specialisti della salute mentale e un aspetto fondamentale di ogni diagnosi da loro effettuata" — proietta realisticamente su una nuova generazione di terapeuti il compito di integrare la cultura nella clinica. Tuttavia, facendo questo, sembra trascurare l’importanza di altri saperi ed esperienze avviate da tempo, come l’etnopsichiatria e l’antropologia medica, che guidano già l’impegno professionale di non pochi psichiatri. Trascuratezza non proprio innocente, ma che non sorprende troppo. La cultura, comunque la si definisca, è sempre stata il terreno di aspre battaglie e continuerà ad esserlo, anche per la psichiatria.
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