Con Tre ciotole (2025) Isabel Coixet torna a parlare di ciò che più le appartiene: la vita che resiste, silenziosa, dentro il dolore. Il film è tratto dall’ultimo libro Tre ciotole di Michela Murgia (Einaudi, 2023), uscito poco prima della sua morte, e nasce da un’idea narrativa ambiziosa: fondere in un’unica storia i diversi racconti del romanzo. Il risultato è in effetti un film intimo e coerente, dove i frammenti dell’opera letteraria si condensano nella figura femminile di Marta, interpretata con straordinaria sensibilità da Alba Rohrwacher.
La protagonista è un’insegnante di liceo, chiusa, ansiosa, piena di insicurezze. Vive con un compagno (interpretato da Elio Germano) più socievole e vitale, e proprio questa differenza mina il loro rapporto: lui cerca il mondo, lei tende a sottrarsi. Quando la relazione finisce, la donna sprofonda in una depressione che si manifesta anche nel corpo — nausea, vomito, un rifiuto quasi fisico del vivere. In realtà si apprende abbastanza presto che tali sintomi sono dovuti ad un cancro ormai giunto al quarto stadio.
La diagnosi di cancro arriva come uno spartiacque: non una condanna, ma un punto di verità. Pur cercando di aggrapparsi alla speranza di una medicina, Marta inizia a fare i conti con il tempo che le resta da vivere. Inizia un lento ritorno alla vita attraverso piccoli gesti, come il rituale delle tre ciotole: si prepara da mangiare, si prende cura di sé, ricompone una quotidianità che aveva lasciato andare. Il corpo, che prima era il luogo della malattia, diventa così spazio di riconciliazione. Paradossalmente, Marta appare quasi grata per quella diagnosi — e persino per l’abbandono del compagno. Entrambi gli eventi, pur dolorosi, diventano occasioni di rinascita, momenti in cui la vita la costringe a guardarsi dentro e a scoprire una nuova sé. È come se la malattia e la solitudine le restituissero un diritto dimenticato: quello di scegliersi, di sentirsi viva, anche nella fragilità.
Accanto a lei assume anche nuovo significato un collega di filosofia, uomo schietto, ironico e innamorato, che le offre un modo più leggero di guardare al mondo. Inoltre Marta inizia a interessarsi alle persone che sono attorno a lei, e così facendo si interessa a due studentesse che si tagliuzzano le braccia, comprendendo che riconoscere il dolore degli altri è il primo passo per non esserne più prigionieri.
In questo processo di trasformazione, Marta si costruisce un confidente muto, Jirco, un cartonato a figura intera di un cantante coreano K-pop, a cui si rivolge per confidare pensieri, speranze, dolori e preoccupazioni. Direi che questa è l’invenzione più originale del film, peraltro ripresa dai racconti di Michela Murgia. Il cartonato svolge pienamente la funzione di oggetto transizionale, secondo la definizione di Donald Winnicott. Non è solo un espediente narrativo per rappresentare la solitudine della protagonista Marta, ma un dispositivo psichico: un ponte fra la realtà interna e quella esterna, fra il bisogno affettivo e la possibilità di separarsene.
Come ogni oggetto transizionale, Jirko nasce nel momento di assenza dell’altro. Marta, svuotata dalla separazione sentimentale e dalla malattia, ha bisogno di un referente che riempia la mancanza, ma che non opponga resistenza. Jirko è silenzioso e disponibile, “servitore muto”: non giudica, non contraddice, accoglie ogni parola come se fosse consenso. In questo modo diventa il contenitore delle sue proiezioni di angoscia e di desiderio.
La scelta di una pop-star coreana amplifica il valore simbolico: Jirko appartiene a un universo culturale distante, idealizzato, privo di conflitto. È l’immagine pura, bidimensionale, del controllo e dell’armonia — l’esatto contrario della vita disordinata di Marta. Il suo corpo di cartone rappresenta l’impossibilità del contatto reale, ma anche la sicurezza che offre la finzione: si può parlare con lui senza il rischio della risposta.
Quando Marta inizia a riemergere, il cartonato perde progressivamente la sua funzione. Come ogni oggetto transizionale, può essere messo da parte: non distrutto, ma “riposto nell’armadio”, segno che la soglia tra bisogno e autonomia è stata attraversata. Nel momento in cui Jirko “prende forma umana” e lascia la casa si compie il rito di passaggio: l’immagine-oggetto diventa un essere vivente solo per potersi separare. È la fase finale del processo transizionale, in cui l’oggetto cessa di essere proiezione e ritorna al mondo esterno, lasciando il soggetto capace di stare da solo.
Come già nei suoi film precedenti La mia vita senza me e La vita segreta delle parole, la regista Coixet affronta i temi della malattia, della morte e della rinascita con un pudore raro. La regista catalana filma il silenzio come se fosse un linguaggio: la luce sulle mani che cucinano, una stanza in penombra, il suono dell’acqua che bolle diventano frammenti di un’esistenza che torna a vibrare.
In tutta la filmografia di Isabel Coixet dedicata al protagoniste femminili – da La mia vita senza me a La vita segreta delle parole, fino a Tre ciotole – la morte non è mai un evento conclusivo, ma una presenza sottile e costante che attraversa la vita, modificandone la densità. È una morte che non uccide, ma insegna; una compagnia silenziosa che obbliga a riconsiderare il valore dei gesti minimi e della parola. Le donne della Coixet non “muoiono”, piuttosto abitano la soglia fra la vita e la sparizione, trasformando il confine in spazio di consapevolezza.
In La mia vita senza me, la morte si manifesta nella sua forma più esplicita e tangibile. Ann, giovane madre operaia, riceve la diagnosi di un cancro incurabile e decide di vivere in modo pieno il tempo che le resta. La Coixet evita ogni enfasi melodrammatica: la malattia non è rappresentata visivamente, ma filtrata attraverso la quotidianità, la dolcezza dei gesti e la calma dell’accettazione. Due anni dopo, con La vita segreta delle parole, Coixet sposta la morte dal futuro al passato. Hanna non sta per morire: è sopravvissuta. Il suo corpo, marchiato dalla guerra e dalla violenza, è quello di una donna che ha già attraversato la soglia e ne porta addosso le cicatrici. Se Ann imparava a vivere in vista della fine, Hanna impara a vivere dopo la fine, a riconnettere parole e sensazioni che la paura aveva messo a tacere. In Tre ciotole, la prospettiva della morte si manifesta come antidoto ad una vita depredata di significato. Il cartonato diventa, in questo senso, la materializzazione più radicale della morte come interlocutrice: è presenza senza voce, figura che ascolta e tace, simulacro che permette alla protagonista di ritrovare la propria voce.
In tutti e tre i film, la morte produce lo stesso effetto: quando il corpo tace, nasce la voce. Le protagoniste parlano, registrano, sussurrano, scrivono, si confidano con qualcuno – reale o immaginario – per non sparire. È attraverso la parola che la Coixet restituisce alla morte la sua funzione originaria: non chiudere, ma trasformare. E così la sua trilogia diventa un lungo esercizio di sopravvivenza poetica, in cui morire significa, paradossalmente, cominciare davvero a vivere.
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