Percorso: Home 9 Clinica 9 Comunità Terapeutiche 9 dalla parte del volontario

dalla parte del volontario

20 Gen 13

Di

L'esperienza delle Comunità del Centro di Accoglienza don Vito Sguotti di Carbonia)

di Antonio Cesare Gerini

(Relazione introduttiva sul tema: Alcolismo e malattia mentale – Esperienze a confronto – esposta il 15 Dicembre 1998 all'assemblea del volontariato in occasione dell'inaugurazione del Sasol Point n°9 del Centro di Servizio per il Volontariato Sardegna Solidale.)

 

 

1) INTRODUZIONE E CASISTICA

In questo primo incontro col mondo del volontariato sardo sul tema, Malattia Mentale, Alcolismo e Tossicodipendenza, desidero affrontare queste problematiche non tanto come medico psichiatra che opera all'interno di un Servizio Tutela Salute Mentale e in un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (SPDC), ma invece come volontario di un'Associazione, quella del Centro di Accoglienza di Carbonia, che nei suoi 17 anni di lavoro ha seguito nei suoi Centri di ascolto e ospitato all'interno delle sue Comunità numerosi disturbati mentali, alcolisti e, anche se in grado decisamente minore, tossicodipendenti.

Come sapete le Comunità del Centro di Accoglienza di Carbonia, sono due. La Comunità Alloggio femminile (20 posti), che accoglie, in regime di autogestione, donne in difficoltà con la maternità, oppure donne che, per ragioni varie, si trovano per la "strada" prive di risorse e di assistenza. Il Centro di Pronto Intervento maschile (10 posti), accoglie uomini che, anch'essi in difficoltà e privi di risorse, si sono trovati a vivere come barboni, per la strada. Il Centro di pronto Intervento ospita tali persone in determinate fasce orarie, cioè dalle ore 12 alle ore 9,30 del giorno successivo. Infatti dalle ore 10 alle 12 la comunità viene chiusa per permettere al personale che ci opera di svolgere le pulizie giornaliere. Pur essendo un Centro di Pronto Intervento e quindi un luogo provvisorio di soggiorno essendo stato pensato per "l'urgenza sociale", esso, col passare del tempo, va sempre più assumendo, soprattutto nei confronti di alcune tipologie di persone, la fisionomia di un luogo stabile di riferimento. La provvisorietà dell'intervento si allunga quindi e si modifica a seconda delle esigenze delle singole persone ospitate.

Prima di decidere su come impostare questo intervento sono andato a rivedermi "la casistica psichiatrica" di queste Comunità. Quanti disturbati mentali, cioè, in questi 17 anni di lavoro per la Comunità Alloggio e 2 anni per il Centro di Pronto Intervento, sono passati ed hanno instaurato rapporti con i volontari che operano nelle comunità; e soprattutto ho voluto accertare in quale numero e di che tipo siano state le diagnosi psichiatriche poste dai Servizi specialistici pubblici o privati preposti a fare ciò. E' evidente quindi che le diagnosi psichiatriche saranno necessariamente sottostimate e minoritarie rispetto alla totalità degli ospiti, in quanto non tutte le persone ospitate, presentanti disturbi importanti del comportamento, avranno diagnosi psichiatriche "ufficiali", non avendo, un discreto numero di ospiti, mai incontrato uno psichiatra, e avendo evidentemente "ammortizzato" il loro disagio psichico proprio all'interno delle comunità; e poi perché, la maggioranza degli ospiti è, sotto questo profilo, decisamente sana.

Prima, quindi, di procedere oltre nelle riflessioni che voglio proporvi si può dare un rapido sguardo a tale "casistica:

 

 

Totale persone ospitate in 17 anni: n°270

 

Psicosi: n°34

di cui

-Schizofreniche: n°18

-Schizoaffettive croniche: n°10

-Psicosi associate a alcolism.e tossicodip.n°6

 

Gravi disturbi della personalità: n°24

 

Ritardi Mentali: n°4

 

Disturbi Mentali Organici: n°1

 

Tossicodipendenza senza ulteriore specificazione: n°11

 

Alcol-dipendenza senza ulteriore specificazione : n°13

 

 

Attualmente sono Ospiti presso le due strutture del Centro di Accoglienza:

 

CENTRO DI PRONTO INTERVENTO (10 posti)

-n°1 Psicosi schizofrenica disorganizzata: .

-n°3 Ritardo mentale:

-n°1 Disturbo distimico:

-n°1 Alcol-dipendenze:

-n°4 Psicosi associate a alcoldip.e tossicodip

 

A ciò si aggiunga che uno dei custodi del Centro, precedentemente ricoverato continuativamente per oltre un anno presso il locale Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) per un "Disturbo paranoideo e alcol abuso", ha trovato proprio in questo suo ruolo di custode un importante motivo di equilibrio alla sua condizione.)

 

COMUNITA' ALLOGGIO FEMMINILE (20 posti)

-n°2 Psicosi schizofreniche

-n°1 Psicosi non specific.

-n°1 Disturbi personalità

-n°1 Alcol-dipendenza

 

(E' da precisare che nella Comunità Alloggio Femminile il numero di ospiti con disturbi mentali importanti non può superare, per regolamento e per ragioni di metodo di lavoro, il numero di un quarto delle ospiti totali.)

 

2) I DUE MODI DI AFFRONTARE IL PROBLEMA

Affrontare dunque il problema come volontario di un Centro che si occupa, ma non soltanto e non soprattutto, di tali problematiche, mi ha permesso anche di riconsiderare la mia posizione e conseguentemente la mia prassi psichiatrica che quotidianamente, a causa del mio lavoro istituzionale, devo condurre. Sono portato infatti a valutare questi problemi secondo un angolo di veduta, quello dei volontari che si occupano di ciò, diverso da quello che abitualmente tengo come professionista che cura queste patologie.

Credo che infatti il problema possa essere visto sotto due angolature diverse, che hanno entrambe una loro specifica dignità, pur muovendosi su piani di riflessione e di pratica autonoma, non facilmente integrabili nè auspicabilmente, sempre, doversi integrare.

Ma mentre ciò è facilmente osservabile nel campo delle tossicodipendenze e dell'alcolismo dove i piani di intervento (che chiamiamo provvisoriamente) istituzionali – Sert, strutture terapeutico -assistenziali del sistema sanitario pubblico e privato, – e non istituzionali, – comunità terapeutiche, gruppi di auto-mutuo -aiuto -, sono decisamente e facilmente delimitabili; stessa cosa non avviene nel campo delle malattie mentali, dove avvengono con frequenza trasposizioni e sconfinamenti di campo, sopravvalutazione di modi e di metodi. E' facile infatti qui vedere sudditanza culturale di una componente (perlopiù quella non istituzionale) rispetto all'altra.

 

Il punto di vista "professionalizzato".

Ovvero la persona come malato

Questo è il modo in cui affrontano il problema i professionisti che lavorano all'interno dei vari servizi socio- sanitati oppure nel campo della medicina e psicologia privata. Esso considera il soggetto col disturbo mentale sotto il profilo della malattia. Lo considera un malato, un paziente. Le sue parole chiave saranno "diagnosi" "cura" "riabilitazione" o "assistenza".

Il paziente lo si declina con la malattia corrispondente: esso avrà un "disturbo schizofrenico disorganizzato", un "disturbo bipolare, maniacale" "un disturbo da dipendenza alcolica" oppure "una personalità border-line"; proprio come ho fatto nell'introduzione della relazione dove ho citato la "casistica" del Centro..

La terapia potrà essere di tipo farmacologico: un antipsicotico di nuova generazione o un neurolettico depot, un SSRI, del litio carbonato, un farmaco anti-craving oppure una semplice benzodiazepina. O di tipo psicoterapico: una psicoterapia comportamentale, cognitiva, analitica; una combinazione tra farmaco e psicoterapia.

Infine la riabilitazione che prevede percorsi vari e il cui limite scivola impercettibilmente nel secondo modo in cui si affronta il problema.

 

Il punto di vista "non professionalizzato".

Questo è il secondo modo di affrontare il problema, quello con cui lo affrontano i volontari a cui mi sto rivolgendo; ed è certamente il più diffuso e anche il più contradditorio.

Possiamo dire che vedono, anzi vivono, il problema da questo punto di vista:

a) il soggetto disturbato . Egli infatti vede, sente, valuta, sta nella realtà e nel mondo mediante le nuove categorie, quelle inerenti il suo stato mentale attuale. Egli quindi non si sentirà un delirante o uno schizofrenico ma un onnipotente, una nullità, un perseguitato, un ispitato, un esposto agli occhi del mondo, uno squartato e spezzetato, e così via.

Ancora, questo modo di considerare è anche quello dei

b) familiari dei disturbati. Essi vivono con angoscia la trasformazione incomprensibile del loro congiunto. Egli è diventato ai loro occhi strano, lamentoso, abbattuto, incostante, incoerente, fanatico, cattivo, diverso, ecc.

E poi:

c) gli amici, i vicini, gli insegnati, i medici non specialisti, gran parte di operatori sociali, sacerdoti e la società più in generale che parteciperà a questo cambiamento della persona con reazioni e atteggiamenti modulati dal grado di vicinanza e di conoscenza del soggetto disturbato. I sentimenti e gli atteggiamenti degli altri si dislocheranno su un'ampia forbice che andrà dalla pietà, alla compassione, alla distanza, alla presa in giro, alla ridicolizzazione, alla violenza fisica ecc.

Ecco, i volontari del Centro di Accoglienza si collocano all'interno di questo secondo modo di valutare e affrontare il problema. Essi sono convinti, anche in seguito all'esperienza di tutti questi anni di lavoro, che questo sia un modo altrettanto dignitoso di quello "professionalizzato". E così fa il volontariato in generale che si rapporta col disturbato mentale: si pensi ai volontari delle autoambulanze che trasportano i pazienti che vengono ricoverati in TSO; oppure alle associazioni dei familiari che propongono livelli di intervento per i congiunti, e così via.

Quale è dunque il riferimento culturale su cui si fonda l'intervento di tali persone? Come possono esse, se non hanno conoscenze "specialistiche" proporsi per l'assistenza di tali persone?

 

3) DAL SENSO COMUNE AL BUON SENSO COMUNE

IL SENSO COMUNE

Credo che si possa tranquillamente affermare che, ad esclusione del soggetto affetto da disturbo mentale, che come si diceva, ha vissuti e categorie di valutazione della realtà tutte particolari, tutti gli altri componenti della società hanno in sostanza solo quelle del "Senso Comune".

Per comprendere meglio cosa significhi porsi, di fronte al disturbato mentale, con l'"armamentario culturale" proprio del "senso comune", procediamo comparando questo modo di vedere le cose con quello proprio del "mondo professionalizzato" .

Alcune cose, in questo senso, sono già state dette; e cioè che le parole chiave Diagnosi, Cura, Riabilitazione fanno di quella persona un ammalato. Ma procediamo ancora:

-nel profilo professionalizzato nel rapportarsi al soggetto ammalato prevale l'osservazione della forma di espressione del disturbo più che il suo contenuto. Di fronte ad una paziente che, ad esempio, racconta al suo medico che di notte entrano dentro la sua stanza, le portano via le mutande di dosso, le tagliuzzano e le bucano tutte e poi le infilano degli aghi nelle parti genitali tanto da procurarle delle scosse elettriche che non la fanno dormire per tutta la notte; il medico psichiatra, dopo averla ascoltata attentamente, la inquadra in uno stato allucinatorio delirante così come tante altre che he ha visto o sentito. E anche se i contenuti sono affatto diversi non importa, la modalità espressiva, la forma del disturbo è sempre la stessa. Non ha bisogno il professionista di perdersi tra meandri del contorto racconto per comprendere il problema.

-nella posizione di "senso comune" invece ci si metterà in relazione soltanto con i contenuti del racconto, saltandone a piè pari la sua forma di espressione. Ed allora, nell'esempio poc'anzi descritto, ci si proverà a convincere la persona disturbata che le cose che dice non sono vere, le si chiederanno verifiche, ci si arrabbierà, si riderà, si piangerà, ci si dispererà, ci si starà a parlare per lungo tempo senza sortire effetto alcuno.

-Il profilo professionalizzato in questa " posizione diagnostica", procedendo come sopra descritto, riuscirà a prendere le distanza dalla patologia espressa dal malato e anche dal malato stesso. Con la distanza, contemporaneamente, più o meno consciamente, si attua anche una certa difesa nei confronti del turbamento che provoca la vicinanza di una persona così disturbata. Si procederà così alla oggettivazione del malato e della malattia.

-Nel "senso comune" invece, a causa della carenza di strumenti analitici adeguati, non si riuscirà a razionalizzare sufficientemente il problema e si troverà portato a coinvolgersi in modo più diretto con maggiore partecipazione emotiva.

-Il profilo professionalizzato poi dall'oggettivazione diagnostica passa normalmente alla interpretazione dei modi e dei fatti. E qui le cose si complicano in quanto tali interpretazioni sono spesso molto diverse tra le varie figure professionali chiamate a risolvere quel dato problema, a volte anche opposte. Nell'esempio poc'anzi citato un'interpretazione di tipo biologico, con prevalente accento posto sulla discrasia delle amine cerebrali, darà una prioritaria importanza all'uso degli psicofarmaci in terapia; una, invece, di tipo psicologico si orienterà maggiormente attraverso la messa in luce degli aspetti dinamici del vissuto intrapsichico ecc.

-Il "senso comune" invece dal forte coinvolgimento emotivo può far nascere atteggiamenti diversi: di compassione e di pietà; oppure di tipo moralistico: è uno cattivo, in mala fede, fà tutto a posta per fare del male; di tipo pseudoscientifico: è un dissociato, un isterico – vai a farti curare -; di difesa, emarginazione, violenza fisica.

 

In definitiva la posizione diagnostica professionalizzata tende per sua natura a rispondere alla domanda "Cos'ha?": "ha un disturbo, una malattia". In questa posizione si pone come una distanza tra l'essere personale e l'evento morboso che quasi sembra provvenire dall'esterno. Questa posizione subisce l'attrazione delle scienze di tipo positivo, sviluppando metodologie di tipo scientifico. Quando questa posizione -quella del Cos'ha?" viene sposata acriticamente dal "senso comune" si potranno avere esiti nefasti, come oggi spesso avviene. Infatti mancando ad esso gli strumenti analitici propri del mondo scientifico, il "senso comune" la trasformerà in senso moralistico o pseudo-scientifico, con conseguente ulteriore emarginazione del soggetto.

La posizione di "Senso Comune" risponde invece spontaneamente alla domanda "Com'è?". Qui c'è una identificazione completa tra l'essere personale e i suoi atti, i suoi comportamenti, il suo disturbo. "E' buono, cattivo, matto, ecc." La distinzione tra l'essere personale e la sua malattia non è percepita. Questa posizione subisce maggiormente l'attrazione di scienze filosofiche, della psicologia, della morale ecc..

Comunque, in definitiva, si può affermare che la posizione professionalizzata tende per sua natura a farsi terapia. L'esigenza naturale del medico è quella di poter curare.

La posizione non professionalizzata, quella di "senso comune", lasciata a se stessa ha le più svariate possibilità, ha in sè potenzialità opposte: essa può farsi grande rifiuto oppure grande accoglienza

 

IL BUON SENSO COMUNE

Il "senso comune" ha potenzialità di accoglienza destinate a rimanere inespresse o non compiutamente sviluppate se rimane tale, se non subisce un evoluzione in positivo.

D'altronde questo discorso diventa estremamente importante in quanto soltanto nello svilupparsi di una cultura dell'accoglienza compiuta è possibile dare risposte ai problemi del disturbo mentale in generale.

Se la posizione diagnostica che tende a farsi terapia non trova sulla sua strada una posizione di "buon senso" che tende a farsi accoglienza, la stessa terapia intrapresa potrebbe trasformarsi in qualcosa di negativo. Sono sotto i nostri occhi tantissimi esempi di familiari o conviventi col disturbato mentale che, per disperazione o altro, abbandonano il loro ammalato con la frase "non lo voglio più sin quando non è curato". Questo modo di cura senza corrispettiva accoglienza ha creato le abberrazioni dei manicomi e di tante altre situazioni di assistenza degradata.

Pertanto per poter essere veramente accogliente il modo improntato al "senso comune" deve potersi trasformare in "buon senso comune". Analogamente al modo professionalizzato in cui a diagnosi giusta corrisponde cura adeguata (almeno secondo questo modo di vedere), anche per quanto riguarda il modo non professionalizzato il passaggio dal "senso comune" al "buon senso comune" dovrebbe segnare la direzione verso un rapporto diverso e accogliente nei confronti di tali persone.

Il problema a questo punto diventa quello di definire cosa significhi passaggio al "buon senso comune" D'altronde questo problema non può qui neppure essere affrontato. Esso implica riflessioni di carattare filosofico e morale che mal si prestano ad essere inserite in questo contesto.

Si può in questa sede, però, dire che cosa si oppone alla formazione del "buon senso comune" in relazione al rapporto col disturbato mentale.

A) Per primo c'è la paura che egli possa fare del male perché è imprevvedibile. Certamente le cronache dei media, che sono piene di atti violenti compiuti da disturbati mentali, contribuiscono a mantenere alto l'allarme nei loro confronti. E se in effetti nella vita familiare di chi vive con tali persone gli episodi violenti sono a volte all'ordine del giorno; in contesti ordinati e premurosi, privi di conflittualità irrisolvibili e a basso grado di emotività espressa, i rischi di comportamenti aggressivi sono decisamente minimi.

B) Altro punto non favorevole al passaggio verso il "buon senso comune" è la paura di sbagliare: tutto ciò che si fa nei confronti di tali persone potrebbe essere sbagliato o non adeguato, poiché solo gli specialisti sanno cosa fare. Questa posizione molto comune, incentivata anche da posizioni professionalizzate "imperialiste", non sagge, impedisce ed ostacola questo fondamentale passaggio. Da questa paura si passa impercettibilmente ad una fatale perdita di spontaneità nel rapporto causata dalla

C) Insicurezza. Essa fa si che si creino rapporti falsi con la persona: se c'è una cosa importante che va sottolineata nei confronti del disturbato mentale è quella che il rapporto con lui deve basarsi sulla sincerità di fondo. Mai trucchi, scuse, falsità fatte anche a fine di bene. Il disturbato mentale possiede una capacità intuitiva di leggere attraverso i sentimenti di chi gli sta vicino. Anche se la formulazione sul piano logico di questa lettura è fondamentalmente compromessa, non per questo l'intuizione di fondo del sentimento è sbagliata.

D) Infine ciò che bisogna evitare è la delega ad altri. Una caratteristica nel rapporto col disturbato mentale è che questi non ha mai un luogo, una terra, uno spazio dove poter stare. Ognuno lo vorrebbe inviare da qualche parte: in qualche clinica che non si trova, in qualche casa famiglia che non c'è, in qualche spazio terapeutico che non è stato ancora inventato. In effetti questa posizione si può tradurre senza tema di smentita come volontà (anche se spesso inconsapevole) di emarginazione.

Il disturbato mentale dunque deve essere seguito, sin dove si può, là dove esso si trova.

E se esso si trova con voi che non siete specialisti e voi vedete una possibilità di rapporto positivo con lui, non dovete avere paura, non dovete delegare ad altri.

Il "Buon Senso Comune" dunque, cos'è? E' sufficiente qui ennunciare il problema e lasciarlo alla valutazione intuitiva di tutti. Ognuno dentro di sè conosce la differenza tra "senso comune" e "buon senso comune", anche se è in fondo convinto che il proprio modo di valutare sia proprio quello del "buon senso.

Questo passaggio però non è facile; esso implica lavoro costante e conoscenza della persona disturbata. Nel vivere insieme con lei si scopriranno tante cose, si imparerà a tener ferme le cose importanti e lasciar correre quelle ripetitive, insensate.

Pratica costante, assidua, perseverante e disposizione axiologica dei valori. Ci sono valori si cui fondare il rapporto: il mantenimento della parola data, il rispetto della persona, la non prevaricazione e così via. Ma vi è anche una disposizione assiologica dei valori, una scala di valori che non è possibile scambiare a piacimento a seconda delle disposizioni momentanee.

Ancora, la flessibilità di giudizio, l'adattabilità a situazioni e contesti diversi, la capacità di abbandonare il proprio punto di vista quando questo è di ostacolo, la pazienza, l'umiltà, l'apertura costante alle necessità dell'altro.

 

4) IL CONFRONTO CON MODI PROFESSIONALIZZATI PRUDENTI

Nel passaggio dal modo di valutare proprio del "senso comune" a quello del "buon senso" notevole importanza ha anche il confronto con modi professionalizzati prudenti e convincenti di affrontare il problema. Il punto di vista "non professionalizzato" al modo del "buon senso comune" dovrà però poter crescere autonomamente, secondo virtù intrinseche al suo modo e, non di rado, anche alternativo rispetto a quello professionalizzato, in quanto non è sempre facile poter distinguere, tra vari modi di affrontare il problema da parte del modo professionalizzato, quello che è il più corretto.

Tra le posizioni professionalizzate non prudenti dobbiamo annoverarne alcune oggi molto in voga. Quella ad esempio che vede alcuni sedicenti scienziati o medici di fama affannarsi attraverso i mass media a proporre teorie sulla etiologia delle malattie mentali, dell'alcolismo o tossicodipendenza, con conseguenti ritrovati farmacologici miracolosi. Anche genetisti dell'ultima ora, che di tanto in tanto ci raccontano l'ultima scoperta del gene della schizofrenia o del disturbo bipolare, non contribuiscono di certo a far si che si formi quel sano buon senso, senza del quale diventa impossibile il farsi accoglienza e pertanto anche vera terapia.

Il mettere dunque vincoli terapeutici, vuoi farmacologici o anche psicologici, a chi assiste tali persone, laddove queste si rifiutano decisamente collaborare in quella direzione, contribuisce a mantenere posizioni di conflitto e difficoltà tra il paziente e chi lo assiste e conseguentemente impedisce il passaggio da una posizione di "Senso comune" a una di "Buon Senso Comune".

 

L'incontro del modo non professionalizzato e di quello professionalizzato nel Centro Alcologico

 

In linea generale si può dire che una posizione assistenziale e di aiuto non professionalizzata sceglie tra le varie posizioni professionalizzate, quelle che sono più vicine al suo modo si sentire e di affrontare i problemi.

In questo campo, quello dell'assistenza psichiatrica e delle tossicodipendenze, anche in ambienti non professionalizzati i modi di affrontare i problemi sono spesso molto diversi tra loro. Ad esempio nel settore delle tossicodipendenze, pur nella comune denominazione di "Comunità Terapeutiche" si nascondono prassi e impostazioni culturali molto diverse tra di loro. Le scale dei valori proposte dalle diverse Comunità sono differenti da una comunità ad un'altra.

Nel campo dell'alcolismo notiamo una discreta differenza tra le posizioni non professionalizzate espresse ad esempio da Alcolisti Anonimi e dai CAT.

In campo professionalizzato le differenti impostazioni e i diversi modelli culturali sono non di rado in conflitto fra di loro. E' sbagliato pensare che in ambiente professionalizzato la "posizione scientifica" sia uguale per tutti. In ambito scientifico ci sono ambienti che danno priorità a impostazioni psico-farmacologiche (si guarisce solo con gli psicofarmaci), altri a posizioni psicoterapiche ( e tra queste una gran quantità di posizioni spesso conflittuali le une con le altre), altre ancora a posizioni socio-riabilitative.

Quando questi due modi, quello professionalizzato e quello non professionalizzato, si incontrano in modo armonico è possibile che nascano dei metodi di lavoro originali e proficui.

Ciò è avvenuto, a parer mio, nella nascita del Dispensario Alcologico di Carbonia, oggi Centro Alcologico, per la diagnosi la cura e la riabilitazione dell'alcoldipendente.

Il suo troncone culturale di tipo non professionalizzato è da ricercarsi nella filosofia dell'accoglienza del Centro di Accoglienza, con l'ospitalità data, nel corso di lunghi anni, ad alcolisti e in misura minore a tossicodipendenti. Poi alla influenza che ebbe, relativamente ai problemi dell'alcolismo, la filosofia di Alcolisti Anonimi. Il Centro di Accoglienza negli anni 86-87 ospitò presso i suoi locali la sezione locale di A.A. Inoltre, per ciò che riguarda le tossicodipendenze, notevole influsso ebbe sopratto il modo di considerare il problema del CEIS. Negli anni 1988-89 genitori, che avevano i figli presso le comunità del CEIS e che facevano con essi percorsi educativi paralleli, si affiancarono ai volontari del Centro di Accoglienza per affrontare il problema delle tossicodipendenze.

In questo contesto culturale, attraverso queste modalità non professionalizzate di analizzare e di avvvicinarsi al problema delle dipendenze, si incontrò un medico che col suo approccio professionalizzato potè incominciare un percorso con i volontari del Centro. Il medico decideva di affrontare il problema alcolismo sul versante della patologia alcol-correlata. Un passo medico, dunque, approfondito e competente, che si prende cura del corpo dell'alcolista attraverso la cura nelle numerose patologie che l'alcol procura, in modo organico e unitario. Non frazionando il corpo dell'alcolista nella parcellizzazione specialistica, ma utilizzando la sua competenza di medicina generale anche per instaurare il primo fondamentale approccio con l'acolista stesso. A questo primo passo di tipo professionalizzato ha saputo affiancare l'altro, quello non professionalizzato, importantissimo per rapportarsi in modo idoneo alla persona che abusa o è schiava della bottiglia. Così sono nati i gruppi condotti da ex alcolisti che affiancano il medico, introducono nuovi soggetti alcolisti, e si muovono in quel contesto non professionalizzato che fa dell'alcolista non tanto un malato come lo intende usualmente la medicina, ma un individuo fragile che va sostenuto, spronato o anche fortemente contestato a seconda del momento.

Questa integrazione, con molta prudenza, la si tenta anche nel campo dei disturbi mentali. Secondo l'esperienza del nostro gruppo, comunque, tale integrazione non è da ricercarsi costi quel che costi. Infatti l'incontro di due sensibilità, quella del modo professionalizzato e quella del modo non professionalizzato, è un qualcosa di particolarmente delicato che facilmente, se il confronto non avviene su piani di estrema correttezza, può condurre a reciproci sconfinamenti, con ripercussioni sfavorevoli sui metodi di lavoro e sui valori su cui si fonda il rapporto con le persone assistite.

 

DIFFERENZIAZIONE DEI MODI

Operando in questo modo il Centro ha dovuto differenziare le sue modalità operative:

a) comunità alloggio femminile

b) centro di pronto intervento maschile

c) centro alcologico dove, come già detto, l'integrazione tra esperienze professionalizzate e non professionalizzate ha dato un originale modo di lavoro conosciuto ormai in buona parte della Sardegna (vedi, su questa rivista nell'area tossicodipendenze, l'intervento scientificamente polemico sull'uso del GHB come farmaco per l'alcolismo).

d) una rivista periodica, Appunti Sparsi, che vuole riflettere e portare contributi all'interno di questo modo di vedere.

 

5) SULLA STRADA

Il Centro di Accoglienza che accoglie nelle sue Comunità disturbati mentali, alcolisti e, in misura molto minore tossicodipendenti, li accoglie e assiste secondo quel modo di essere non professionalizzato di cui sin qui si è parlato.

Li accoglie non in virtù del loro disturbo psicotico o della loro alcol-dipendenza, ma li ospita perché essi stanno nella stessa situazione di bisogno in cui si trovano gli altri ospiti del Centro. Se donna perché in difficoltà con la maternità, sia che essa sia sana o ammalata. Oppure perché si trova per la strada.

Il Centro di Accoglienza infatti ha fatto questa scelta, si collocarsi "sulla strada": è ciò che proviene da essa a determinare il suo modo di operare (non è il caso qui di addentrarsi nelle sue metodologie di lavoro). E sulla strada abbiamo scoperto esserci disturbati di mente, alcolisti, tossicodipendenti, ovviamente insieme a numerose persone molto povere.

L'accoglienza dunque è data perché sono persone bisognose e non perché "pazienti o ammalati". E' ovvio che il disturbato mentale, che entra nella comunità in quanto persona bisognosa e non in quanto paziente psicotico, non per questo finisce di essere tale. Porta all'interno della comunità gli stessi problemi che egli porterebbe se fosse ricoverato in ambiente professionalizzato, oppure in famiglia. Questi problemi dunque si affrontano, e si affrontano in modo serrato, perché tali comportamenti possono coinvolgere anche altri ospiti, il vicinato, ecc.

Luogo non professionalizzato non significa luogo senza metodo di lavoro. Anzi l'individuazione del metodo di lavoro, la sua messa a punto e perfezionamento richiede riflessioni continue.

Ma i problemi che pone un disturbato vengono però affrontati come vengono affrontati quelli degli altri ospiti (almeno sin dove si può; dove non si può più diventa vitale il rapporto con un luogo professionalizzato sollecito. In questo senso valido aiuto è sempre stato il Servizio Psichiatrico di Carbonia) .

Non è sicuramente il farmaco o un modello psicoterapico (anche se farmaco o psicoterapia non sono esclusi) il primo e più importante intervento che si effettua su quelle persone.

 

IL CASO

Come esempio, in conclusione, voglio portare il caso di un ospite del Centro di Pronto Intervento maschile.

Esaminato sotto il profilo professionalizzato si tratta di un paziente affetto da un Disturbo Schizofrenico di tipo Disorganizzato, che si oppone decisamente a ogni tipo di terapia e che vive allo stato di barbone, pur avendo una casa e dei familiari disposti ad aiutarlo. Più volte è stata fatta richiesta, dai familiari, al Servizio Psichiatrico competente di intervenire, con ricovero o altro, ma mai ciò ha sortito effetti di sorta. Non per colpa del Servizio di Psichiatria ma per l'impossibilità della situazione.

Vivendo come barbone, che creava tra l'altro non pochi problemi in città con le sue stramberie, e ricadendo pertanto nella sua sfera di "competenza assistenziale, è stato contattato il Centro di Pronto Intervento. Qui si è immediatamente fatto condurre di buon grado, essendo quello un luogo che non gli chiedeva di farsi curare, ma soltanto un alberghetto. Gli piaceva molto, infatti, andare a mangiare e dormire nel suo alberghetto. Così, in quel nuovo ambiente, ha incominciato anche a lavarsi facendosi la doccia, cosa che non faceva da anni, a farsi tagliare le unghie, a cenare insieme agli altri ospiti, a guardare per qualche minuto la televisione e a sedersi col giornale in mano di tanto in tanto sfogliandolo. E tutto ciò avveniva senza che questo mondo non professionalizzato, che lo assisteva, facesse nulla di particolarmente tecnico o faticoso, ma soltanto assecondandolo, al momento opportuno suggerendo, a volte anche dolcemente forzando, ma giocando sostanzialmente sul gradimento che manifestamente mostrava di questa sua nuova situazione. Gli operatori che lo accudivano, non avevano strumenti tecnici e raffinate metodiche psicoterapiche o impostazioni farmacologiche complesse su cui appoggiarsi, ma soltanto il loro buon senso; il buon senso comune e una grande disponibilità ad ascoltare, eventualmente, figure professionalizzate prudenti non smaniose di imporre la loro visione delle cose.

Oggi, dopo due anni di ospitalità, durante i quali si è instaurato anche un rapporto positivo nei confronti del locale Servizio Psichiatrico (dove è stato ricoverato per una polmonite!), lui, esaminato sotto il profilo professionalizzato, risulta essere sempre uno schizofrenico disorganizzato e si oppone ancora alle cure psico-farmacologiche così come si opponeva prima. Però non lo si vede più in giro per la città, con la bottiglia di birra in mano e in preda a mille stramberie; passa una parte della sua giornata a casa dei familiari che hanno potuto riprendere un filo di rapporto con lui e quotidianamente lo portano a pranzo da loro.

E' decisamente più pulito, non è stato estirpato dal suo contesto sociale, conduce così la sua vita, la sua vita schizofrenica, in modo più dignitoso, senza necessità di farmaci o psicoterapie (non foss'altro perché fermamente li rifiuta), in compenso però è molto bisognoso che chi si rapporta a lui lo faccia con una robusta dose di sano buon senso comune.

 

 

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