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SUMMERTIME : IL SITUATIVO NARRANTE .. Una recensione

2 Ago 24

Di Gilberto Di Petta
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Nel romanzo “Prima del calcio di rigore”, di Peter Handke, del 1970, tutto il racconto si snoda dilatando l’attesa del tiro decisivo. Dallo spazio della porta, lo stesso con cui si apre la prima delle storie di Bollorino, è palese la tensione di un portiere che, da eterno spettatore della partita, improvvisamente ne diventa, suo malgrado, il protagonista.
Forse la stagione della vita, guardata dalla fase discendente della sua parabola, è tutta una lunga estate, che va da maggio a settembre.
E il condensato di angoscia iniziale, l’angoscia di esistere e di essere umani, si dilata fino ad allentare la tensione di acciaio della propria molla. Il resto è silenzio.
E’ penombra.
Soprattutto per quanto riguarda la memoria. Nel senso che solo la luce estiva incide in modo tale da scolpire per sempre i ricordi.
La caratteristica di fondo di questo agile “romanzo” di Francesco Bollorino, inanellamento di cinque racconti brevi, ognuno dal nome di un mese, da maggio a settembre, è che, scorrendolo nella lettura, si ricevono due tipi di impressioni. La prima, molto forte, è che non ci sia proprio da nessuna parte un “io narrante” univoco. La seconda è che il soggetto dei vari racconti, che coincide anche con l’oggetto, ovvero il soggetto parlante, non sia un parlante umano, ma, piuttosto, una “situazione parlante”. Entrambi questi punti, la politopia di osservazione e la situazionalità evocativa, potrei riassumerli nel concetto di “situativo narrante”.
Cosa significa assenza di un io narrante univoco?
Le prospettive di racconto partono da punti di vista di volta in volta diversi (politopici), a volte con tagli e salti che impongono un ritmo extrasistolico, a tratti fibrillante, come se il testo fosse un collage di brani scritti a più mani, da più autori o, mi verrebbe da dire, a più riprese. In questo senso l’Autore riesce a dare voce a fasi diverse della sua vita o ai diversi esseri umani che ha incontrato o che egli stesso ha incarnato, come uomo o come psichiatra, o di cui ha sentito semplicemente parlare. Ha poca importanza quale di queste sia la prospettiva giusta. Probabilmente non c’è la prospettiva giusta. In questo la narrazione di Francesco Bollorino segue il tempo vivente della vita, con i suoi salti e le sue discontinuità, con i suoi momenti kairotici, e non già il tempo coerente di un’opera di organica concezione.
La vita, la nostra vita, a ben vedere, non è proprio organica, se non in una ricostruzione a posteriori. La vita di ognuno è un fiume che non corre a decorso lineare. Noi, come fa fede il frammento eracliteo, non siamo mai gli stessi. Più spesso abbiamo a che fare con frammenti, con stadi, con fasi, con ruoli e declinazioni diverse della nostra identità e di quella degli altri, con scampoli identitari,che diventa difficile se non artificioso mettere insieme in un tutto dotato di senso. Questi di Bollorino sono inserti o innesti o intarsi di microstorie nelle storie più grandi.
Quasi frutto di un’ossessione costante a girare con una camera a mano, zoomando su dettagli, ognuno dei quali, in definitiva, parla da sé. Non sembra affatto essere una preoccupazione dell’Autore quella di cucire troppo il tutto in un insieme coerente. Forse non ne sarebbe neanche capace.
Trattandosi di uno psichiatra analizzato, come era buona norma nella generazione di Bollorino e nella mia, cresciuti con il mito della psichiatria dinamica, il flusso associativo a tratti anche allentato risente molto di questa (de)formazione analitica.
Sia di quella di uno psichiatra con la coscienza “cribrata” per aver praticato per molti anni gli orizzonti dell’assurdo, oltre che di un soggetto avvezzo alle rapide e agli intoppi di un lungo percorso analitico personale. Non si può più scrivere “normalmente” dopo tutto questo attraversamento dei multipli del proprio sè. L’altro aspetto di rilievo, quello dove, forse, si ricostruisce un piano sintetico e prospettico dell’opera, è quello che ho definito il “situativo”.
La “situazione”, in termini fenomenologico esistenziali, è uno spaccato del sistema io-mondo-altri. La situazione comprende una dimensione interiore partecipativa o di predisposizione, più di ordine temporale, non distinta da una dimensione esteriore, paesaggistica, più di tipo spaziale.
Questo è il punto: che le descrizioni di Bollorino abbracciano situazioni, atmosfere fatte di paesaggi intrisi di sentimenti che fondano e annebbiano la distinzione tra io e mondo. Non c’è mai nel testo, ad esempio, la descrizione di uno stato d’animo isolato dal suo sfondo.
Anzi, lo stato d’animo deriva dallo sfondo. Perché lo stato d’animo è lo sfondo. Come le estati vengono considerate dopo che sono passate, con quel senso di malinconia di fondo, magari imbattendosi in un oggetto conservato che riemerge da un cassetto, così Bollorino, alla stregua di Pamuk nel suo “il museo dell’innocenza” (2008) colleziona descrizioni di oggetti appartenuti ad un passato che non torna, icone eterne del perduto amore, in cui, gli uomini erano più umani, o almeno avevano modo più umano, nel senso di poetico, di intrattenere un rapporto con gli oggetti.
Quindi da una parte questo testo di Bollorino è il romanzo della nostalgia, da un’altra parte esso è un viatico per chi ha paura o per chi ama “lasciarsi” andare al flusso della vita, come un passeggero di atmosfere.
La nostalgia è, in effetti, il migliore ancoraggio di chi si lascia andare alla deriva del mondo. Non si può pretendere, in conclusione, da questo testo, un saldo finale congruo e riassuntivo del tutto.
Ogni pezzo di questo libro parla per sé, parla da sé, parla a chi risuona. Non è, questa, una scrittura da tutti. Insisto nel sottolineare che l’humus da cui nasce questa scrittura è quello di una vita professionale ed umana, come quella di Francesco Bollorino, lavorata dall’interno e dall’esterno.
Le capacità di autoprocessamento e di insight, l’iperesposizione del “visivo”, l’urto continuo con l’altro, l’ingaggio con l’altro, il conflitto, i trattamenti senza consenso, il silenzio, gli abissi della follia, gli orizzonti dell’assurdo sono elementi che deformano ogni psichiatra in quanto uomo, riportando alla luce fragilità e punti di forza, snodi e blocchi che appartengono alla persona dello psichiatra come ad ognuno.
Ma nessun umano potrebbe sopportarli tutti insieme. E lo psichiatra stesso li sopporta a poco a poco, come uno che si desensibilizza al veleno a piccole dosi.
In questo senso il testo non va letto nei termini di un autobiografismo, e la capacità letteraria riesce a rendere riconoscibili, fruibili e metabolizzabili esperienze che appartengono, mutatis mutandis, a tutti, purchè disposti a deporre, almeno una volta, il protocollo della logica. Ma senza per questo abbandonarsi a nessuna fantastica reverie.
Un percorso fatto di finestre, attraverso ognuna delle quali vedere un pezzo di sé-nel-mondo-con-gli-altri.
E mai lo stesso, neanche dalla stessa finestra.

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