Data l’enorme diffusione dei disturbi psichiatrici dell’alimentazione, penso sia il caso di pubblicare anticipatamente i miei commenti ad alcuni versi di Dante, in cui il tema è trattato in termini poetici. Preciso che il Poeta ha molto da suggerire a noi clinici soprattutto per la sua capacità di evocare esperienze. Nei più recenti sviluppi della psicoterapia analitica, l’esperienza co-creata da curante e paziente (e vissuta da entrambi nel transfert/controtransfert) è considerata non meno importante della spiegazione formulata tramite interpretazioni.
Lo scritto che qui propongo è tratto da un mio lavoro ancora incompleto: “Uno psichiatra visita il Purgatorio. Viaggio nell’oltretomba dantesco come modello di un percorso terapeutico”. Il primo volume, dedicato all’Inferno, è di prossima pubblicazione.
I versi citati, scritti in neretto, sono preceduti da una versione in prosa in italiano attuale, e seguiti da un mio commento in corsivo.
Canto XXIII
Nel Canto XXIII, Dante tratta, in termini poetici e con grande capacità di approfondimento, il tema dei peccati di gola (oggi diremmo dei “disturbi psichiatrici dell’alimentazione”). Il clinico vi trova una serie di suggerimenti molto più ampia di quelli contenuti del Canto VI dell’Inferno, dove incontriamo i golosi dannati.
Dante, all’inizio del Canto, si trova ancora ai piedi dell’albero da cui è uscita una voce misteriosa a ricordare esempi di temperanza. Il Poeta ficca gli occhi tra le fronde verdi dell’albero [per scoprire da dove venga tale voce], come suole fare il cacciatore (“chi”) che perde tutto il suo tempo (“sua vita”) dietro agli uccellini. Nel frattempo Virgilio, premuroso più che un padre, gli dice: “Figliolo, ora vieni, perché occorre distribuire (“compartir”) in modo più utile il tempo [rimanente] che ci è assegnato (“n’è imposto”) [per visitare il monte].
Pag. 345, vv. 1– 6
Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava io sì come far suole
chi dietro agli uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi dicea: “Figliuole,
vienne oramai, che ‘l tempo che n’è imposto
più utilmente compartir si vuole.”
Di tanto in tanto, come farebbe un buon terapeuta col suo paziente, Virgilio ricorda al suo discepolo la realtà del tempo: il viaggio (la cura) ha necessariamente una durata limitata, e non ci si può perdere in dettagli di scarsa importanza quando si è imboccata la strada che porta alla meta finale. La guida di Dante, questa volta, usa lo stesso tono pacato di un padre comprensivo ed affettuoso, “forse perché si avvicina il momento della separazione” (cit.). Pare di cogliere, nelle sue parole, una nota di tristezza.
Viene in mente una situazione che s’incontra spesso in un percorso di cura: il trattamento è quasi terminato; deve anche terminare perché incombono esigenze del mondo esterno che richiedono l’intervento attivo di una persona sana e adulta, e non di un malato esonerato dalle sue responsabilità. Però il paziente continua, infantilmente, a trastullarsi con argomenti di poco valore, come faceva i primi tempi della cura: il bambino che c’è in lui non sopporta la separazione, e si comporta come il piccolino che ha ancora bisogno d’essere corretto con decisione e severità. Il terapeuta, comunicandogli la propria tristezza, lo riporta alla realtà della situazione attuale e, condividendola, gli rende sopportabile la sua stessa tristezza.
Dante, al richiamo del Maestro, volge gli occhi (“viso”), e non meno in fretta (“tosto”) il passo, verso i due saggi Poeti (“savi”). Essi tengono discorsi così (“sìe”) interessanti e piacevoli, che camminare (“andar”) con loro non gli costa alcuna fatica (“mi facean di nullo costo”).
Ma ecco che si sente (“s’udìe”) piangere e cantare ‘Signore [aprirai] le mie labbra…’ (“Labia mea, Domine…”) in modo tale che il canto suscita (“parturìe”), nel Poeta, diletto e dolore.
Pag. 345, vv. 7– 12
Io volsi ‘l viso, e ‘l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che l’andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco piangere e cantar s’udìe
“Labia mea, Domine” per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.
Dante è distolto dalla sua attenzione deviata non solo dall’invito di Virgilio, ma anche dal carattere interessante e piacevole dei discorsi dei due saggi maestri. Essendo Poeti, si presume che stiano parlando della loro Arte; naturalmente l’Autore della Commedia ne è attirato. Subito, tuttavia, le anime dei penitenti gli offrono un esempio di ciò che Virgilio e Stazio avevano trattato, probabilmente, in termini generici ed astratti. È un canto dolce e triste che suscita, in Dante, diletto e dolore, come ci si aspetta da ogni autentica Poesia.
Le anime cantano un versetto del “Miserere” (Salmo L, 17) che così recita: “Signore, aprimi le labbra, e la mia bocca canterà la tua lode”. Esso “si adatta bene alle anime dei golosi, che in vita aprirono le labbra per appagare la gola, ed ora invocano da Dio la grazia di aprirle per cantare le Sue lodi” (cit.). È solo la grazia (il recuperato favore dell’Oggetto interno ideale) che consente di sublimare le pulsioni orali, dando luogo ad una manifestazione d’amore in cui la dolcezza dell’appagamento affettivo (il diletto) si fonde col dolore del pentimento per l’eccessiva avidità. Trattandosi di sublimazione, non c’è una vera e propria rinuncia pulsionale; l’armonia e l’equilibrio interiore vengono, così, ripristinati.
Dante chiede al “dolce padre” Virgilio che cosa significhi quel canto che sta ascoltando. Il suo Maestro [probabilmente incerto, anche lui, riguardo all’origine e alla natura della manifestazione sonora] risponde in modo evasivo che forse esso proviene da anime (“ombre”) che vanno sciogliendo il vincolo (“nodo”) del loro debito (“dover”) con Dio.
Come per offrire una prima risposta alla domanda di Dante, ecco comparire una turba di anime che ora hanno momentaneamente sospeso la declamazione del Salmo. Essa viene dietro ai Poeti, ma con passo più spedito (“più tosto mota”) li oltrepassa (“trapassando”) guardandoli con stupore (“ci ammirava”). Gli spiriti sembrano pellegrini assorti nei loro pensieri (“pensosi”) quando per via raggiungono (“giugnendo”) persone sconosciute, e le guardano senza fermarsi (“e non restanno”).
Pag. 345 – 350, vv. 13– 21
“O dolce padre, che è quel ch’i’ odo?”
comincia’ io. Ed elli: “Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo.”
Sì come i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno,
così di retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
d’anime turba tacita e devota.
Come i pellegrini, gli spiriti sono assorti nel pensiero della meta del loro viaggio. Ciò è significativo di un lavoro interiore impegnativo di cui il loro canto è espressione. Lo stupore, nel vedere tali ospiti insoliti del Purgatorio, fa sì che cessino momentaneamente di cantare, ma non è tale da indurli a fermarsi.
Nulla può distogliere durevolmente l’attenzione di chi è impegnato in un compito auto-riparativo di grande valore, il che ne testimonia l’importanza.
Ogni anima, che qui compare, ha gli occhi spenti (“oscura”) e incavati (“cava”), la faccia pallida e la persona tanto magra (“scema”) che la pelle prende la forma (“s’informava”) delle ossa. Il Poeta non ritiene che Eresitone, per il digiuno (“per digiunar”), fosse così ridotto alla sola pelle (“a buccia estrema… fatto secco”) quando temette maggiormente (“più n’ebbe tema”) di restare digiuno [e giunse ad addentare le proprie carni]. Dante pensa a come dovettero ridursi i Giudei (“la gente”) che persero Gerusalemme quando [durante l’assedio di Tito] Maria [di Eleazaro] divorò (“diè di becco”) il proprio figlioletto.
Le occhiaie dei penitenti sembrano castoni di anelli (“anella”) senza gemme. Chi, nel volto umano, leggesse la parola ‘omo’, su quei volti (“quivi”) distinguerebbe (“avrìa… conosciuta”) molto bene la lettera emme [corrispondente agli archi sopracciliari ed al naso, ai cui lati ci sono le O degli occhi]. Chi potrebbe credere che il profumo di un frutto (“pomo”) e quello di un’acqua, generando avidità (“brama”) possano ridurre in tale stato (“sì governasse”) quelle anime, ignorando (“non sappiendo”) in che modo ciò avvenga (“como”)?
Pag. 350 – 352, vv. 22– 36
Nelli occhi era ciascuna oscura e cava,
palida nella faccia e tanto scema,
che dall’ossa la pelle s’informava:
non credo che così a buccia strema
Eresitone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n’ebbe tema.
Io dicea fra me stesso pensando: “Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!”
Parean l’occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso delli uomini legge “omo”
ben avrìa quivi conosciuta l’emme.
Chi crederebbe che l’odor d’un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d’un acqua, non sappiendo como?
Ovidio (Met. VIII, 138-884) narra che Eresitone, figlio del re della Tessaglia, osò tagliare una quercia in un bosco sacro a Cerere e fu punito con una fame insaziabile. Per procurarsi cibo, vendette tutti i suoi beni, sua figlia e, alla fine, fu costretto a cibarsi delle sue stesse carni. Dante ricorda anche un terribile episodio riportato da Giuseppe Flavio (Della guerra giudaica, VI, 3): Maria di Eleazaro, una nobile donna di Gerusalemme, uccise il figlioletto per nutrirsi del suo corpo.
Nella terzina qui sotto, Dante affermerà che non gli è ancora nota la causa della consunzione dei penitenti. Eppure, nei versi precedenti, dimostra d’aver intuito alcuni aspetti importanti del problema. Li comunica evocando, in forma poetica e narrativa, un mito ed un episodio storico. In questo modo, offre al lettore la possibilità d’immergersi in esperienze vissute che sono molto più vive ed eloquenti di qualsiasi spiegazione logica, benché calzante e precisa.
Se si prescinde da accenni di autori del passato, è solo in epoca relativamente recente che la psicoterapia analitica ha pienamente riconosciuto il valore dell’esperienza vissuta, quale dimensione della cura non meno importante ed efficace di quella “epistemologica”, ossia quella della ricerca di significati tramite le interpretazioni.
Le vicende di Eresitone e di Maria di Eleazaro ci pongono di fronte a quanto è legato allo scatenarsi di un’avidità irrefrenabile, e può costituirne la causa. Si tratta dell’esperienza traumatizzante di chi si trova (o si è trovato, o ha creduto di trovarsi) ad un passo della morte per fame. Maria di Eleazaro incontrò un’effettiva deprivazione di cibo: la sua città, Gerusalemme, era sotto assedio e agli abitanti non poteva più pervenire di che nutrirsi. Tuttavia Dante, a proposito di Eresitone, parla di una paura di restare digiuno indotta non da un’effettiva mancanza di alimenti, ma da una maledizione di Cerere. Questa, dea della terra, della fertilità, dell’agricoltura e dei raccolti, è una figura di madre nutrice onnipotente di cui il protagonista del mito teme d’aver perso per sempre il favore e, con esso, la possibilità di alimentarsi.
Un quadro clinico di avidità irrefrenabile (pur in uno stato di obesità mostruosa, e fonte di gravi complicazioni cardio-metaboliche) lo si riscontrò spesso in sopravvissuti ai campi di sterminio. Costoro videro morire per fame molti compagni di prigionia, e si trovarono ad un passo dal fare la stessa fine. Una situazione del genere produce conseguenze post-traumatiche gravi e durevoli. Una parte di loro stessi non è mai uscita dal luogo di carcerazione e, a dispetto di quanto potrebbe suggerire l’esame di realtà, si trova ancora immersa nella situazione traumatizzante.
Quanto detto sopra è chiaramente illustrato dal sogno (o, meglio, dall’incubo) con cui si conclude “La tregua” di Primo Levi:
“Sono a tavola con la famiglia, o con gli amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o bruscamente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, Wstawac!”.
Una parte del mondo interno di Levi vive sempre immersa nella situazione traumatica; di fronte ad essa, ogni aspetto rassicurante del presente perde la sua realtà. Gli effetti dei traumi subiti perseguitano lo scrittore perennemente ed ovunque egli vada:
“…l’offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (…), ma perpetuano l’opera di questo negando la pace al tormentato”.
Nell’incubo sopra descritto si ha un capovolgimento della situazione normale: il prodotto dell’immaginazione è ora vissuto come realtà, e la realtà rassicurante non è altro che sogno. L’ambiente esterno, di per sé “privo di tensione e di pena” non riesce più ad attivare la “madre ambiente” interiorizzata, fonte dei sentimenti di serenità e sicurezza: lo scrittore è perennemente pervaso dall’angoscia “di una minaccia che incombe”. Una “offesa insanabile” ha compromesso per sempre il rapporto con la madre nutrice interiorizzata, e ora le “Erinni” (le furie vendicatrici del matricida Oreste) perseguitano lo scrittore con la perpetua minaccia di una morte per fame. Nel caso di Levi, ciò alimentò un grave stato depressivo, fondato sulle auto-accuse assurde d’aver lasciato morire d’inedia i suoi compagni di sventura. Altri sono tormentati da un’avidità irrefrenabile: per loro, come per l’Eresitone menzionato da Dante, il terrore di un digiuno mortale è sempre giustificato dalla situazione attuale. Chi crederebbe che il profumo gradevole di frutti, che nelle persone sane suscita un appetito misurato, sulle anime dei golosi abbia il potere di risvegliare una brama tormentosa?
Dante è tutto intento a considerare (“era in ammirar”) che cosa renda tanto (“sì”) affamate quelle ombre, non essendo ancora a lui nota la causa (“per la cagione ancor non manifesta”) della loro consunzione e della loro pelle disseccata e squamosa (“trista squama”. Ed ecco che uno spirito, dal fondo delle occhiaie incavate nella testa (“del profondo della testa”) rivolge gli occhi al Poeta e lo guarda fissamente (“fiso”). Poi esclama ad alta voce (“gridò forte”): ‘Che grazia singolare è questa per me?’.
Dante non lo avrebbe mai riconosciuto solo guardandolo (“al viso”); ma nella voce gli si rivela (“fu palese”) la persona (“ciò”) che l’aspetto esteriore, di per sé, aveva distrutto (“in sé avea conquiso”). La voce è la scintilla (“favilla”) che ravviva nel Poeta la piena (“tutta”) conoscenza di (“alla”: circa) quella fisionomia mutata (“cangiata labbia”), e così può riconoscere il viso di Forese [Donati]
Pag. 352, vv. 37– 48
Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo della testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?”
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma nella voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza alla cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
I pazienti affetti da disturbi psichiatrici dell’alimentazione presentano, quasi di regola, una distorsione percettiva riguardo al loro aspetto esteriore. Coloro che sono affetti da avidità patologica negano la realtà del loro essere obesi (realtà che testimonierebbe un’eccessiva ingestione di cibo) e talora si percepiscono magri come chi rischia di morire per fame. Tale percezione distorta diventa realtà, a tutti visibile, nel Purgatorio, dove nulla si verifica per cause oggettive, e tutto rispecchia quanto avviene nell’anima.
Una distorsione percettiva di segno opposto presentano gli anoressici: si vedono obesi anche quando sono ridotti a pelle e ossa. L’anoressia mentale si può spesso intendere come formazione contro-fobica che assume la forma di identificazione con l’aggressore. Questi malati valorizzano quel che più temono: il digiuno; lo provocano essi stessi0 e, diventandone gli autori, cessano di sentirsi vittime passive. Qui la consunzione del corpo diviene una realtà oggettivamente rilevabile, anche nella vita terrena.
Abbiamo visto, negli esempi illustrati dal Poeta, come l’avidità insaziabile travolga e sopprima ogni aspetto sano della personalità del malato: la sua distruttività non si ferma neppure di fronte al riguardo per le sue cose, i suoi cari, il suo corpo e persino la sua vita. Il comportamento uguale e contrario si riscontra nell’anoressico, in cui la compulsione al digiuno, pur essendo una formazione contro-fobica, possiede la stessa forza dell’avidità. In entrambi i pazienti, lo sconvolgimento dell’aspetto esteriore rispecchia quello del mondo interno: l’individuo che il malato era stato nel passato è divenuto irriconoscibile nel corpo e nell’anima. Irriconoscibile, fatta eccezione per qualche residuo dettaglio. Nel caso di Forese si tratta della voce, il principale mezzo d’espressione dell’amicizia per Dante. È da dettagli (e sentimenti) di questo genere che occorre partire in un rapporto terapeutico.
Dante non riesce a distogliere il suo sguardo dal volto stravolto dell’amico, il che lo lascia senza parole. Forese vorrebbe parlargli, e perciò lo prega di non badare (“contendere”) all’arida (“asciutta”) scabbia che priva la sua pelle del colore, né alla sua mancanza (“difetto”) di carne, ma di dirgli la verità (“il ver”) riguardo a lui (Dante) [probabilmente ha capito che l’amico è ancora vivo], e riguardo a quelle due anime che lo guidano (“fanno scorta”). Dante gli risponde che il suo viso, che già egli pianse quando morì (“faccia… morta”), ora (“mo”) gli causa un dolore (“doglia”) non meno intenso [di quello di allora], tale da farlo piangere, vedendolo così deformato (“torta”).
Pag. 352 – 353, vv. 49 – 57
“Deh, non contendere all’asciutta scabbia
che mi scolora” pregava “la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;
ma dimmi il ver di te, e chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta:
non rimaner che tu non mi favelle!”
“La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia,”
rispuos’io lui “veggendola sì torta.
Un volto deturpato provoca un’impressione spiacevole. Chi lo presenta alla vista altrui se ne accorge. Sarebbe, perciò, uno sbaglio “far finta di niente”: quell’individuo potrebbe fraintendere, perché taciuta, la natura dell’emozione di chi lo guarda e pensare che si tratti di ripugnanza. La sensibilità di Dante lo porta a precisare che non si tratta di repulsione, ma di dispiacere nel vedere l’amico ridotto in quello stato. Anche in un rapporto terapeutico, in situazioni dello stesso genere, è bene che il curante riveli la reale natura dei suoi sentimenti. Questo per evitare malintesi che potrebbero produrre una frattura tra lui ed il paziente.
Può sorprendere che, ora che Forese si trova in Purgatorio, proiettato verso una vita eterna beata, Dante provi un dolore non meno intenso di quando lo vide morto. Teniamo presente, tuttavia, che il dispiacere è espressione di empatia accompagnata da benvolere, e che ciò rappresenta un potente sostegno per chi è impegnato in processi auto-riparativi. Allo stesso modo lo sono le preghiere per i defunti, da parte del credente.
Qui è bene che la persona priva di fede metta da parte lo scetticismo su quanto ci dice il Poeta: in termini laici, le “anime” dei defunti sono (o si manifestano come) “oggetti interni”. Come si è detto più volte, tale forma di sopravvivenza di chi ci è stato caro e non appartiene più a questo mondo, non è soltanto espressione di desiderio e frutto di memoria: gli oggetti interni sono “persone dentro la persona” che li ospita; come tali posseggono una loro esistenza emotiva autonoma, la stessa esistenza che li caratterizzò quando erano in vita. Se, al momento della morte, li abbiamo lasciati con problemi emotivi non risolti e carenze non colmate, ecco che il loro malessere si perpetua anche quando sono divenuti oggetti interni. Il dispiacere per la loro persistente sofferenza, ora, stimola la nostra immaginazione creativa. Tramite essa, possiamo aiutarli a proseguire e completare quei processi auto-riparativi che si erano interrotti con la morte.
Indipendentemente dalla nostra religiosità, dobbiamo ammettere che il credente (che prega per le anime dei defunti) è, in ogni modo, più vicino alla verità interiore di quanto lo sia l’ateo materialista.
Dante non può ancora parlare, rispondendo alle richieste di Forese, se questi non gli chiarisce la ragione di tanta magrezza. Perciò (“però”) lo prega di dirgli, per amor di Dio, che cosa consuma (“sfoglia”) lui e gli altri penitenti. Non gli chieda di parlare (“non mi far dir”) finché è in preda allo stupore (“mentr’io mi maraviglio”), poiché chi è dominato (“pien”) da un altro desiderio (“voglia”), con difficoltà (“mal”) può comunicare su un altro argomento.
Forese risponde che per disposizione divina (“dell’etterno consiglio”), scende (“cade”), nell’acqua e nella pianta rimasta (“rimasa”) dietro di loro, un potere (“vertù”) per cui lui (“ond’io”) dimagrisce (“m’assottiglio”) in questo modo (“sì”). Tutta questa (“esta”) gente che canta e piange per aver assecondato (“per seguitar”) la gola oltre misura, qui si purifica (“si rifà santa”) soffrendo la fame e la sete. A loro accende il desiderio (“cura”) di bere e mangiare il profumo che emana dal frutto (“pomo”) di quell’albero, e dallo spruzzo (“sprazzo”) d’acqua che si distribuisce (“si distende”) sopra le sue verdi foglie (“per sua verdura”). Non una sola (“pur”) volta si rinnova (“si rinfresca”) la loro pena, mentre percorrono girando questo ripiano (“spazzo”). Forese subito si corregge: ha detto pena, e dovrebbe dire gioia (“sollazzo”). Questo perché li conduce (“mena”) agli alberi quella stessa volontà (“voglia”) che condusse Cristo, lieto sulla croce, a dire ‘Dio mio’ (“Eli”) quando ci redense (“ne liberò”) col suo sangue (“con la sua vena”).
Pag. 353 – 354, vv. 58 – 75
Però mi di’, per Dio, che sì vi sfoglia:
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia.”
Ed elli a me: “Dell’etterno consiglio
cade vertù nell’acqua e nella pianta
rimasa dietro ond’io sì m’assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltre misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e dello sprazzo
che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena e dovrìa dir sollazzo,
ché quella voglia agli alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire “Elì”,
quando ne liberò con la sua vena.”
Chiarito che la sua perplessità, di fronte al viso deturpato di Forese, non è frutto di disgusto, ma di dispiacere (e, quindi, di benvolere), ora Dante può contare sui buoni sentimenti dell’amico, al punto di pregarlo di soddisfare la propria curiosità, prima di quella dell’altro.
Forese chiarisce che la volontà divina ha conferito alla pianta, e all’acqua che la bagna, il potere di rendere magri i penitenti. Tuttavia, in questi golosi del Purgatorio, la fame e la sete non sono più un puro e semplice tormento, ma divengono una sorta di martirio grazie al quale si stanno conquistando la grazia di Dio. Ecco perché Forese corregge la parola “pena” con “gioia”: se la fame e la sete ora servono a riconquistarsi il favore di Dio, ora perdono il loro carattere spiacevole, e divengono la premessa di un’eterna beatitudine.
Sia l’avidità insaziabile, sia la coazione al digiuno sono il frutto di un’interruzione dei rapporti con l’Oggetto interno ideale e/o di una ribellione nei suoi confronti. Tale Oggetto, erede dell’antica nutrice, in condizioni sane favorisce il contenimento nella giusta misura del desiderio di alimentarsi. In condizioni patologiche, alla nutrice arcaica viene proiettivamente (o realmente) attribuita la deprivazione di cibo, e la conseguente avidità del soggetto; ciò guasta la relazione con lei. Tuttavia, in persone ancora in parte sane, può verificarsi un miglioramento (spontaneo o favorito da una cura) del rapporto con l’Oggetto interno che ne è erede; miglioramento che, se progredisce, porta alla definitiva rappacificazione. In queste circostanze, il soffrire la fame e la sete rappresenta la condizione per riconquistarsi un ben più importante appagamento, di ordine affettivo, e perdono gran parte del loro carattere spiacevole. Lo perderanno del tutto quando il soggetto, riconciliatosi completamente con tale Oggetto arcaico, riacquista il senso della giusta misura nel nutrirsi.
La gioia dei penitenti, che ora vedono nella deprivazione di cibo un modo per purificarsi, è paragonata allo stato d’animo “lieto” di Cristo, quando sulla croce disse ‘Dio mio’ (“Eli”). C’è qui un’apparente contraddizione: la frase completa di Gesù è “Eli, Eli, lamma sabachtani?” (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?). Come può la gioia del martire (che pregusta la prossima beatitudine) essere paragonata alla penosissima sensazione di chi si sente abbandonato? Presumo che, in realtà, Dante voglia dire che Gesù sulla croce tolse, assumendoli su di sé, tutti i peccati e, quindi, tutte le sofferenze del mondo; e fra queste non poteva mancare quella più penosa di tutte (e fonte di ogni peccato): l’abbandono non solo da parte degli uomini, ma anche di Dio; abbandono, questo, sofferto paradossalmente da chi ne era il figlio.
Fatte le debite proporzioni (e se è lecito accostare il sacro al profano), un paradosso simile può verificarsi in un rapporto terapeutico. In esso il curante vive empaticamente, nel transfert/controtransfert, la stessa esperienza penosa d’abbandono di cui soffre il paziente. La vive pur restando, nel contempo, saldamente ancorato ai suoi oggetti interni, con il cui aiuto la crisi potrà essere superata.
Forese, rispondendogli, ha ormai accontentato l’amico; ma Dante, prima di rispondere a sua volta, vuole soddisfare un’altra sua curiosità: fa presente a quell’ombra che dal giorno in cui passò dalla vita terrena (“mondo”) ad un’esistenza migliore, fino al momento presente (“a qui”) non sono ancora trascorsi (“volti”) cinque anni. Se in Forese venne meno la possibilità (“la possa”) di peccare ulteriormente (“più”) prima che sopraggiungesse (“sorvenisse”) l’ora del pentimento (“del buon dolor”) che ci riconcilia (“ne rimarita”) con Dio [ossia, se si pentì solo nel momento estremo della vita, quando non era più possibile peccare], come mai è già (“ancora”) quassù, nel monte del Purgatorio? Dante pensava di trovarlo laggiù, nell’antipurgatorio, dove al tempo perduto [senza pentirsi] si pone rimedio (“si ristora”) con altrettanto tempo di attesa [prima d’iniziare la purificazione].
Pag. 354, vv. 76 – 84
Ed io a lui: “Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu’anni non son volti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sorvenisse l’ora
del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu qua su venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto
dove tempo per tempo si ristora.”
Forese risponde con parole che esprimono tutto il ritrovato affetto verso la moglie. Ad assaporare la dolce amarezza delle pene (“a ber lo dolce assenzio de’ martiri) l’ha condotto così presto (“sì tosto”) la sua Nella col le sue calde lacrime (“con suo pianger dirotto”). Con le sue preghiere (“prieghi”) devote e coi sospiri la donna lo ha tratto dall’antipurgatorio (“della costa ove s’aspetta”) e lo ha liberato dal passaggio attraverso le cornici sottostanti (“delli altri giri”). La sua “vedovella”, che Forese ha amato intensamente, è tanto più cara e diletta a Dio quanto più è sola (“soletta”) nel bene operare.
0Pag. 354 – 355, vv. 85 – 93
Ond’elli a me: “Sì tosto m’ha condotto
a ber lo dolce assenzo de’ martiri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ha della costa ove s’aspetta,
e liberato m’ha delli altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
In passato, fra i due amici, c’era stata una scherzosa “tenzone”, fatta di versi satirici rivolti l’uno all’altro. In questa, Dante aveva ingiustamente offeso la moglie di Forese, rappresentandola come persona insignificante e ponendola, perciò, “nella condizione mortificante di una donna trascurata dal marito” (cit.). Ora per voce di questi, il Poeta esprime, nei confronti di Nella, ben altri sentimenti e la massima stima.
Questa donna, come viene qui rappresentata, non è una persona qualsiasi nella vita terrena e soprattutto in quella ultraterrena di Forese: grazie alle sue preghiere, ed alla virtù per cui si è conquistata il favore di Dio, ha avuto il potere di far passare il marito in Purgatorio dopo un’attesa relativamente breve, facilitando, così, il suo processo di purificazione.
Come spiegare il cambiamento di opinione e di sentimenti di Forese? In generale, la donna non è mai vissuta come un essere umano qualsiasi: sia che siamo maschi, sia che siamo femmine, siamo stati tutti bambini della mamma, ossia di un essere vissuto, all’inizio della vita, come onnipotente; una sorta di “divinità” da cui può provenire tanto ogni bene, quanto ogni male. Proprio perché vediamo in lei almeno un poco della madre arcaica, non sempre è facile giudicare in modo equilibrato una donna: si tende ad idealizzarla, vedendola come “fata” (la madre benefica ideale), oppure come “strega” (la madre malvagia e traditrice). Anche nei confronti della donna cui si è affettivamente legati, è quasi sempre presente una certa dose di ambiguità dei sentimenti, soprattutto da parte del suo uomo. Dai versi riportati qui sopra e da quelli che seguono, si ricava l’idea che Forese sia stato dominato da un forte conflitto d’ambivalenza verso il sesso femminile; conflitto, nei confronti della moglie, cui in un primo tempo sfuggì disinvestendola affettivamente e, perciò, considerandola con indifferenza e trascurandola. Successivamente, avvertendo, forse perché prossimo alla morte, il bisogno di un affetto femminile-materno, si riavvicinò alla coniuge e, anche sulla base di buone qualità reali della donna, se ne creò un’immagine idealizzata. Ciò fu possibile anche grazie al meccanismo arcaico della scissione, per cui il suo disprezzo e la sua avversione, avvertiti originariamente nei confronti della madre arcaica persecutoria, si riversarono su altre donne.
La sua Nella – prosegue Forese – è da considerarsi eccezionalmente virtuosa e ciò è nettamente in contrasto con la maggior parte delle altre donne. Persino la Barbagia di Sardegna, nel costume delle sue femmine, è più pudica di Firenze, ossia la “Barbagia” dove egli lasciò la moglie morendo. [La Barbagia era una regione montuosa della Sardegna centrale, i cui rozzi abitanti ebbero, nel medioevo, la fama (probabilmente immeritata) di barbari licenziosi]. Rivolgendosi a Dante, Forese lo chiama dolce fratello (“frate”), e gli chiede che altro vuole che gli dica di peggio. Gli è già davanti agli occhi (“nel cospetto”) un tempo futuro rispetto al quale quest’ora presente non è molto lontana (“antica”). In esso, dal pulpito (“in pergamo”) sarà solennemente proibito (“interdetto”) alle sfacciate donne fiorentine d’andare in giro mostrando il petto con le mammelle scoperte.
Quali donne barbare, quali saracene ci furono (“fuor”) mai, cui fossero necessarie (“cui bisognasse”), per farle andare (“ir”) coperte, sanzioni (“discipline”) religiose (“spiritali”) o civili (“altre”)? Ma se quelle svergognate venissero a sapere (“fosser certe”) quel che il cielo prepara entro breve (“veloce… ammanna”) per loro, avrebbero (“avrìen”) già la bocca aperta per urlare di spavento. Se non lo inganna la sua preveggenza (“l’antiveder”), esse saranno (“fien”) dolenti (“triste”) prima che il bambino (“colui”) che ora (“mo”) si acquieta (“si consola”) col canto della ninna nanna (“con nanna”) diventi adulto (“le guance impeli”).
Pag. 355 – 356, vv. 94 – 111
ché la Barbagia di Sardigna assai
nelle femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
alle sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ‘l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrìen le bocche aperte;
ché se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.
Compaiono, qui, le problematiche legate all’oralità (appropriate alla cornice dei golosi), associate all’influenza che l’immagina della madre arcaica esercita su quella della donna. L’invettiva di Forese si rivolge alle donne fiorentine ed al loro costume di mostrarsi in pubblico indecentemente scollate, facendo mostra dei seni. Le parti del corpo che, nell’allattamento, servono a mediare un rapporto intimo ed esclusivo fra la madre affettuosa e il suo piccolo, da queste “svergognate” (immagini della madre traditrice e malvagia, scissa da quella benevola) vengono impiegate allo scopo di attirare sessualmente gli uomini che le vedono. Il bambino che c’è in Forese (e in Dante) non può tollerarlo, ed egli augura e prevede che un giorno non lontano queste donne “degenerate” verranno punite severamente.
Viene da chiedersi quale può essere, nella mente di Dante, la persona o l’avvenimento che punirà l’impudicizia. Forse un’autorità religiosa, dal suo pulpito? Forse un “veltro”, detentore di un potere politico? L’immagine, illustrata nell’ultimo verso, del neonato divenuto adulto, fa piuttosto pensare che, a castigare le femmine impudiche, sarà il tempo: senza eccezioni, esso piegherà la superbia e l’arroganza delle donne che si sentono forti per le loro capacità seduttive. Divenute vecchie, queste persone dovranno rinunciare al loro esibizionismo; al costo, se si rifiutano di farlo, di diventare penose e ridicole. Diverrebbero motivo non più di gelosia, ma di vergogna per il figlio cresciuto.
Forese ha risposto ampiamente alle domande di Dante, e ora si sente autorizzato a ripetere le proprie. Sempre chiamando fratello (“frate”) il Poeta, lo prega di non continuare a celargli quel che gli ha chiesto. Vede, Dante, che non solo (“pur”) lui, ma tutta la schiera dei penitenti guarda con stupore (“rimira”) il luogo (“là”) dove la sua ombra vela il sole [segno che il Poeta possiede un corpo vivente]. Dante si rivolge a lui dicendogli che se richiama alla memoria (“riduci a mente”) la vita che condussero insieme, il ricordarla ora (“il memorar presente”) sarà ancora spiacevole (“grave”).
Pag. 356, vv. 112 – 117
Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove ‘l sol veli.”
Per ch’io a lui: “Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.
Dante ricorda con amarezza il periodo della vita dissoluta che condusse con l’amico. Riportarlo alla mente è ancora penoso, benché Forese si trovi già in un luogo di salvezza, e Dante sia sulla via di raggiungere Dio. Per distogliersi dalla loro vita traviata, i due amici seguirono percorsi diversi. Forese ha appena descritto sommariamente il suo; ora Dante illustra il proprio percorso, soffermandosi soprattutto sul ruolo di Virgilio.
Distolse Dante (“mi volse”) da quella vita viziosa [la “selva oscura”], solo pochi giorni fa (“l’altr’ier”), costui che lo sta guidando (“va innanzi”), quando a loro si mostrava piena (“tonda”) la luna, la sorella (“suora”) di quello: così dice indicando il sole. La sua guida ha condotto il Poeta attraverso la notte profonda dei veri morti [l’inferno, avvolto nelle tenebre eterne, abitato dai morti “veri” perché defunti non solo nel corpo, ma anche nell’anima], mentre lui, Dante, portava con sé il suo corpo reale (“vera carne”) che lo segue (“che ‘l seconda”). Di lì (“indi”) gli incoraggiamenti (“conforti”) di questo spirito l’hanno aiutato a salire sul monte del Purgatorio, e a girarne ripetutamente le cornici; questo monte che raddrizza le anime che il mondo rese storpiate (“fece torti”). La guida di Dante gli promette d’accompagnarlo (“farmi sua compagna”) finché (“tanto… che”) non sarà giunto là dove sarà (“fia”) Beatrice; lì (“quivi”) è necessario (“convien”) che il Poeta resti (“rimagna”) privo di lui (“sanza lui”).
Pag. 356 – 357, vv. 118 – 129
Di quella vita mi volse costui
che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui”,
e ‘l sol mostrai. “Costui per la profonda
notte menato m’ha di veri morti
con questa vera carne che ‘l seconda.
Indi m’han tratto su li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che ‘l mondo fece torti.
Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò la dove fia Beatrice:
quivi convien che sanza lui rimagna.
Il percorso di Dante verso la salvezza, a differenza di quello di Forese, si caratterizza per il ruolo importante svolto da una figura paterna protettiva: Virgilio. L’amico di Dante, per affrontare il conflitto d’ambivalenza riguardante la moglie e le donne, è ricorso al meccanismo arcaico della scissione. Il risultato è che, mentre la sua Nella idealizzata diviene oggetto di stima e amore, rimangono in Forese sentimenti di avversione e disprezzo verso le altre donne, accusate d’impudicizia. Queste sono le eredi della figura materna traditrice e persecutoria; figura scissa da quella benevola. Non c’è, nelle sue vicende, una terza figura ben definita. C’è solo un personaggio, la cui identità non è ben chiara (oppure un’entità impersonale: il tempo) che si limiterà a punire le “svergognate”, ma non offrirà a Forese un autentico aiuto a crescere.
Il percorso di Dante (o, meglio, della parte più sana del Poeta) gli consente di conseguire un più alto livello di maturità. Qui la figura paterna del saggio Virgilio permette a Dante di accedere ad un rapporto più evoluto con la donna.
Una premessa: come si è detto, Dante perse la madre all’età di sei anni. Dobbiamo pensare che nel piccolo Alighieri si verificò lo stesso cambiamento interiore con cui l’essere immaturo evita (temporaneamente) di soffrire il dolore del lutto, per lui insopportabile (Winnicott): la madre divenne per lui “veramente” morta, ossia soppressa anche come oggetto interno. “La mamma non esiste, non è mai esistita, e per un essere che non esiste non posso provare né piacere né dolore”. Nel contempo, in questi casi, muore anche la parte del piccolo la cui esistenza è legata a quella della genitrice. Egli, per rassicurarsi d’essere ancora in vita, deve “toccare” la realtà concreta del suo corpo.
Tutto questo è adombrato, in termini poetici, nei versi in cui Dante racconta che Virgilio condusse la “vera carne” del suo corpo nella notte profonda dei “veri” morti.
Tramite la sua ispirazione poetica, sostenuta idealmente dal padre Virgilio, Dante ridiede vita alla parte di lui stesso (identificata coi dannati) che era morta insieme alla madre; una parte di lui, che aveva amato la genitrice; parte che è necessario far rivivere e purificare dai suoi peccati per raggiungere un’altra donna: Beatrice, oggetto del suo amore adulto.
C’è un altro aspetto del benefico apporto paterno (riproposto da Virgilio) che il Poeta, in gran parte, lascia sottinteso. Data la scomparsa precoce della madre, il piccolo Alighieri, per ricostruire il rapporto fra i genitori, dovette ricorrere soprattutto alla propria immaginazione creativa sostenuta dall’intuizione. Ciò non gli consentì di rappresentarsi tale rapporto con parole e pensieri precisi. Tuttavia il risultato fu quello di una crescita sana, del tutto simile a quella di coloro che ebbero la fortuna di disporre di genitori vivi, presenti e animati da buoni sentimenti reciproci.
Il padre, in condizioni sane, offre ai figli il modello del rapporto con una donna che ora appare molto diversa dalla “divinità” benefica o malefica (come la madre viene percepita nella visione primitiva dei piccoli); è evidente che il padre vede nella genitrice un essere umano non più idealizzato in misura eccessiva, né demonizzato; un essere umano che si può amare senza timore. Tale modello di rapporto, emulato dai figli, consente loro di superare in gran parte il conflitto d’ambivalenza nei confronti della madre e delle donne.
Virgilio, come guida, si ritira e viene a mancare al Poeta alla comparsa di Beatrice. Dante lo spiega in base al fatto che il suo maestro, in quanto non battezzato, non può accedere al Paradiso. Tuttavia, se tale fatto viene ricondotto alla nostra vita terrena, possiamo ravvisarvi un ulteriore segno della saggezza paterna: quando il figlio è sufficientemente cresciuto, ed esce dalla situazione triangolare edipica per accedere ad un affetto adulto, è bene che i genitori si ritirino dalla scena. L’inevitabile dispiacere della separazione è accresciuto, in Dante, dalla scomparsa del padre terreno avvenuta quando egli aveva diciassette anni. Il genitore, perciò, non poté assistere all’ulteriore crescita affettiva del Poeta.
Dante completa ora la sua risposta alla domanda di Forese: colui che gli fa tali promesse (“così mi dice”) è Virgilio, e glielo addita. L’altro (Stazio) è designato con una perifrasi: è quell’anima per la quale poco fa (“dianzi”) scosse le sue pendici il monte del Purgatorio, che lo libera (“sgombra”) da sé.
Pag. 357, vv. 130 – 133
Virgilio è questi che così mi dice;”
e addita’lo “e quest’altro è quell’ombra
per cu’ iscosse dianzi ogni pendice
lo vostro regno, che da sé lo sgombra.”
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