di Mario Pezzella
Crisi di un impero. Si racconta che l’imperatore Montezuma, all’approssimarsi degli Spagnoli, sia precipitato in uno stato di nera impotenza: cosa tanto più sorprendente, perché negli anni precedenti aveva dato prova di una spietata e sanguinaria energia, portando ai suoi massimi confini l’espansione dello stato azteco. Egli mobilita i suoi maghi e indovini contro gli invasori, ma questi devono confessare l’assoluta inutilità di sacrifici e riti magici, di fronte allo straordinario nemico: "Noi non siamo della loro natura, è come se noi non fossimo nulla"(TODOROV-BAUDOT 1988: 17). Così dicendo, i sacerdoti anticipano il crollo, che minaccia l’apparato simbolico della loro cultura. Come depositari dei suoi valori tradizionali, devono accettare una prospettiva apocalittica, un’immagine di fine del mondo (per capire la gravità della loro affermazione si può immaginare il reciproco; un Papa che avesse dichiarato a Carlo V, in una situazione di estremo pericolo: "Maestà, i sacramenti della nostra Chiesa sono divenuti vuoti e inutili").
La paralisi del sistema mitico e rituale provoca in Montezuma una reazione prossima alla demenza. Il suo unico desiderio è ritrarsi nella più profonda caverna, a Mitclan, nella dimora dei morti, o a Cincalco Casa-del mais, un luogo ultraterreno. In altre parole o in parole psicopatologiche, Montezuma desidera la morte e il suicidio: ma non ha più neanche l’energia per attuare il suo proposito. Come un catatonico di Charcot, resta immobile, fisso, in preda a un illimitato stupore.Il suo cuore "si è consegnato a quanto doveva accadere, a ciò che l'avrebbe agghiacciato"(Ivi: 19).
L’arrivo di un "Altro" incodificabile e irrappresentabile produce in Montezuma una crisi radicale della presenza, nei suoi aspetti individuali psico-patologici e in quelli più genericamente storico-culturali. L’immagine della fine del mondo si diffonde, in un rapido contagio psichico, a tutto il popolo azteco. Più tardi, quando gli Spagnoli irrompono nel palazzo d Montezuma, depressione, scoraggiamento, disperazione raggiungono il culmine: "Un grande spavento aleggiava dovunque, dilagava il terrore…come se s’aggirasse colà una famelica fiera, come se morta fosse la terra"(Ivi: 32).
Secondo Todorov (1982 [1992], l’arrivo degli Spagnoli è letteralmente intraducibile nel cosmo simbolico degli Aztechi e scardina l’intero loro sistema di essere-nel-mondo. L’alterità è così estrema che non è possibile recupararla nell’ambito dell’umanamente possibile: gli Spagnoli appartengono allora a un altro ordine, l’unico che gli Aztechi abbiano a disposizione, per tentare di interpretare la loro esistenza; non possono essere che dèi o demoni sovrumani. Le armi degli Spagnoli sono ruscelli di fuoco, che dissolvono il mondo; i loro corpi sono rivestiti di metallo come quelli —diremmo oggi- di un alieno o di un cyborg; i loro volti bianchi come gesso sembrano appartenere a fantasmi e morti viventi. Perfino i loro cani hanno natura diabolica, sono guardiani dell’inferno, hanno "occhi infuocati, occhi di brace… sono grandissimi e mai stanno in riposo, vanno avanti e indietro ansimando"(Ivi: 16).
Nell’imperatore non fa che concentrarsi e condensarsi la disperazione e l’impotenza del suo popolo, come se il suo inconscio registrasse il sisma, che sta scuotendo la storia: "Montezuma più non conosceva il sonno, né il cibo…Era come se egli fosse in continua afflizione, quasi si sentisse stanco, di una stanchezza mortale; più non conosceva sapore, né piacere, non conosceva raffinatezze"(Ivi: 15).
L’ Altro irrompe come una potenza metastorica, devastante e inassimilabile. Perché gli déi e i demoni abbandonano le loro sedi e discendono tra gli umani? Perché questa alterazione fatale dell’ordine cosmico? Quale orribile colpa dev’essere espiata o punita? Quale immensa colpa egli stesso, Montezuma, ha commesso —lui, imperatore e custode in terra dell’energia del cosmo? Nell’animo di Montezuma sorsero probabilmente queste domande, dal peso opprimente. L’arrivo distruttivo del colonizzatore genera nel colonizzato il senso di colpa più estremo; non è forse sua la responsabilità per il crollo del mondo, per l’inefficacia dei riti? Prima che il pensiero di resistere, s’affaccia alla sua mente quello della colpevolezza e del castigo. In fondo, questo è un estremo benché negativo tentativo di ricondurre l’evento estraneo e incomensurabile nell’ordine del proprio. Se il riconoscimento del destino fatale diviene un’ammissione di colpa, posso ancora giustificare l’irruzione dell’Altro, ricondurlo a una ferita segreta, a una scissione incolmabile nell’intimo del mio ordine culturale. In superficie la vita sembrava procedere come sempre; ma la mancanza e l’errore divoravano la sua energia più profonda: "Il crollo del mondo nel mondo primitivo assume il carattere di una minaccia o di una punizione per qualche alterazione introdotta dagli uomini nella rigorosa ripetizione dell’ordine fondato nelle origini mitiche"(DE MARTINO 1977 [2002]: 361). La straordinaria passività e rassegnazione delle vittime ha a che fare talvolta con questa elaborazione autodistruttiva del trauma prodotto dall’arrivo dell’altro. La decadenza del mondo causa la fuga degli déi e il trionfo dei dèmoni, diffonde un male radicale.
Chi può dire del resto se l’immagine di una decadenza interna del sistema culturale sia solo una reinterpretazione successiva all’invasione, o non contenga talora una parte di verità? Nel caso degli Aztechi, era ancora sostenibile —socialmente e psichicamente- l’incremento senza eguali dell’economia sacrificale (che poteva in un solo giorno portare alla morte decine di migliaia di persone)? Forse una dismisura, una potenza illimitata e incompresa di distruzione, costituisce il terreno più favorevole per la vittoria di "barbari", venuti d’oltre frontiera. Forse il colpo mortale portato dall’Altro coesiste con una crisi interna della cultura. L’inefficacia dei riti può esprimere metaforicamente l’inaridirsi e la rigidità di un sistema simbolico: "…I Messicani sono trascinati nell’ingranaggio vertiginoso del dispendio. La loro ossessione energetica, con la sua insondabile esigenza, porta in sé la lenta deriva verso la dismisura, che si rivela come il vero prezzo da pagare…Hanno forse pensato che in questo modo lo squilibrio a spese dell’economia non avrebbe cessato da quel momento d’accentuarsi?"(DUVERGER 1981: 189).
Il comportamento di Montezuma mostra quei tratti di derealizazione e depersonalizzazione, che De Martino considera caratteristici della crisi della presenza: "Tutti gli oggetti sembrano retrocedere in remote lontananze…Essi sentono di essere sospesi lontani da ogni realtà, in spazi del mondo orribilmente soli. Tutto è come un sogno…Io sono in un sepolcro, del tutto solo; nessun uomo è intorno a me. Vedo solo nero: anche quando il sole appare, vedo solo nero"(DE MARTINO 1977 [2002]: 104-5). In generale, nella crisi della presenza, la malinconia sembra derivare da una colpa immotivabile, una colpa "radicale"(Ivi, p.121), che esprime il crollo dell’ethos culturale, del progetto che integra le situazioni all’ordine del mondo.
Il collasso dell’ordine simbolico che struttura l’essere-nel-mondo priva di senso la più semplice percezione del reale; perché il simbolo non è qualcosa che si aggiunga arbitrariamente o post factum a un "reale" già dotato di autonoma significazione e compattezza. Il simbolico è la tessitura stessa che articola il mondo e è attivo nella più immediata attività percettiva. Da un lato il simbolo trascende costantemente il mero dato oggettivo, inserendolo nella linea di senso di un progettare umano; dall’altro la stessa visibilità dell’oggetto per noi avviene entro il contesto disegnato da un tale operare. Con la scomparsa dell’ordine simbolico si sgretola anche quel mondo oggettivo, che esso —col suo reticolo di intenzioni- aveva reso possibile. Non c’è articolazione dello spazio, né ritmica del tempo, che non abbia a sua origine un rapporto determinato tra cultura e natura; né esiste mai un simile rapporto, se non si compone ed esprime nell’ordine simbolico e nelle forme originanti di una cultura.L’oggettivo in quanto tale —privato della sua interazione simbolica- diviene mera spettralità, caos ottenebrato di potenze inconsce e indecifrate. Così il suo mondo appare ormai a Montezuma, tanto che egli —dice l’antica cronaca- non è più che un malato: "…Ha semplicemente chinato la testa; è rimasto semplicemente seduto con il capo chino; ha chinato la testa; è rimasto seduto con il capo abbattuto; non ha emesso suono o parola; semplicemente, è rimasto seduto come un malato, per lungo tratto prostrato, annichilito"(TODOROV-BAUDOT 1988: 25), dove le ripetizioni sottolineano la dolorosa stupefazione del cronista, la sua estrema difficoltà ad accettare un tale rovesciamento del mondo.
Paralizzato, incapace di agire, Montezuma è tuttavia preda di accessi incontrollati di furore, in cui fa a pezzi —invece degli Spagnoli- innocui messaggeri o dignitari che hanno avuto l’ardire di porlo di fronte alla realtà della situazione. Entro la crisi della presenza, una furia irrelata, una violenza che ha perso qualsiasi finalità oggettiva si alterna con la più terrea malinconia.
L’invasione dell’Altro. L’arrivo degli Spagnoli in Messico resta un modello esemplare di incontro tra il colonizzatore occidentale e la cultura aggredita. L’arrivo dell’Altro occidentale viene percepito come una catastrofe radicale dell’ordine simbolico tradizionale. L’irruzione violenta contamina i riti, distrugge la concezione del tempo, separa la comunità dai miti d’origine, che ne costituivano il fondamento e l’alimento. I riti consentivano di riprendere contatto con i miti fondativi e superare le crisi della presenza ripetendo e riaffermando l’ordine simbolico. La comunità viveva la ripetizione dei suoi solchi originari, immutabili come il percorso delle stelle. Di fronte a una crisi della presenza, essa si rivolgeva ai suoi spiriti e ai suoi déi, i suoi archetipi di fondazione. Apparentemente, qui abbiamo solo a che fare con una negazione della storia, in nome del "sacro" situato nell’al di là intemporale. Si tratta —ha scritto Ernesto De Martino- di un’operazione metastorica. Ma in effetti proprio questa ripetizione mitico-religiosa permette alla comunità di uscire dalla situazione di crisi, di riprendere il suo concreto cammino storico: "L’uomo rischiava di regredire sino al punto in cui presenza e mondo si confondono e confondendosi si vanificano: ma ora, mediante la tecnica religiosa, il diventare totalmente un altro (e quindi perdersi) trova un piano di sosta nel tutt’altro che vale al di sopra di tutto: un piano di sosta che diventa un piano di riferimento, un oltre che è l’ultima Thule, da cui poter iniziare il ritorno a sé, il luogo dove l’umano potrà cercarsi e riprendersi e ritrovarsi" (DE MARTINO 1995: 135).
Il sacro così concepito è immediatamente negazione della storia; ma in realtà media la possibilità che la storia sia e è anzi una sua condizione necessaria: nella storia si ha la paradossale e reciproca compresenza del sacro nel divenire. Sembra che il rito non faccia che ripetere un fondamento archetipico: ma questo è evocato solo nel contesto di una crisi attuale, chiamato a fornire una risposta al pericolo che ora minaccia la comunità. Così il ritorno dell’archetipo avviene in una situazione storica inedita, per quanto simile ad altre del passato: ma simile non vuole in alcun modo dire uguale, e la ripetizione coesiste con un elemento di irriducibile novità.
Alla coscienza tradizionale in sé è consapevole solo il primo momento, quello della ripetizione, e il rito appare come eterno ritorno dell’identico. Ma il secondo aspetto —lo scarto di novità, l’adeguamento inedito, l’invenzione simbolica- viene portato a consapevolezza dallo storico (e dall’etnologo). Lo storico delle religioni non può limitarsi a riflettere lo stato della coscienza tradizionale, accettandone e duplicandone le categorie. Questa è in sostanza la critica che De Martino muove a Mircea Eliade, e alla sua teoria dell’eterno ritorno degli archetipi. Lo storico deve, al contrario, porre in altrettanto rilievo l’elemento di novità, che ogni attualizzazione storica dell’archetipo in sé necessariamente comporta.
Così è certo vero che il rito —come operazione metastorica- comporta la ripetizione del passato mitico della comunità. Nei miti fondativi si condensa e si esprime l’esperienza della crisi della presenza che essa deve elaborare e attraversare nella faticosa nascita della cultura; di fronte al ripresentarsi del pericolo di smarrimento identitario —individuale o collettivo- le immagini mitiche ripropongono l’esperienza di superamento già compiuta e riattualizzano l’energia che permise di realizzarla. La ripetizione è un fenomeno stratificato, complesso. La crisi suscita in primo luogo il ripetersi del negativo, dell’irrisolto, dell’incompreso. Ciò che unisce il presente e il passato è innanzitutto una situazione di pericolo e di perdita di sé. Il passato tende a ripetersi "nella estraneità del simbolo chiuso, del sintomo irrelato". Grazie "alla ripetizione rituale di uno stesso mito", tuttavia, questo ripresentarsi puro e semplice dello sgretolamento dell’io può essere elaborato e superato: "a questa ripetizione passiva sostituisce una ripetizione attiva, e a ciò che torna da sé, senza senso, sostituisce ciò che si fa tornare, aprendosi verso un senso"(Ivi: 148).
Ciò implica tuttavia che la ripetizione non sia puramente tale, che il mito abbia un tasso di variabilità e di metamorfosi sufficiente ad aderire alla specificità della situazione presente, che l’occultamento della "storicità del divenire mediante la ripetizione dell’identico", sia anche in realtà una "tecnica che media la reintegrazione nella storia"(Ivi: 149).
L’arrivo distruttivo del colonizzatore entro la società tradizionale spezza o contribuisce a spezzare la possibilità di una simile operazione simbolica: l’intersezione rituale della storia e del mito, dell’identico e del nuovo. L’arrivo dell’Altro è così perturbante e inimmaginabile, da non poter essere assimilabile nell’ordine simbolico tradizionale, che viene radicalmente distrutto. La ripetizione attiva non è più possibile, perché i riti e i miti sono inadeguati di fronte a una novità storica così estrema e distruttiva. Di fronte a una simile irruzione gli déi stessi sono impotenti. La dialettica tra novità e ripetizione si spezza, e gli umani si trovano senza soccorso di fronte all’evento traumatico.
Solo in un secondo tempo le culture traumatizzate reagiscono all’invasione dell’Altro elaborando forme di ibridazione culturale. Alcuni appunti di De Martino rinviano a un fenomeno caratteristico delle culture africane, che egli non ebbe il tempo di approfondire. Dopo l’invasione occidentale sorgono talora movimenti chiliastici e millenaristici, che mostrano una significativa ambivalenza. Da un lato essi si propongono un recupero dei fondamenti tradizionali; ma d’altra parte il ritorno all’origine si dispone ora in una prospettiva apocalittica, alla fine di un tempo lineare che sostituisce l’antica concezione ciclica. La fine del mondo distruggerà il male presente, l’alterità malefica dell’invasore, il suo dominio; e tuttavia questa stessa linearità del tempo è un portato della cultura occidentale. L’irredentismo della comunità indigena si ibrida con l’attesa escatologica della visione ebraico-cristiana. Il movimento carismatico è un fenomeno di rivolta e resistenza, che tuttavia assorbe tratti strutturali della cosmovisione dell’Altro. La concezione apocalittica "attinge le proprie immagini da un lato dal patrimonio tradizionale di credenze connesse ai rituali di fine anno, dall’altro dal complesso più moderno degli insegnamenti neotestamentari veicolati dalle missioni".
All’interno di questa ripresa messianica e millenarista, i simboli tradizionali non rimangono certo inalterati. In un violento processo di radicalizzazione, vengono selezionati i tratti utilizzabili in funzione antagonista, esclusiva, alternativa al dominio coloniale. La struttura temporale dell’Occidente viene in qualche modo ibridata; ma è vero anche il reciproco: tale struttura viene riempita di simboli e contenuti tratti dalla cultura tradizionale, e si rivolge in modo violento contro l’invasore. I tratti identitari tradizionali vengono ibridati con la visione occidentale del tempo; ma, paradossalmente, proprio in tale ibridazione si induriscono fino al fanatismo o al fondamentalismo.
La nuova costellazione simbolica non recupera la sua antica armonia, né la perduta autoreferenzialità. Ogni tratto di identità è ora sentito come termine di un’opposizione e trae significato dalla lotta con l’altro. Non è mai più se stesso, se non rimarcando la sua differenza dall’altro. I simboli tradizionali non erano fondati su questa esasperazione dell’opposizione, che ora invece riveste un significato essenziale. L’universo mitico ciclico, ripetitivo, tradizionale, viene reinterpretato in una prospettiva utopica e messianica, ri-orientato verso l’avvento di un messia redentore e ricollocato nella nuova dimensione del tempo.
Situazione e trascendimento. De Martino ci presenta tre forme correlate e distinte di crisi della presenza: è un momento ontologico e strutturale della formazione della coscienza, nella storia dell’umanità come in quella dell’individuo e da questo punto di vista costituisce l’esperienza cruciale della fase magica della cultura; è la destrutturazione radicale di un ordine simbolico, nel momento in cui esso subisce un’irruzione insopportabile da parte di un Altro esterno (ed è il caso della colonizzazione); è il pericolo che minaccia una cultura dal suo interno, per l’inefficacia operativa del suo sistema simbolico e per il riemergere dei suoi conflitti e dei suoi traumi irrisolti. Quest’ultimo caso ci riguarda assai da vicino, perché una simile crisi della presenza investe —secondo De Martino- la cultura europea del 900.
Il tratto comune alle tre forme è il prevalere di un inconscio caotico, aorgico, illimitante. La crisi della presenza apre le porte all’indifferenziato, all’"abisso del nulla"; a fronte di questa attrazione per il nulla, sta il crollo dell’"esistenza ascendente"(DE MARTINO 1997 [2002]: 203), creatrice di cultura, dell’ethos del trascendimento, che oltrepassa la necessità chiusa dell’esistenza. Come in Sartre, la natura è un in-sé inerte, che il progetto dell’uomo supera e trascende. Ci si può chiedere se un simile pathos ascensionale —se inteso come superamento e dominio della natura- non sia già storicamente determinato e cioè appartenga in tutto o in parte alla cultura dell’Occidente, piuttosto che essere un carattere esistenziale o ontologico in generale. L’esistenza ascendente, pro-gettante, ci rende "partecipi della libertà", laddove "l’elemento terrestre materno si mostra nel suo temibile aspetto di morte come abisso risucchiante" (Ivi: 203). L’angolo visuale della crisi appartiene qui interamente alla cosmosvisione occidentale: libertà, possibilità, futuro, hanno senso solo in questo contesto, che è quello del distacco e della negazione della natura.
Il trascendimento è l’atto, in cui si afferma la vita stessa della presenza, il suo tratto esistenziale e formale, che prescinde da specifici contenuti storici; se però esso mira al dominio dell’"elemento terrestre", esso è già storicamente radicato nella cultura dell’Occidente e il suo carattere universale vien meno: "La mera vitalità, che sta "cruda e verde" nell’animale e nella pianta, deve nell’uomo esser trascesa nell’opera e questa energia di trascendimento che oggettiva il vitale secondo forme di coerenza culturale è appunto la presenza" (DE MARTINO 1958 [2000]: 17). La presenza è qui la possibilità di trascendere l’ambito della pura vitalità naturale; ma nulla vieta di pensare che anche la lotta con la natura possa aver termine o lasciare il posto a un atteggiamento meno negativo; o che il trascendimento debba essere piuttosto rivolto alle forme unilaterali e ormai inadeguate, che tale conflitto ha assunto nella storia dell’Occidente.
Sia data la situazione in cui mi trovo per nascita. Essa è la necessità iniziale della mia vita, o la scena primaria in cui sono giocati i dadi e assegnate le parti, che mi accompagneranno come un destino. L’esperienza primaria della famiglia —l’imago del padre e quella della madre- e i traumi ad essa eventualmente legati, segneranno senza che possa in alcun modo evitarlo la mia vita sentimentale e sessuale. La classe sociale borghese, a cui appartengo, determina le coordinate materiali e economiche della mia esistenza e l’ideologia spontanea del mio essere nel mondo; e il mondo apparirà a me secondo l’orizzonte culturale possibile della mia epoca (e per quanto siano le varianti possibili, esse non sono tuttavia illimitate). Come già la natura o la materialità del mio corpo, tutte queste condizioni formano il passato che mi determina. Secondo Sartre, si tratta di un in-sé opaco, necessitante, senza che io abbia in ciò la minima possibilità di scelta. E’ La costellazione o l’ordine simbolico, entro cui sono inserito per il fatto stesso di nascere, nel qui eora del mio venire al mondo.
In cosa consiste allora la mia libertà? Dal punto di vista formale e prescindendo da qualsiasi contenuto particolare, essa risiede essenzialmente nella mia capacità di negare quell’opaco in-sé, di oltrepassarlo grazie a un progetto, che mi appartiene e apre la situazione verso il suo futuro possibile. Questo atto possibile di negazione e oltrepassamento è l'’esistenziale, cioè la condizione formale di ogni libertà possibile. L’accento cade sul superamento della situazione e la libertà è essenzialmente oltrepassamento di un limite.
Più legato allo storicismo, De Martino non considera certo il passato culturale come un peso opaco, ma piuttosto come un’eredità entro cui selezionare gli aspetti condivisi dell’ethos collettivo: e tuttavia anche per lui la libertà è essenzialmente un atto di negazione e di superamento del dato. Si può considerare questo ethos come un’invariante antropologica? Probabilmente no. Esso è il portato —per certi aspetti positivo e liberatorio- della visione occidentale del mondo, ma non appartiene a ogni cultura.
In altri contesti sarebbe possibile immaginare forme di libertà e di ethos, che consistono nel non superare un limite, accettando la situazione e rifiutandosi di alterarla. E’ possibile immaginare una costellazione culturale in cui l’ethos consisterebbe più nel porre dei limiti che nel superarli, nella conservazione del limite piuttosto che nella sua negazione; purché questi limiti siano parte di un patrimonio comunitario condiviso e liberamente scelto. Solo all’interno della concezione occidentale del progresso, l’ethos si identifica con la lotta contro la natura: "Questo è il circolo, o meglio la spirale, della vita culturale, che ha il suo centro nella presenza come potenza di oggettivazione formale e di liberazione dalla "vitalità inferma e cieca": circolo o spirale che è progresso, perché è incremento dell’ethos nel suo civile realizzarsi"(DE MARTINO 1958 [2000]: 19).
L’idea che la vitalità naturale sia inferma e cieca è una cosmosvisione particolare e non un dato antropologico. Benjamin o Adorno hanno ad esempio immaginato forme culturali in cui l’antitesi alla natura non sarebbe più l’esigenza primaria; poiché tale opposizione —nell’attuale fase storica- produce più pericoli e minacce della natura stessa. Più che la natura in sè, bisognerebbe allora trascendere un rapporto culturale ormai inadeguato con essa.
Se ethos del trascendimento significa in generale possibilità di elaborare un progetto e di "aprire" una situazione che non corrisponde più alle nostre esigenze vitali, non dovremmo più identificarlo col superamento della vitalità naturale: sembrerebbe oggi più urgente porre dei limiti al suo sfruttamento, piuttosto che negarla ulteriormente, e la minaccia sembra più venire da una furia di oltrepassamento, che dalla sua mancanza. Un ethos del limite e della responsabilità potrebbe essere più urgente di un ethos dell’illimitato; e le due forme non sono in ogni caso un’invariante strutturale o ontologica, ma un’esigenza e un’esperienza storicamente valutabile e determinata.
Il 900 e la crisi della presenza. La crisi della presenza affiora nella fase magica dell’umanità e la magia rappresenta la prima vittoria contro il potere dissolutivo della natura madre: "Vi è un oltre rischioso della presenza, un angoscioso travaglio del suo orizzonte condendo…Al limite, ogni rapporto della presenza col mondo diventa un rischio, una caduta di orizzonte, un non mantenersi, un abdicare senza compenso…la magia risale questa china e si oppone risolutamente al processo dissolvitore"(DE MARTINO 1948 [1997]: 165).
Da questo punto di vista, la magia fa parte del progresso verso la formazione della coscienza, che si svincola dal magma indifferenziato della natura e inaugura così la storia della sua liberazione. C’è in queste pagine un forte pathos illuministico (e idealistico); ma accanto ad esso sta anche una visione più critica e in certo senso più tragica. Nulla infatti può escludere una regressione psichica e culturale, che dissolva la coscienza, facendo precipitare ogni distinzione di soggetto e oggetto, di interno e esterno. Il rischio radicale di non-esserci accompagna ogni fase dell’evoluzione individuale e collettiva. La coscienza storica evoluta è una luce oscillante, minacciata dal soffio dell’arcaico e da una foresta di ombre inquietanti. L’arcaico coesiste e convive con essa, in tutte le sue forme, anche quella europea e cristiana, la cui crisi viene analizzata ne La fine del mondo.
Ma perché la coscienza resta esposta a un regressività tanto catastrofica? Perché il progresso della coscienza convive con la possibilità del suo nulla? Perché il pathos ascendente, l’esistenza progettante, che caratterizzano la storia dell’Occidente cristiano rischiano, nel 900, di risolversi nella negazione generalizzata della vita? E’ possibile che nello stesso ethos del trascendimento sia nascosta una ambiguità, che lo rende partecipe di una "dialettica dell’illuminismo". L’esistenza ascensionale -nella concretezza storica dell’Occidente- si è realizzata nella libertà, nella forza di schiudere e trascendere il destino e la situazione data: ma anche nel dominio indiscriminato della natura e nella distruzione violenta di ogni cultura altra, che non adottasse lo stesso tipo di attitudine. Il superamento della natura, della mera "vitalità naturale", contiene simultaneamente una promessa di libertà e una minaccia di violenza. L’ethos del trascendimento, da questo punto di vista, va ogni volta valutato nella sua concreta efficacia in una situazione storica e non solo come una categoria formale o ontologica.
Così, nell’esaltazione capitalistica dello sviluppo, l’ethos del trascendimento sopravvive in forma sfigurata: è l’astratto movimento del capitale, che supera ogni qualità della finitezza vivente. Nessuna materia, che non debba essere distrutta e lavorata; nessuna cultura altra, che non debba essere decostruita e assimilata; nessuna merce, che non debba essere sostituita da un’altra più "nuova"; nessun capitale, che non debba continuamente incrementare e oltrepassare se stesso. Il capitale stesso è una macchina astratta e formale di trascendimento della vita, mentre i singoli non posseggono più i tratti positivi dell’ethos: l’apertura, la possibilità, il progetto. Nel 900, non si può dire che scompaiano i valori della cultura occidentale: essi piuttosto invertono il loro significato, la loro potenza trapassa alla forma invertita, astratta, feticizzata del capitale. Non più l’esserci singolo è capace di trascendimento, ma l’essere astratto del capitale. Da parte sua, il singolo si trova esposto alla potenza di una "seconda natura", altrettanto estranea e enigmatica di quella che caratterizzava la fase magica dell’umanità.
Il capitalismo, che ha compiuto la più gigantesca opera di dominio e trascendimento della vita naturale e biologica, che mai si sia vista nella storia, alla fine si contrappone al singolo e lo espropria della sua attività simbolica e culturale. Per il singolo, nelle fasi critiche della sua vita -come la morte o la sessualità- si riapre paradossalmente il rischio di una crisi radicale della presenza. Trovandosi di fronte estraniata -come potenza nemica- la sua stessa funzione valorizzante, il singolo non possiede più le forme simboliche, religiose e rituali, che gli consentivano, fino ancora all’800, di elaborare e superare la crisi.
La possibilità di una crisi della presenza entro la cultura del 900 (di una crisi radicale che metta in questione l’esistenza stessa dell’unità della coscienza e non semplicemente questa o quella sua forma), può essere compresa solo entro questa "dialettica dell’Illuminismo". L’ethos del trascendimento, nella sua realizzazione capitalistica, si inverte in una minaccia per l’immediatezza stessa del vivente. Il pathos dell’oltrepassamento si inverte nel pericolo di oltrepassare la vita stessa. Il "progresso secondo valori" dell’ethos occidentale si coclude nel dominio reale del capitale, nel dominio della tecnica sul corpo vivente, nella colonizzazione dell’immaginario da parte della forma di merce.
Scolio 1
Passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale; società dello spettacolo; industria culturale; fantasmagoria della merce; tutti questi fenomeni rinviano a un fondamento comune e cioè la colonizzazione totalizzante della vita da parte della forma di merce e del modo di produzione capitalistico. In un primo tempo la sussunzione delle forme sociali e del lavoro al capitale è solo formale: Marx usa questo termine per indicare un processo in cui il capitale è in ultima istanza la potenza determinante e tuttavia non ha ancora tecnologicamente modificato i tratti del lavoro. Il lavoro dipende dal capitale, ma non è ancora avvenuta quella rivoluzione tecnologica che rende i corpi e la loro attività puri strumenti o protesi del capitale: "Sussiste la caratteristica generale della sottomissione formale, id est la diretta subordinazione del processo lavorativo al capitale, qualunque sia la tecnica che vi venga esercitata. Ma su questa base si eleva un modo di produzione tecnologicamente e non solo tecnologicamente specifico, che modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni —il modo di produzione capitalistico" (citato in CAMATTE 1976: 100). In un certo senso la tecnica capitalistica si impossessa del corpo vivo e della mente viva dei lavoratori, adeguandoli ai ritmi e al progetto incorporati nella macchina produttiva: il capitale, come dominio reale, si incarna così nel tessuto stesso della vita organica che è sottoposta al suo dominio, non si limita a controllarne l’esterno.
A questa originaria definizione di Marx, si può poi dare un’estensione più generale. Fino alla seconda metà dell’800 —secondo J. Camatte- il dominio reale del capitale non si è ancora perfettamente realizzato; ciò vuol dire che esistono ancora —sia pure marginalmente- spazi o varchi di vita, che non sono ancora direttamente funzionali al processo produttivo. Nel tempo di lavoro il dominio del capitale è quasi assoluto, ma nel "tempo libero" perfino l’operaio può concedersi un residuo di attività non dominata. Nella sua esistenza, il borghese può ancora distinguere tra esterno (tempo interamente concesso alla dipendenza e al lavoro) e interno (il luogo domestico che il processo produttivo non ha ancora la necessità di determinare direttamente). Il dominio formale del capitale lascia sussistere accanto a sé alcune forme di vita dotate di relativa indipendenza: le influenza certo in ultima istanza e come cornice, ma ma non ne costruisce direttamente le forme. L’interiorità, il pensiero, le forme simboliche e artistiche, godono di una relativa autonomia.
Queste sfere perdono sempre più la propria indipendenza, man mano che procede il dominio reale del capitale. Non solo il corpo stesso è funzionalizzato alla produzione, ma anche il tempo "libero" è destinato alla colonizzazione dell’immaginario: esso diviene il teatro in cui neanche un secondo dev’essere sottratto alla fantasmagoria della merce, all’incitamento al consumo, allo stimolo del desiderio erotico indirizzato sul valore fantasmatico delle merci. E d’altra parte è anche il luogo in cui si acquisiscono capacità e elasticità percettive assolutamente indispensabili per la produzione contemporanea e l’uso attuale delle macchine. "Navigare" in internet è indispensabile per l’apprendimento del "virtuale", senza di cui è impossibile partecipare a un processo moderno di produzione. Il capitale deve ora "dare una sostanza nuova a tutte le rappresentazioni"(CAMATTE 1997: 99). Ciò equivale a dire che l’incarnazione o antropomorfosi del capitale si estende —oltre che al corpo- anche alle forme rappresentative e simboliche, che svolgono ora una funzione diretta e insostituibile nel processo di produzione e circolazione delle merci. L’"ultima moda" supera quella dell’anno precedente non per la qualità intrinseca del tessuto, ma per il nuovo stimolo immaginario che riesce a imporre e è indispensabile alla realizzabilità della merce; la produzione e costruzione del desiderio diviene decisiva allo stesso titolo della produzione materiale; il valore d’uso si dissolve interamente nel valore di scambio, ma questo può continuare a realizzarsi solo sviluppando in modo esponenziale il valore simbolico o fantasmatico della merce.
Questo processo porta alla perdita d’autonomia dell’attività simbolica: se ogni aspetto dell’immaginario è tendenzialmente finalizzato alla fantasmagoria della merce, si indeboliscono anche gli strumenti tradizionali —di ordine religioso, estetico e rituale- che consentivano di affrontare e di superare la crisi della presenza. Non è esatto dire che essi scompaiano (secondo Benjamin l’"aura" abbandonava i fenomeni); ma piuttosto che conducono un’esistenza invertita e alienata. L’aura dei simboli si tramuta nell’incanto opaco e interamente immanente alla produzione materiale, che circonda i rituali e le ossessioni del consumo collettivo. La capacità di trascendere il dato secondo un progetto non appartiene più all’umano, ma alla macchina astratta della tecnica e della produzione economica; d’altra parte, al soggetto umano viene concessa la controfigura di una vita in cui tutto è possibile (ma solo sul piano del virtuale e della fantasia spettacolare). L’uomo è da un lato patologicamente immobile di fronte alla macchina astratta che "oltrepassa" la sua vita e il suo corpo senza lasciare a lui stesso nessuna forza propria di oltrepassamento; e d’altra parte è infinitamente coinvolto nel divenire incessante e mutevole delle merci spettacolari, dove sperimenta un trascendimento solo illusorio, deviato su forme evanescenti. Così sperimenta l’ethos del trascendimento come forza estraniata, come un altro da sé, e non più come forza intima della sua esperienza; come potenza che lo nega, invece che come la sua stessa potenza.
Malinconia e mania. De Martino deriva l’idea di oltrepassamento dalla filosofia di Hegel e in particolare da un passo dell’Enciclopedia sul "sentimento di sé". La malattia psichica nasce dalla fissazione innaturale di un particolare, intorno a cui si struttura in modo abnorme tutta la vita psichica, impedendo il fluire ad altro. Come il complesso freudiano, questo "particolare" si presenta con un contenuto traumatico e insuperabile da parte della coscienza, che resta a girargli intorno come una prigioniera stregata: esso entra in contraddizione con l’unità psichica complessiva, la paralizza, la fissa. Questa fissità che domina, indigeribile e indifferibile, è la follia stessa. La follia si radica appunto nell’incapacità di oltrepassare quel contenuto particolare. Il soggetto, dice Hegel, può "restar fermo in una particolarità del suo sentimento, la quale egli non può elaborare e oltrepassare"(DE MARTINO 1958 [2000]: 23).
In genere, lo spirito è potenza generale di fluire, oltrepassa ogni particolare, scioglie le forme fisse, le dissolve con la sua negatività, procede oltre ogni "stato" che voglia conservarsi immutato. C’è in Hegel una gloria e un entusiasmo dello sviluppo e del processo, che De Martino accetta talvolta: "Quando l’esserci si riduce al semplice esistere naturale imprigionandosi in uno "stato" psichico e cominciandolo a "ripetere" invece di oltrepassarlo, allora non può più esserci, e comincia a perdersi, a dileguare…"(Ivi: 24). La ripetizione domina la differenza, il destino la libertà, la coazione il progetto. L"essere senza soluzione" è la cancellazione radicale del possibile. Mentre invece la potenza illimitata di oltrepassare è il fondamento naturale della libertà: "Una cosa è conosciuta come limite, come deficienza solo in quanto quel limite e quella deficienza sono stati oltrepassati" (HEGEL 1907 [1973]: 65).
D’altra parte, come iniziò a vedere Marx nei Grundrisse, questa potenza generale di oltrepassare il finito prende sempre più nel corso del 900 un aspetto inquietante e lontano dal suo iniziale carattere liberatorio. La negazione e l’oltrepassamento di ogni essere finito, la sussunzione di ogni particolare entro un universale astratto, divengono attributi del movimento alienato del capitale. Questo assume ritmi così rapidi di consumazione delle cose, che bisogna integrare la frase di Hegel citata da De Martino. La follia può consistere anche nell’assoluta incapacità a fermarsi, anche solo per breve tempo, su una particolarità del sentimento, così che il soggetto non può più né farne esperienza né considerarne la specificità.
Fantasmagoria della merce, consumismo, spettacolarizzazione sono altrettante fasi della fluidificazione e smaterializzazione frenetica del finito. L’ethos del trascendimento si inverte nella continua ricerca dell’ultima moda, nell’universo infinitamente mutevole delle merci, nel trapasso continuo del concreto nei fantasmi del consumo e dello spettacolo. De Martino, che —sul piano storico- ha continuato a pensare all’ethos del trascendimento in termini positivi, ha però individuato sul piano psicopatologico il suo possibile snaturamento: da un lato, la crisi della presenza si esprime nell’incapacità di trascendere il dato, nel "conato protettivo di ridurre il divenire all’essere"(DE MARTINO 1977 [2002]: 134); ma d’altro lato, si configura anche un cattivo trascendimento, un trascendimento a vuoto e apparente. Il mondo oggettuale sembra allora travagliato da una sorta di frenesia del mutamento, che però manca di finalità e di orientamento e è indifferente all’interesse della soggettività. La crisi della presenza si manifesta in due vissuti apparentemente antinomici, come la malinconia e la mania euforica, l’immobilità pietrificata e il mutamento coattivo e a vuoto di ogni stato: "…Nel secondo caso la crisi del trascendimento dà luogo al trascendere vuoto che in realtà sprigiona la vitalità individuale che non va oltre se stessa…"(Ivi: 120).
Ethos e tecnica. La prima manifestazione coerente dell’ethos del trascendimento è l’economico: "E’ la coerenza economica che fa associare gli uomini ai fini della produzione…che appresta gli strumenti artificiali —materiali e mentali- che estendono e intensificano il potere del corpo umano e dei suoi organi; è la coerenza economica che elabora il linguaggio in quanto strumento di comunicazione interpersonale; è infine la coerenza economica che regola la potenza dei gruppi umani e li inserisce in quella sfera di rapporti che va sotto il nome di politica"(DE MARTINO 1958 [2000]: 18). Da questa base, in ulteriori slanci di trascendimento, sorgono le altre forme dello spirito. L’economico è il primo processo, in cui si afferma la differenza della cultura dalla natura, che lo spirito sente -all’inizio del suo sviluppo- come una concreta minaccia di annullamento del sé. La tecnica è lo strumento operativo che consente allo spirito di liberarsi dal potere della natura e affermare la propria autonomia.
Nel 900, questo processo inverte il suo significato. La coerenza economica impone agli umani di divenire appendici della macchina; trasforma la natura in una spianata popolata di cifre enigmatiche e aride, che non suscitano alcun desiderio spontaneo; umilia la nostra percezione del corpo, dichiarando l’inadeguatezza dei suoi organi; impone una feroce competizione e volontà di potenza e si articola in forme totalitarie di controllo della vita. Così la finalità iniziale della tecnica e dell’economico -la sicurezza e autonomia dello spirito- si inverte in minaccia. L’ethos del trascendimento contraddice il suo impulso iniziale: inizialmente esprimeva la capacità dell’uomo di elaborare valori e simboli tali, da permettergli di superare la crisi della presenza, il grande potere della natura madre. E tuttavia, la cultura nata da questa esigenza di oltrepassamento della natura, si è ora tramutata in pericolo per la vita: fonte essa stessa di una crisi radicale della presenza. Ma di fronte a questa, a quali simboli, a quali riti ricorrere, se il pericolo proviene dall’interno stesso della civiltà?
L’uomo del 900 deve affrontare questo unheimliches: ciò che doveva rassicurarlo e proteggerlo nel suo essere al mondo, si è mutato nel male radicale, che lo minaccia. E’ la tecnica "inferma e cieca", che ora minaccia la sopravvivenza stessa della specie; l’economico non è più il prezioso superamento della vitalità naturale, ma la sua distruzione. Questa inversione di valore non è una difficoltà risolvibile con generici appelli umanistici: è una vera e propria catastrofe simbolica, paragonabile alla paralisi che -per altre ragioni- colpisce Montezuma e la cultura azteca all’approssimarsi degli Spagnoli. Non è qui in crisi questo o quel valore e neppure soltanto l’ethos del trascendimento si è malauguratamente indebolito: piuttosto esso ha perso la sua finalità e il suo intento, o ancor più ne ha invertito il significato da generativo a distruttivo. La minaccia di dissoluzione dell’identità proviene ora dall’ambito culturale e solo secondariamente dalla "vitalità" della natura.
Nei suoi ultimi appunti, De Martino intuisce il nesso tra la crisi della presenza nel 900 e lo sviluppo della tecnica, da cui dipende ora la fragilità del soggetto umano: "Così l’assolutizzazione della tecnica e dell’oltre che essa comporta, ove perseguito con sciagurata coerenza, è un perdersi dell’umano nel tecnico e in ultima istanza l’autodistruzione della tecnica e dell’umano nella guerra nucleare"(DE MARTINO 1977 [2002]: 638). Una simile assolutizzazione corrisponde a una forma alienata e invertita dell’ethos del trascendimento, è la figura storica, che questo ha assunto nel 900, una figura solo particolare, che però vuole fissarsi come universale (e abbiamo visto come questa "fissazione su un particolare" sia per De Martino il carattere stesso della follia). Occorre dunque distinguere l’ethos del trascendimento, come ancora è inteso in Morte e pianto rituale (una volontà storica e specifica di superare il "caos" della natura) e l’intepretazione più generale, che ne vien data negli appunti sulla Fine del mondo. L’ethos che mira al dominio della natura è solo "una particolare forma storica di consapevolezza", che ha esercitato il suo effetto e esaurito il suo impulso positivo; se ci si fissa a questa particolare —e occidentale- forma di coscienza, si ha allora "una cattiva teorizzazione dell’oltre manifestantesi nell’assolutizzazione di un valore particolare" e ormai inadeguato; mentre va recuperato il suo significato esistenziale, come un "oltre inesauribile", che si esplica rispetto a tutte le "particolari forme di valorizzazione", dunque anche verso quella concezione del mondo che si è espressa nel dominio della tecnica e della sua illimitata volontà di potenza. La situazione attuale di crisi della presenza richiede anzi che proprio questa sia trascesa e oltrepassata, come la minaccia principale alla sopravvivenza della specie.
Occorre dunque un diverso sistema simbolico; non è più possibile restaurare quello precedente, restituendogli il vigore perduto. L’ethos nato dalla necessità di oltrepassare la natura prima, non è attuale; il trascendimento andrebbe rivolto verso ciò che oggi costituisce la minaccia reale: e cioè verso il sistema tecno-economico che produce la dissoluzione della presenza e —insieme- della natura. Il pathos incentrato sul superamento del finito, che più superato di così non potrebbe essere, dovrebbe lasciare il posto al tentativo di salvarlo nella sua qualità irripetibile, nella sua singolarità e nella sua unicità. E’ possibile pensare a un sistema simbolico, a una tecnica, a un ethos, che pongano in primo piano l’intensificazione della qualità del finito e la sua individuazione, piuttosto che il suo dileguare nell’universale e nell’astratto.
Scolio 2.
Gli studi di Erich Neumann ci permettono di comprendere quanto cambi nel corso della modernità il concetto stesso di individuazione. La storia della cultura occidentale è condizionata dal terrore dell’Io di ricadere nell’indifferenziato: "Ogni analisi più approfondita mostra un’immagine dell’uomo occidentale…costantemente diretto verso un obiettivo fissato fin dall’inizio: l’emancipazione dell’uomo dalla natura e della coscienza dall’inconscio"(NEUMANN 1949 [1978]: 332). Ogni energia psichica è tesa a difendere l’Io eroico differenziato contro lo strapotere dell’inconscio (in particolare contro l’archetipo della Grande Madre della natura). Tuttavia, per l’uomo contemporaneo, il senso e la provenienza del pericolo si presentano invertiti, con segno mutato: è ora la coscienza che è divenuta un tiranno assoluto, fanatico, totalitario, che minaccia di distruggere la specie umana.
Neumann distingue il terrore per la castrazione matriarcale, che riguarda il passato della nostra cultura, da quello per la castrazione patriarcale, che invece si afferma in epoca più tarda. In quest’ultimo caso, il pericolo procede piuttosto dalla unilateralità della coscienza, dalla sua ostilità verso la vita naturale e la corporeità (Neumann ha presente soprattutto la tradizione protestante e il suo "spirito del capitalismo"). Questo pericolo di castrazione presenta due aspetti, apparentemente contraddittori e in realtà complementari: la sclerosi e la possessione. "Nella sclerosi della coscienza (un prodotto tardo dello sviluppo, che il mito pertanto non conosce) l’autonomia del sistema della coscienza egoica è così radicalizzata che il collegamento con l’inconscio viene pericolosamente ad atrofizzarsi"(Ivi: 334). Ancor più significativo è il fenomeno della possessione. Lo stesso spirito, che aveva consentito la formazione della coscienza, diventa qui la causa della sua crisi e di una vera e propria possibilità di delirio: "Mentre l’invasione del sistema conscio da parte dell’inconscio termina con la disintegrazione della coscienza, qui al contrario il tratto essenziale è un’espansione illimitata dell’Io"(Ivi).
La minaccia proveniente dalla Grande Madre —e cioè l’indebolimento e lo sgretolamento dell’Io maschile- presenta sintomi depressivi, che precipitano la coscienza in uno stadio sublunare di sensazioni irrelate, nella mancanza e al limite nell’immobilità melanconica. Al contrario, l’inflazione dell’Io è più prossima alla mania: "La coscienza è sovraccarica di contenuti spirituali che non può assimilare e di quantità di libido che appartengono all’inconscio. Il simbolo principale di questo stato è l’"ascensione al cielo", i suoi sintomi sono la sensazione di "sentirsi mancare il terreno sotto i piedi", la perdita del corpo (contrapposta allo smembramento), la mania (contrapposta alla depressione)"(Ivi).
In realtà come abbiamo visto anche in De Martino, sembra che depressione e mania siano in certa misura complementari. Da un lato, possono colpire alternativamente lo stesso individuo, sì che la malinconia si tramuta improvvisamente i furore e viceversa. D’altro lato, sul piano della psicologia collettiva, l’identificazione con un archetipo maschile eroico non esclude la dipendenza da quella specie di Grande Madre degradata, che è la società del consumo. Lo spostamento dal piano reale al piano spettacolare di vita non fa che rendere ancora più rapido il passaggio dall’uno all’altro polo. L’inflazione dell’Io (la sua immagine dominatoria e grandiosa) non può che subire uno scacco, da cui precipita in stati di dipendenza vergognosa e infantile; e d’altra parte, l’universale promessa di protezione e accudimento della società di consumo viene delusa, stimolando attacchi di furore irrelato. Né maschile né femminile esistono più dunque come forma autonoma, ma si isterizzano in tratti maniaco-depressivi. La relazione maschile-femminile nella cultura europea dell’inizio del 900 da Weininger a Lawrence, è un’estesa prefigurazione dell’isteria divenuta oggi merce quotidiana.
Neumann ha certo intuito questa tendenza della psiche: "In termini psicologici ciò significa che, come la mania e la melanconia non sono che due forme della pazzia, cioè dello stato uroborico divoratore che distrugge l’Io e la coscienza, così regredire all’inconscio, cioè essere divorato dalla Grande Madre, e diventare niente altro che coscienza, cioè essere divorato dal Grande Padre, non sono che due modalità di perdita di una coscienza veramente compensata e orientata verso la totalità" (Ivi: 335).
Dal sintomo al simbolo. La crisi della presenza nel 900 —nell’analisi di De Martino- presenta una polarità, che ha diversi tratti in comune con la descrizione della "chiacchiera", fatta da Heidegger in Essere e tempo. Da un lato, il mondo assume l’immobilità glaciale della reificazione, ogni esistenza si riduce a cosa, ogni corpo vivente si assottiglia in modo spettrale: "Il vissuto dell’universo in agonia assume anche la forma dell’universo già morto…" (DE MARTINO 1977 [2002]: 632); "Gli enti mondani si irrigidiscono, si artificializzano, i loro contorni diventano troppo definitivi, senza possibile "oltre"…"(Ivi: 633). Tuttavia, questo aspetto astratto e reificato dell’oggettività non esclude un movimento euforico, incessante (che ricorda l’esistenza inautentica descritta da Heidegger): "…Oppure la consistenza di questi enti si affloscia e i loro limiti diventano troppo molli, come se il mondo diventasse di gomma. Oppure gli enti sono travagliati da un vuoto "oltre", come forza maligna di dissoluzione…Le cose si scaricano le une nelle altre, diventano onniallusive, vanno oltre in modo irrelato"(Ivi).
Una vita astratta e disseccata si coniuga a un movimento di apparenze, che simulano la presenza dissolta, ne occultano il non essere e il vuoto. Nell’universo di questa crisi di presenza (e così nella chiacchiera, nello spettacolo, nella fantasmagoria delle merci), l’andar oltre è un semplice venir meno, e la "nuova" apparenza ricade nel nulla come la precedente. Certo, in questa modalità novecentesca della crisi si riattualizza un’esperienza arcaica, io sento la mia labilità e quella degli oggetti in modo paragonabile a quello con cui il primitivo sente accorciarsi le giornate prima del solstizio d’inverno e teme che la luce svanisca per sempre dal mondo: ma questo timore remoto lo vivo ora di fronte al trasformarsi dei legami sociali in simulacri incorporei. La presenza si dissolve nell’immaterialità astratta, non più nella materialità della natura. La situazione è chiusa, destinata, intrascendibile, e al contempo agitata da un vuoto continuo trapasso; questo psudotrascendimento non ha mai i caratteri della decisione, ma è passivo, avviene e si fa come estraneo.
Rigidità priva di vita e labilità incessante invadono la costellazione simbolica della nostra cultura. Questa —secondo De Martino- permetteva all’uomo di superare le crisi di presenza delle vite individuali e collettive, ricorrendo a un patrimonio condiviso di riti, immagini e feste iniziatiche. L’attività simbolica dà alimento all’ethos del trascendimento; ma dove decade la potenza immaginante dei simboli, decade anche la loro capacità di risanamento. Come nelle coazioni a ripetere descritte da Freud, la situazione traumatica si ripete senza soluzione. Varia bensì la forma o l’apparenza della situazione, ma non la sua traumaticità costitutiva. Secondo De Martino è decisivo che sia possibile passare dal sintomo al simbolo(DE MARTINO 1995: 109), aprendo la situazione traumatica, mostrando il possibile che la oltrepassa. Nel simbolo, il movimento regressivo coesiste con lo slancio dell’anticipazione; il tratto invariante e metastorico con quello storico; il ritorno al passato con l’apertura del futuro; l’invarianza della ripetizione con l’emergere della differenza. Il simbolo ricorre al passato condiviso della psiche e ne trae l’energia che ora gli consente una soluzione inedita alla crisi attuale: "Il simbolo è un ponte lanciato fra origine e termine, è ripresa rammemorante e anticipazione prefigurante, che toglie al qui e all’ora il suo rischio dispersivo e annientante, sollevandolo ai compiti della valorizzazione comunitaria della vita"(DE MARTINO 1977 [2002]: 301).
L’atrofia della dimensione simbolica rende il sintomo in realtà indecifrabile e insuperabile o produce un passaggio solo apparente da sintomo a sintomo, rinserrando così sempre più il soggetto nella crisi della presenza. La presenza resta "prigioniera del passato non trasceso, e quindi come presenza non attuale, non libera davanti al mondo, esposta all’essere-agito-da, invasa da sintomi cifrati"(Ivi 119). Tuttavia questa prigionia non deriva per noi "dalla primordiale pigrizia e dal primordiale ozio"(ivi) e cioè non tanto dalla regressione pura e semplice nella natura indifferenziata; ma piuttosto dalla cultura reificata che non offre più espressione simbolica alla vita stessa.
L’analisi fenomenologica di De Martino concorda in questo caso con quella di Adorno. I fantasmi dello spettacolo e della merce svolgono solo apparentemente la funzione dei simboli: ma più che trascendere la crisi della presenza essi occultano e otturano il vuoto da essa prodotto. In un certo senso, anzi, impediscono preventivamente che un simbolo corrispondente alla situazione possa ancora prodursi, stemperando il sentimento di mancanza e contraddizione che spinge la psiche umana a cercare un’immagine risolutrice. Le identificazioni con i sé falsi e grandiosi, con le immagini di merce, con la seduzione erotica costantemente deviata verso l’incorporeo o verso la pubblicità, offrono un surrogato della trascendenza del simbolo, ma mai oltrepassano la costellazione sostanziale dal corporeo-all’immagine-al consumo, che invece confermano.
Scolio 3.
Se l’ethos del trascendimento nella cultura occidentale si è identificato con il superamento della natura e dell’archetipo matriarcale, ora occorrerebbe piuttosto oltrepassare lo spirito astratto, la natura irrigidita nella reificazione. L’attività mediatrice del simbolo —la sua difesa o la sua possibile rinascita- va perciò ripensata in questo contesto. Secondo Neumann, occorre dsitinguere tra simbolo naturale e simbolo unificante.
Il simbolo naturale sostiene il distacco della coscienza dal mare dell’inconscio, verso la riva della cultura. In tale fase, il simbolo coopera al processo di razionalizzazione del mondo. Nella fase magica, il simbolo funziona come un trasformatore di energia. Di fronte al pericolo di dissoluzione della coscienza, la funzione simbolica regredisce agli erchetipi originari, cercando un’immagine che la soccorra nel suo compito presente, come nella destorificazione descritta da De Martino: "Quando sorge una situazione individuale e collettiva di crisi, si invoca l’intervento di coloro cui compete la trasmissione del canone…". Il risultato di questo intervento è "un riorientamento verso il canone dominante e un ricollegamento con il collettivo, i quali permettono di superare la crisi.Finchè questo tessuto di valori resta intatto, l’uomo comune è al sicuro nel suo gruppo e nella sua cultura.Cioè la presenza attiva di certi valori e di certi simboli dell’inconscio collettivo è sufficiente a garantire l’equilibrio psichico"(NEUMANN 1949 [1978]: 323). La regressione si traduce in una operatività storica e attuale della coscienza: apparente negazione della storia, il simbolo consente invece di oltrepassare la situazione critica. Ma —direbbe De Martino- in una crisi radicale della presenza, come quella del 900, questo apparato simbolico collettivo è divenuto inefficace o insufficiente.
Il simbolo unificante agisce invece in un contesto altamente culturalizzato, in cui la crisi della coscienza può dipendere dall’inflazione dell’Io o dallo sviluppo unilaterale dello spirito astratto (come accade —per ragioni economiche e politiche, oltre che psicologiche, nel corso del 900). Il simbolo unificante cerca di sanare la frattura tra l’Io cosciente e le pulsioni inconsce, che lo spirito divenuto astratto non sa più riconoscere con consapevolezza. Se il simbolo naturale sosteneva il percorso che conduceva dal mito al logos, quello unificante è una terapia del logos, arenato nella sua unilateralità: esso cerca di ridare espressione a energie inconsce troppo brutalmente espulse dalla coscienza e -in tale stato- divenute perturbanti e regressive. Il simbolo unificante spinge lo spirito ad abbandonare una terra divenuta arida e cercare nuovve forme di vita navigando nel mare dell’inconscio (ma non annegando in esso): "Quale prodotto della funzione trascendente, il simbolo unificatore risolve la tensione…tra l’atteggiamento di solidità dell’Io e l’opposta tendenza dell’inconscio a sopraffare la coscienza…Le posizioni della coscienza e dell’inconscio vengono superate, cioè "trascese", sotto l’influenza creativa di nuovi elementi fino allora inoperosi"(ivi 358).
Scolio 4.
Secondo Jung, le funzioni differenziate della coscienza non bastano più a superare la nostra situazione di crisi. Nei momenti cruciali della sua vita —la nascita, il sesso, la malattia, la morte-, quelli in cui deve misurarsi con l’oltre invisibile della vita, l’individuo non è più protetto da un canone archetipico consapevole e condiviso nei riti, nei miti, nelle feste. La nostra cultura si trova in stato di scissione, di conflitto: come in una tragedia, la coscienza è divisa e in bilico fra gli opposti e non riesce a trascendere questa situazione in base ai valori storicamente riconosciuti. In particolare, sono rotti e insufficienti tutti i canali di comunicazione tra la coscienza e l’inconscio: "Questo stato deve comportare un violentissimo dissidio con se stessi, tale che tesi e antitesi si neghino a vicenda, mentre l’io è costretto ad ammettere la sua incondizionata adesione tanto all’una quanto all’altra"(JUNG 1921 [1977]: 531). Questo tipo di crisi della presenza è, letteralmente, tragica, perché la coscienza è identificata con i valori culturalmente consapevoli, col linguaggio che li esprime e non ha per ora alternativa, ma d’altra parte è drammaticamente minacciata nella sua stessa vita dalla loro inadeguatezza, e sente l’urgenza e l’emergenza del nuovo. Questa intuizione, nella sua fase più drammatica, non ha né espressione, né linguaggio, si esprime, al più, come sintomo dissociante e depressivo. E tuttavia proprio e solo nel contesto di questa tragicità sorge inizialmente un nuovo simbolo, come il primo tentativo di trascendimento della situazione intollerabile di conflitto.
Quando una intera costellazione culturale entra in crisi come nel 900, la coscienza è divisa tra la fedeltà ai valori in cui si è così a lungo identificata e l’acuta percezione della loro disgregazione: essa aderisce in modo incondizionato e intollerabile a entrambi i due opposti. Secondo Jung, il trascendimento della situazione di crisi non può più avvenire ad opera delle forme culturali consapevoli, ma richiede l’attivazione di risorse nascoste: forze e figure che l’ethos occidentale —nel suo cammino- aveva messo da parte o confinato nella latenza dell’inconscio. Qui esse non sono tuttavia completamente scomparse, ma hanno continuato una vita potenziale, e possono dunque riemergere in una situazione di urgenza, che ne riproponga l’attualità. La coscienza vittima della crisi compie in primo luogo un passo all’indietro; un passo rischioso, che può anche apparire come un’ulteriore disgregazione, piuttosto che un principio di salvezza: "Dato che ogni progresso è reso impossibile dal totale dissidio della volontà, la libido scorre a ritroso…Quando la coscienza è ferma e inattiva, sorge un’attività dell’inconscio là dove tutte le funzioni differenziate hanno la loro comune radice arcaica…"(Ivi: 531).
Questo rischioso passo regressivo conduce a uno "stato di pura determinabilità", definizione che Jung riprende da Shiller(Ivi: 127), uno stato potenziale, precedente all’articolazione della coscienza e alle sue modalità differenziate. Regredendo in esso, si attivano possibili dimenticati dalla coscienza: figure, sviluppi, varianti, eliminati nel corso della rigida selezione, che ha portato alla attuale costituzione dell’ethos: "…Tutte le funzioni virtuali, respinte, dimesse, disusate, del tutto perdute da generazioni, si riattivano e incominciano ad esercitare sulla coscienza un’influenza sempre crescente, nonostante la resistenza spesso disperata dei propositi della coscienza stessa. L’elemento apportatore di salvezza è il simbolo, che in sé può comprendere e unire coscienza e inconscio…Mentre si fanno più frequenti i sintomi di un intimo dissidio, cresce il pericolo di rimanere sommersi e distrutti dai contenuti inconsci: ma contemporaneamente si sviluppa anche il simbolo che è destinato a risolvere il conflitto. Tuttavia il simbolo è intimamente connesso con l’elemento pericoloso e minaccioso così che esso può essere scambiato con quello…"(Ivi: 285). Da questo campo potenziale può emergere però una risposta più duttile e adeguata alla attuale situazione di crisi, un "saper fare" dimenticato o trascurato e tuttavia indispensabile nell’ora presente. E’ tuttavia difficile che esso passi dall’inconscio alla coscienza, perché questa si attacca con tutte le sue forze al sistema di valori consolidato, che pure non può non essere dolorosamente dissolto: "L’apparizione del principio di salvezza è collegata intimamente alla distruzione…"(Ivi: 285).
Il compromesso tra l’emergere del nuovo contenuto e la coscienza che inizialmente non gli fornisce linguaggio, è la formazione del simbolo. Esso anticipa o prefigura una soluzione alla crisi radicale della coscienza, permettendo a questa di assumere un nuovo orientamento: è contemporaneamente ciò che permette di riprendere contatto con la profondità dimenticata della psiche, ma anche il primo segno che essa sta uscendo dallo stato di regressione indifferenziata e sta per ritornare ad operare alla luce del giorno. La ripresa di un possibile passato perduto coincide con l’apertura di un possibile futuro. Affermandosi sempre più a livello cosciente, il possibile racchiuso nel simbolo produce un vero e proprio salto qualitativo rispetto al conflitto insolubile in cui la coscienza era coinvolta, non certo dando prevalenza all’uno o all’altro degli opposti, ma sospendendoli entrambi e rinviando a un punto di vista completamente inedito. Gli opposti, e il loro conflitto, vengono piuttosto depotenziati. Dal nuovo punto di vista, avviene una diversa configurazione del rapporto tra coscienza e inconscio, che permette di oltrepassare la situazione irrisolta e esercita così una funzione trascendente. Il simbolo è perciò una essenziale terapia della crisi ogni processo terapeutico include la riattivazione dell’attività produttrice di simboli.
Il proprio e l’estraneo. Per quanto indietro si risalga nella storia, l’identità culturale dell’Occidente si forma e si compone confliggendo o incontrandosi con l’immagine dell’Altro di volta in volta prevalente. Non esiste identificazione, recinzione di un nucleo identitario, costruzione di sistema simbolico, che non si realizzi per contrasto e differenza con l’Altro. Ma la differenza è già essa stessa relazione, l‘identità presuppone il modo in cui io penso ciò che identico non è. Ogni categoria del nostro pensiero non si è formata soltanto in uno sviluppo lineare e interno, ma sempre nel drammatico confronto con ciò che ad essa non consentiva o con categorie altre, che si orientavano verso una diversa cosmosvisione. Questo confronto è avvenuto orizzontalmente in rapporto con le culture altre, con cui l’Occidente si è incontrato (e che spesso ha distrutto); ma anche verticalmente, nella sua storia interna, nel rapporto con un passato, che al tempo stesso è la sua origine e un’alterità insistente nel suo stesso seno: "L’immagine operativa più aderente alla metodologia storiografica, sia che si tratti di ricostruire un’epoca interna della storia della civiltà occidentale sia che invece la ricerca si volga alle civiltà extraeuropee…non è quella di un piano progressivo irreversibile della storia universale, che l’umanità percorrerebbe solidalmente attraverso fasi successive distinte anche se con ritmi diversi…ma è bensì quella di una pluralità di sviluppi storici di varia provenienza, una dispersione di sistemi di scelte in movimento e di diverse valorizzazioni della vita" (DE MARTINO 1977 [2002]: 397).
In ogni caso, la ricerca etnografica nasce nel contesto di una cultura, che ha interiorizzato entro di sé la frattura e la discontinuità tra un mondo "antico", fondato su un sistema simbolico sensibilmente anche se parzialmente diverso, e il mondo cristiano successivo. La storia in Occidente ha a che fare con un’alterità originaria, rispetto a cui i tratti di discontinuità sono non meno importanti di quelli di continuità e tradizione: con una scissione, che ha prodotto la fine e il crollo di un universo religioso e simbolico e la sua sostituzione da parte di un altro. Il metodo storico di confronto con l’alterità del passato (che nondimeno non è un’alterità assoluta, ma rivela anche tratti permanenti e comuni), è un presupposto di quello etnografico. La ricerca di ciò che differisce non esclude quella di ciò che è comune, e l’etnografo, come un tempo lo storico, è teso in questa dialettica.
Da un lato, l’incontro con l’altro spinge l’etnografo a relativizzare le sue categorie, a non considerarle com un sistema assoluto di valori e a percepirle come un che di formato e tutt’ora agitato dal mutamento; d’altro lato, è pur sempre sulla base di queste categorie che egli necessariamente tenta di entrare in rapporto di comprensione e di "traduzione" con l’altro. Il riconoscimento della differenza non diviene automaticamente indurimento in nuclei identitari contrapposti e incompatibili; la ricerca di un fondo "universalmente umano"(DE MARTINO 1977 [2002]: 412), non nega la differenza culturale specifica, ma tenta di istituire una relazione da punti di partenza distinti. L’etnografia è una "attività unificatrice" e non la semplice ripresa di un’unità già esistente: "E’ dunque dall’incontro con l’altro e con un altro ambiente culturale che può iniziare il processo di scollamento che ci desolidarizza dalla nostra cultura, rendendocela visibile. E’ possibile allora divenire consapevoli della funzione generica della cultura, che permette agli umani di essere tali, e dei tratti specifici, non universali, di quella cui apparteniamo…"(COPPO 2003: 100).
L’"altro" non è solo un oggetto di studio, a cui applicare le categorie elaborate dalla cultura occidentale: l’incontro con un’altra cultura richiede la messa in discussione radicale degli stessi paradigmi scientifici dell’osservatore. Occorre sostenere l’esperienza dell’alterità, riconoscere in quest’urto il carattere formato, condizionato, relativo della propria cultura di appartenenza. Ciò è visibile in modo esemplare nel caso di traduzioni tra lingue e culture differenti: si creano per alcune parole o concetti dei "nodi intraducibili"(Ivi) e è proprio qui che cade il maggior interesse del traduttore. L’impossibilità di tradurre ci obbliga a porre in questione e "spiegare" non solo il concetto estraneo, ma anche la costellazione di termini propri che cercano in qualche modo di circoscriverlo. La riflessione su una non riducibile alterità mi conduce all’approfondimento dei temi fondativi della mia cultura e alla loro interrogazione.
Da un lato il fondo comune, "universalmente umano", va inteso "non come un presupposto ma come un compito"; dall’altro esso rinvia certo a un comune patrimonio della specie, a un passato condiviso: ma questo non può indurre a trascurare le divaricazioni reali, le decisioni alternative, che a un certo punto inaugurano storie culturali effettivamente diverse e che sarebbe illusorio voler ricondurre a un unico modello di sviluppo, come nello storicismo di matrice idealistica. Occorre tenere sempre aperta la dialettica fra il fondo universalmente umano e le differenze di sviluppo che caratterizzano le diverse culture; come anche la possibilità di coesistenza —in una medesima cultura e nello stesso presente- di livelli e strati appartenenti a forme culturali distanti nello spazio e nel tempo. Più che un nucleo identitario impermeabile, troveremo allora una molteplicità coesistente di tempi, possibilità e forme che tentano di tradursi in un linguaggio sempre imperfettamente comune: "…Questa duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena è condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il "proprio" e l’"alieno" sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo, quel fondo, dunque, a partire dal quale anche "noi" avremmo potuto imboccare la strada che conduce all’umanità aliena…Tale confronto si fonda sull’assunzione che le categorie interpretative dell’Occidente e quelle degli altri etne non occidentali non siano "incommensurabili"…ma che una comune umanità abbraccia le prime e le seconde…"(DE MARTINO 1977 [2002]: 391 e 395). Ricerca della specificità e della differenza delle storie culturali — e possibilità di una loro traduzione reciproca, coesistono nel pensiero di De Martino.
La crisi "interna" della nostra cultura può essere superata solo oltrepassando quel progetto di dominio economico e tecnologico, che ci ha indotti a colonizzare e distruggere la differenza dell’altro. Più ne riscopriamo la specificità, e più saremo indotti a interrogarci sugli effetti che quel progetto ha prodotto su noi stessi, sui nostri corpi, sulla nostra relazione col mondo.
Nell’universo della fantasmagoria non c’è merce che non si muova e tremi come ebbra(d); e tuttavia con la ripetitiva finalità di trasformarsi in danaro. Come consumatore, vedo la fantasmagoria delle merci trasformarsi di continuo (la novità della moda); ma il suo senso è l’eterno ritorno dell’apparenza al danaro. Anche la tecnica muta in costante innovazione e il mio corpo deve allora adattarsi a contesti faticosamente diversi (come nel passaggio dalla catena di montaggio alla flessibilità postfordista); inalterabile resta la subordinazione del mio corpo alla macchina, del lavoro vivo a quello morto, la trasformazione dell’organico in inorganico. Lo spettacolo alterna incessantemente una forma con l’altra: un comico diviene ministro, una "velina" suora di carità, una rockstar può finanziare la guerra santa e la società in genere diviene un palcoscenico in cui nessuno recita la propria parte, ma si schizza in un centinaio di personalità multiple; tuttavia nulla muta la mia situazione di singolarità spettativa e passiva, di bersaglio traumatizzato.
Un vuoto oltre si contrappone ovunque a una sterile ripetizione. Per trascendere realmente la mia situazione di consumatore, di forza lavoro, di spettatore, dovrei rovesciare l’essenza stessa della situazione in cui sono inserito: il divoramento del vivente da parte dell’astratto. Dovrei cioè entrare in conflitto col movimento originario del capitale.
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