Il carcere, da sempre luogo fisico di reclusione e privazione, si rivela nel cinema contemporaneo anche spazio di riflessione etica, trasformazione personale e crisi sociale. Alcuni film italiani recenti affrontano il tema della detenzione da prospettive differenti ma profondamente complementari. Al centro dei temi affrontati vi è la tensione tra costrizione e libertà interiore, tra individuo e istituzione, tra silenzio e possibilità di espressione, disegnando un mosaico complesso in cui il carcere smette di essere solo sfondo e diventa protagonista simbolico della condizione umana.
Ariaferma (2021) è uno di questi film. Con la regia di Leonardo Di Costanzo, vanta nel cast i due attori Toni Servillo e Silvio Orlando. Il film è stato premiato con due David di Donatello 2022 al miglior attore protagonista (Silvio Orlando) e migliore Sceneggiatura Originale.
In un vecchio carcere ottocentesco ormai in via di dismissione, un gruppo di detenuti rimane bloccato a causa di un ritardo burocratico nella redistribuzione verso altri istituti. Anche alcuni agenti penitenziari sono costretti a restare per garantire l’ordine, nonostante la struttura sia ormai semivuota e isolata.
L’ambientazione sospesa e claustrofobica diventa metafora di un sistema bloccato, dove la legge e l’umanità si confrontano in assenza di riferimenti chiari. I protagonisti sono l’ispettore Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), uomo di regole, e Carmine Lagioia (Silvio Orlando) un carismatico detenuto condannato all’ergastolo. Con il passare dei giorni, le dinamiche tra detenuti e guardie si trasformano. Senza la rigidità del quotidiano carcerario e sotto la pressione dell’incertezza, le relazioni si umanizzano. Non mancano tuttavia tensioni, incomprensioni, e momenti di sfida.
Ariaferma è un film profondamente simbolico, che si interroga sul carcere come spazio mentale e non solo fisico, dove la vera libertà risiede nella capacità di riconoscere l’altro come simile, anche nel silenzio. Il regista Leonardo Di Costanzo costruisce una tensione sottile tra regole sospese e relazioni incerte, dove l’umanità dei personaggi si manifesta proprio nell’ambiguità del contesto. L’ambientazione diventa una metafora di stasi, di vuoto normativo e affettivo. È in questo clima sospeso che emergono sfumature inaspettate nei personaggi.
L’agente Gargiulo è forse la figura più esposta a questa crisi di ruoli: si spinge oltre i confini rigidi del suo compito, cercando un contatto più umano con i detenuti. Il boss La Gioia, apparentemente freddo e manipolatore, accetta di partecipare alla fragile convivenza non tanto per convinzione etica, ma per non cedere autorità nei confronti di chi dovrebbe servirgli.
Il film evita ogni tentazione buonista: i cambiamenti sono minimi, lenti, mai spettacolari. Il rischio di un’esplosione di violenza, di un ritorno al caos, è sempre presente, quasi trattenuto a fatica sotto la superficie. Il finale, volutamente ellittico, non offre risposte ma lascia emergere la domanda fondamentale: è davvero possibile una convivenza fondata sull’ascolto e non sulla forza?
Non è un caso che il cambiamento avvenga attraverso il cibo, infatti lo scardinamento dei ruoli avviene quando Lagioia si mette a cucinare, perché il cibo è convivialità e conoscenza dell’altro. La tensione che rimane alta per tutto il film viene meno durante la cena, quando detenuti e agenti si siedono l’uno accanto all’altro e si ascoltano. Complice un black-out, gli uomini al buio sono tutti uguali, non hanno diverso colore della pelle, non si vedono i loro vestiti, gli uomini al buio si devo fidare solo del loro istinto e hanno tutti paura. In un altro momento di un’ultima cena caravaggesca grazie all’illuminazione con le torce, succederà l’impossibile: “Stasera gli agenti e i detenuti stanno mangiando assieme. Questa è una cosa che non ho mia visto in vita mia” dirà Lagioia.
Questo film mi impone due paragoni, o due assonanze. Possiamo da un lato pensare ad un parallelo tra il film e “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Il carcere in via di dismissione, in cui pochi detenuti e agenti restano confinati senza sapere quando né come usciranno, è una scena beckettiana. I dialoghi scarni, i gesti ripetuti, il clima di sospensione normativa e psicologica richiamano l’atmosfera rarefatta e inquieta della pièce teatrale. Anche qui l’attesa non è solo temporale, ma esistenziale: cosa si aspetta? Un cambiamento? Un gesto risolutivo? Nessuno lo sa. E proprio in questo vuoto si crea una possibilità inedita di incontro tra opposti – tra guardia e detenuto, tra legge e umanità – come accade tra i due protagonisti del dramma di Beckett, capaci di sostenersi pur non comprendendosi pienamente.
Beckett non è solo un riferimento culturale: è una chiave interpretativa per comprendere la dimensione profonda della detenzione, non come luogo di punizione, ma come metafora dell’attesa infinita che segna ogni condizione umana sospesa tra speranza e disillusione.
Un altro rimando in questo senso è “Il deserto dei Tartari” (1976) con la regia da Valerio Zurlini e tratto dal romanzo omonimo di Dino Buzzati, dove l’attesa di qualcosa che non forse avverrà produce uno spaesamento.
L’altro riferimento a cui accosto questo film è la canzone “Don Raffaè” di Fabrizio De Andrè, monologo in forma di canzone pronunciato dal secondino Pasquale Cafiero che lavora nel carcere di Poggioreale, dove è detenuto don Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata. Il secondino, in modo affettuoso, racconta il suo rapporto con Don Raffaè, mettendo in evidenza la sudditanza dello Stato verso il potere carismatico e corruttivo del boss. Don Raffaè è il detenuto che comanda più dei secondini, proprio come Carmine Lagioia in Ariaferma: un uomo rispettato (e temuto), che gestisce i rapporti e tiene in equilibrio il sistema carcerario. È “lui” che dà le sigarette, che protegge, che garantisce sicurezza e “ordine”.
Questo capovolgimento dei ruoli, apparentemente grottesco, è anche uno dei temi centrali in Ariaferma, dove Gargiulo inizia come autorità, ma finisce per avvicinarsi umanamente a Lagioia, spingendosi ai margini del proprio ruolo. Il detenuto e l’agente di polizia si ritrovano a parlare del proprio passato e dell’infanzia trascorsa a Napoli nello stesso quartiere.
“Don Raffaè” e Ariaferma affrontano lo stesso nodo etico e politico, ma con linguaggi molto diversi: De André usa l’ironia, la canzone popolare, la satira per svelare la perversione dei ruoli e l’ipocrisia dello Stato, mentre Di Costanzo sceglie il silenzio, la sospensione, lo sguardo umano per osservare il lento spostamento dei confini morali in un carcere dove tutto è incerto.
Nel film l’avvicinamento tra gli opposti avviene tramite la condivisione del cibo, mentre nella canzone di De Andrè il contatto tra carceriere e detenuto è simboleggiato dal caffè. Il secondino Pasquale Cafiero ammira Don Raffaè e si affida a lui chiedendogli consiglio e raccomandazioni, il tutto mediato dalla tazzina di caffè. È una relazione ambigua, in cui il carceriere finisce per essere quasi un servitore del detenuto. Le parole del secondino sono:
…alla fine m’assetto papale
Mi sbottono e mi leggo ‘o giornale
Mi consiglio con don Raffae’
Mi spiega che penso e bevimm’ ‘o café
Ah, che bell’ ‘o cafè
Pure in carcere ‘o sanno fa
Co’ a ricetta ch’a Ciccirinella
Compagno di cella, c’ha dato mammà.
In entrambe le opere vi sono gesti “non carcerari” in un contesto carcerario: la loro forza sta proprio nel fatto che non sono dovuti, né richiesti. Accadono ai margini delle regole, in un vuoto che permette all’umano di affiorare.
Ma c’è anche una differenza profonda: in Ariaferma, l’avvicinamento è simmetrico e silenzioso, legato alla terra e al corpo. È fragile, provvisorio e cauto. In Don Raffaè, l’avvicinamento è sbilanciato, ironico e “seducente”: Don Raffaè domina la relazione, il secondino è fascinato e subordinato.
In entrambi i casi, tuttavia, la ritualità del gesto domestico spezza per un attimo la logica binaria del carcere (guardia vs detenuto).
0 commenti