NOTE IN MARGINE A "PER LA CRITICA DELLA PSICOANALISI" DI JASPERS
L'avversione di Karl Jaspers per la psicoanalisi trova espressione in vari luoghi delle sue opere, ma è sinteticamente puntualizzata in modo definitivo in un breve e veemente scritto del 1950. Il saggio s'intitola "Per la critica della psicoanalisi". Jaspers sessantasettenne, celebrato esponente del pensiero filosofico europeo e insieme celebre ideatore della Psicopatologia generale, offre in omaggio questo saggio al neuropsichiatra tedesco Hans W. Gruhle, in occasione del suo settantesimo compleanno. Il lavoro fu pubblicato su Nervenartz, e può essere letto in italiano nella raccolta jaspersiana Il medico nell'età della tecnica (1986) [1] . In questo succoso volumetto è associato agli scritti sulla psicoterapia, estratti dalla sua Psicopatologia generale, e ad altri tre saggi sulla medicina e il medico (scritti dal 1953 al 1958). Gli scritti sulla psicoterapia, derivati dalla sua Psicopatologia generale (la cui prima edizione risale al 1913), furono inseriti in quell'opera monumentale quasi certamente con l'aggiornamento che Jaspers ne fece nel 1942. Quell'edizione poté tuttavia essere pubblicata solo dopo la guerra.
Il medico nell'età della tecnica mostra nel suo insieme come Jaspers, che idealmente poteva aspirare come pochi ad incarnare l'ideale ippocratico del "medico e filosofo", non interrompe mai la sua riflessione sulla medicina e sulla psichiatria, sul loro "posto", anche metodologico, nel pensiero filosofico e nelle pratiche dell'uomo. Anche quando la sua attività di medico è ormai una remota esperienza giovanile, i momenti di continuità della sua impostazione rispetto alla Psicopatologia generale (1913) balzano all'occhio, come pure la connessione con la sua concezione filosofica complessiva e con i tratti del suo peculiare "storicismo" ed esistenzialismo. Questi ultimi due aspetti erano del resto già presenti, ora esplicitamente ora in nuce, nella Psicopatologia. In quest'opera contribuiscono a creare la distanza filosofica necessaria alla costruzione di un discorso psicopatologico dall'alto: "elevato" (come dichiaratamente voleva che fosse) e, appunto, generale. La sovrana elevazione dello sguardo jaspersiano, il tenersi a distanza che esso implica, è un deliberato atteggiamento metodologico, in pratica l'unico veramente preciso ed enunciabile, per caratterizzare la sua peculiare "fenomenologia", sostanzialmente estranea al metodo husserliano e anche all'antropologia fenomenologica binswangeriana.
Il nostro interesse per questo saggio, non certo tra i migliori di Jaspers, nasce da una reazione infastidita per il tono presuntuoso di una liquidazione sommaria della psicoanalisi, che fa torto alla grandezza dell'autore e all'importanza della sua riflessione psicopatologica
In che senso Jaspers insorgeva in questo scritto contro la psicoanalisi? Verso quali elementi della disciplina, che ebbe in Freud il suo iniziatore, Jaspers fu violentemente critico e insofferente; e con quali argomenti?
L'accesa posizione di Karl Jaspers contro la psicoanalisi merita di essere attentamente e criticamente considerata da chi si accinge a una valutazione dell'opera jaspersiana. Essa dovrebbe anche interessare lo psicoanalista, investito da una radicale e accigliata ripulsa.
Possiamo cercare di puntualizzare e commentare le principali asserzioni e tesi nelle quali si sostanzia l'avversione di Jaspers, riprendendo in parte gli argomenti di un precedente studio e cercando di focalizzare sinteticamente il problema
Pensiamo che per lo psicoanalista e lo psicopatologo avveduto possa essere di grande interesse riflettere sulle tesi jaspersiane; come è importante rendersi ragione del rifiuto di un certo numero di postulati e tesi psicoanalitiche da parte di altri grandi critici, come Wittgenstein. Da una riflessione su questi testi avversi, la psicoanalisi può trarre parecchi vantaggi e stimoli a chiarimenti metodologici in varie direzioni. Si tratta di cogliere il senso di queste critiche e di rispecchiarsi in esse, senza limitarsi a minimizzarle o a liquidarle ricorrendo all'argomento delle "resistenze" alla psicoanalisi, che pure esistono. Ma esistono, e soprattutto sono esistiti, anche i facili entusiasmi psicoanalitici di psicoanalisti e di psichiatri, e il deprecabile "psicoanalismo", che richiede esso stesso di essere inteso. Come è anche documentabile la faciloneria dello psicoanalista che elargisce interpretazioni anche quando nessuno le richiede e senza che siano inscritte entro il solo quadro che le può veramente giustificare.
Vediamo dunque per punti alcuni aspetti delle critiche jaspersiane, assieme a qualche sintetico commento.
1. Lo sguardo elevato di Jaspers consente un certo tipo di osservazione e riflessione a distanza, permettendo anche certe forme di comprensione per Einfühlung, ma non con altre modalità: come l'osservare protratto e da vicino, in effettiva relazione e contatto. Offre in cambio parecchi vantaggi: evita coinvolgimenti, identificazioni eccessive, e soprattutto esclude un ascolto prolungato e diretto, con tutti i rischi e fastidi che ciò comporta. L'elevatezza ha insomma il pregio, ma anche il limite — per esprimerci con schiettezza – di permettere all'elevato di regolare la sua distanza dal malato e, in definitiva, di starne alla larga. Basta pensare che i casi clinici di cui Jaspers si occupa nella sua psicopatologia giacciono soprattutto in scritti di grandi malati mentali o di psichiatri, documentati mediante citazioni appropriate, che dovrebbero possedere il carattere di un'autoevidenza, insieme persuasiva e ostensibile. I fenomeni psicopatologici così isolati non sono mai colti nello scambio personale col malato, non mediante una semeiotica vivente, che affronta il rischio del dialogo, l'alea dell'ascolto. E neppure con quella sensibilità simpatetica che ha permesso a numerosi e anche grandi medici suoi contemporanei di intuire il valore e la novità delle scoperte psicoanalitiche. L'identificazione partecipe protratta fa semplicemente orrore a chi è in cerca di oggettività morbose, ieri come oggi. E anche a un grande utilizzatore della nozione di empatia o Einfühlung, quale Jaspers è certamente stato.
2. Una distinzione e separazione personale programmatica dal morboso guida e orienta il suo sguardo, sin dall'inizio. Per scendere nel pozzo — che sia il "profondo pozzo del passato" di Thomas Mann, o la profondità di noi stessi e dell'altro – serve certamente un ancoraggio sicuro e in alto; ma occorre poi affrontare il rischio della discesa. Ciò stabilisce subito una decisiva differenza dell'atteggiamento jaspersiano rispetto all'accostamento psicoanalitico alla psicopatologia. Anche Freud sviluppa la sua principale riflessione clinica sulle psicosi utilizzando un grande documento psicopatologico, come le Memorie del presidente Schreber. Il saggio di Freud è del 1910 e precede quindi di poco la Psicopatologia di Jaspers. Ma Freud attiva attorno alla sua lettura interpretante di quest'opera, lettura in più punti insufficiente e anche sbagliata, una partecipazione che lo avvicina alla psicosi e gli permette di comprendere, pur attraverso certi fraintendimenti, alcune funzioni fondamentali del delirio. Egli non esita a riconoscersi per alcuni tratti nella "demenza paranoide" di quel grande "malato di nervi", compiendo una mossa straordinaria di assimilazione di certi aspetti della concezione psicoanalitica della vita psichica alle configurazioni deliranti di Schreber, alla sua capacità di descrivere il funzionamento psichico nei termini inediti di un delirio perspicace.
3. Il profondo fastidio di Jaspers per la psicoanalisi, il suo rigetto pressoché totale, con punte di aristocratico disprezzo, corrisponde a un atteggiamento svalutante che finisce per coincidere col rifiuto infastidito di molti benpensanti verso la psicoanalisi e infine anche verso la stessa malattia mentale. Fastidio, rigetto, disapprovazione e facili ironie sulla psicoanalisi erano presenti un po' dappertutto e lo erano stati ancora di più nei decenni precedenti, in Germania e anche in Italia. Un'occhiata alla trattatistica psichiatrica coeva e al tipo di reazioni che la psicoanalisi suscita in tali testi, è assai istruttiva da questo punto di vista. Eppure in quegli anni non mancano psichiatri che iniziano a interrogare la propria disciplina mediante la psicoanalisi, che dal suo canto non ha mai respinto il sapere della psichiatria.
La psicoanalisi aveva avuto, già all'epoca in cui Jaspers scrive il suo saggio, un suo grande sviluppo e anche un certo successo nel mondo, ma certamente non in Germania o per esempio in Italia, dove era stata distrutta dal nazismo e dal fascismo. Essa non è certo in grado in quel momento, almeno in Europa, di fare ombra alla psichiatria accademica e a quella dei manicomi. Né è mai accaduto, neppure dopo, che essa potesse sostituirsi per intero alla psichiatria. Essa non ha mai avuto, né avrebbe potuto avere, quest'ambizione. Ma neppure poteva essere realisticamente presa come una pratica veramente "corruttrice della mente" di chiunque, e del medico in particolare, come Jaspers ritiene. Ben altre forze distruttive e corruttrici delle menti erano operanti o lo erano state, su fronti diversi, in Europa e negli Stati Uniti.
4. Inoltre, quella psichiatria che Jaspers cercava di nobilitare, fornendole un orizzonte sistematico e correlandola al pensiero metodico della riflessione filosofica e della scienza, sarebbe poi divenuta oggetto di un discorso critico, condotto anche al proprio interno, che – ci pare – nessuno neppure abbozzava ancora negli anni cinquanta, e certamente non Jaspers. Mentre un po' meno di un ventennio dopo, la psichiatria ufficiale, fortemente orientata in senso prevalentemente biologico, avrebbe dovuto fare i conti con una contestazione radicale delle sue concezioni e delle sue pratiche unilaterali. Purtroppo a queste pratiche Jaspers aveva fornito un quadro concettuale, che è spesso servito, certo senza alcuna responsabilità direttamente imputabile a Jaspers stesso, per legittimare molte atrocità manicomiali, rispetto alle quali la psicoanalisi restò complessivamente del tutto estranea. I nobili appelli jaspersiani —presenti qui e in altri luoghi della sua Psicopatologia – alla formazione di uno psichiatra comprensivo e di ampie vedute, formatosi a contatto con i grandi romanzieri e filosofi di tutti i tempi, non impedirono le pratiche manicomiali e una sostanziale solidarietà degli psichiatri europei con questa violenza. Questi stessi psichiatri si facevano forti delle distinzioni jaspersiane tra "comprendere" e "spiegare", forzate, portate all'estremo e in parte fraintese, per consolidare quel muro dell'essenza incomprensibile delle psicosi, che legittimava l'incuria e l'indifferenza verso la realtà dolente dell'esperienza psicotica.
5. Sembra intanto evidente che Jaspers non avesse un'estesa conoscenza di prima mano dei testi freudiani, e meno che meno degli scritti dei suoi principali successori. La sua è una visione limitata della psicoanalisi; quanto ai post-freudiani con un pensiero originale, non doveva averne alcuna nozione. Mentre sembra straordinariamente infastidito dalla chiacchiera psicoanalitica, dalle attese sprovvedute di molti verso quella che finisce per apparirgli come una sorta di religione, accettata fideisticamente, da parte di un manipolo di seguaci, che rischiavano di corrompere la vera scienza e la fede autentica.
La psicoanalisi appare a Jaspers come una fede mal riposta. Allo psicologo delle Weltanschaaungen essa si presenta come una "visione del mondo", che non si riesce veramente a collocare da nessuna parte. Non è scienza, non è filosofia, non è autentica psicologia. E non è neppure una vera religione. Pur essendo quello della psicoanalisi un procedimento pseudoscientifico, "partecipa" della freddezza della scienza e della tecnica del ventesimo secolo. Essa esprime una posizione anti-umana. Per Jaspers, Freud si basa sull'odio e non sull'amore per l'uomo.
6. Quanto alla sua pretesa scientificità, Freud è visto come il portatore di un pregiudizio negativo verso le scienze naturali "senza che egli abbia compiuto veramente della ricerca in questo campo".
A differenza di Binswanger, che rimproverava a Freud proprio il suo "naturalismo" [2], Jaspers gli rimprovera all'opposto uno "psicologismo alla Herbart" (p. 71 — 72), lontano dalla "conoscenza chiara", propria delle vere scienze. Le sue "trovate", oltre che i sui "errori oggettivi", cioè di principio, offuscano la conoscenza.
Sappiamo quanto queste due tesi contrastanti, entrambe negative, si ripresentino costantemente nella valutazione critica dell'opera freudiana. Ma, nonostante queste e altre obiezioni di cui diremo, Freud è guardato anche con qualche apprezzamento positivo. Verso di lui esiste anche rispetto, oltre che una critica radicale. Si manifesta qui un'evidente ambivalenza. Per Jaspers il rispetto verso Freud non è tuttavia quello che si guadagna un ricercatore serio e creativo, ma quello dovuto al fondatore di una nuova religione, magari sì geniale, ma non privo di fanatismo e persino animato da odio per il prossimo. Soprattutto Jaspers non tollerava gli "schiavi della psicoanalisi", gli psicoterapeuti che pensano di possedere chiavi tecniche da applicare rigidamente e senza amore.
6. Della psicoanalisi insomma a Jaspers non va bene quasi niente. E' il metodo della psicoanalisi che è per lui profondamente sbagliato: esso gli sembra un disordinato guazzabuglio di intuizioni, di postulati confusi e indimostrabili, sui quali non è possibile costruire una vera disciplina.
Ciò significa che lui pensava di avere in pugno dei saldi principi ordinatori, gli unici che permettono di fare chiarezza e di progredire.
Egli inoltre pensa che l'aiuto psicoterapeutico possa avvenire solo entro il quadro della comprensione (Verstehen), che può tuttavia attuarsi esclusivamente sul terreno di una reciprocità esistenziale, dove ogni elemento scientifico appare fuori posto e si arroga prerogative che non può possedere.
7. In sintesi, la psicoanalisi confonde "la comprensibilità del senso nello spazio della libertà con la spiegazione causale" (p. 73). La contrapposizione tra "comprendere" e "spiegare" qui evocata è la stessa che troviamo nella Psicopatologia Generale. La catena di equivoci in cui si ingarbuglia la psicoanalisi starebbe nel suo confondere l'ordine delle cause con quello della comprensione. Mentre la comprensione può arrivare sempre e solo sino a un certo punto, la psicoanalisi pretende di comprendere tutto. E quindi si illude di tutto spiegare.
Fino a che punto la comprensione si possa spingere, si chiarisce con la concezione jaspersiana di una comprensione dai limiti mobili, capace di penetrare nei rapporti di derivazione e concatenazione di stati psichici che si generano gli uni dagli altri. Ma il comprendere è comunque collegato all'esperienza del "limite del comprendere". I limiti del comprendere dipendono dalla persona del ricercatore e dall'ampiezza delle sue vedute, ma soprattutto da quell'elemento primario dell'esperienza che non può, per definizione, essere sondato. Esso corrisponde all'"essere così", a un dato essenzialmente naturale, che non ammette di essere interrogato in termini psicologici. Il mutamento che si riscontra, per esempio, nell'esperienza delirante primaria appartiene per Jaspers a quest'ordine dell'insondabile.
Anche per H. W. Gruhle (1915) – il destinatario del saggio che stiamo esaminando – il delirio si caratterizza per lo stabilirsi di un rapporto di significato senza motivo. Arnaldo Ballerini (1996), citando tra gli altri Gruhle, esamina dettagliatamente il problema dell'incomprensibilità del delirio in un suo notevole scritto. [3]
Egli rileva come il "senza motivo" sottolinei ancora l'incomprensibilità dell'esperienza delirante. In verità noi tutti siamo attraversati costantemente da pensieri senza motivi individuabili e di cui non sempre comprendiamo l'origine. Ma dobbiamo condividere oggi con Ballerini l'idea che l'estremizzazione della dicotomia comprendere/spiegare non aiuta, ma ostacola l'attitudine comprensiva di fronte all'urto di ciò che non si comprende. L'urto non va annullato, ma è pur vero che non tutti lo avvertono nella stessa misura e che a partire da esso lo psicopatologo dovrebbe attivare una perspicacia e una penetrazione non convenzionale. Ci si aiuta allora con l'immaginazione, con la comprensione "come se", con un'identificazione più ardita, con l'immaginare contesti di plausibilità anche per le espressioni apparentemente più anomale, o attivando un pensiero ipotetico e qualche fioca luce che esso può gettare a favore della nostro intendere. Per quanto possa apparire difficile, questo è quanto si richiede allo psichiatra. Ascoltare in modo ardito e soprattutto ascoltarsi, considerare le proprie risposte emotive e immaginative, per andare al di là della "sana" ripulsa della follia da parte di una normalità ottusa.
E' vero insomma che l'ordine delle cause e quello dei motivi sono strettamente intrecciati, benché facciano capo a due categorie in linea di principio profondamente diverse.
Naturalmente gli psicoanalisti sanno bene (o dovrebbero sapere) i limiti innumerevoli sia della loro disciplina, sia delle forme di comprensione che il loro metodo permette di attivare. E intanto quelli delle "costruzioni ausiliarie" che la metapsicologia ha prodotto. Si tratta appunto di costruzioni ipotetiche, delle quali Freud ha ripetutamente sottolineato la provvisorietà e l'inadeguatezza: esse stavano e stanno al posto, faute de mieux, di altre concezioni e conoscenze più fondate sul funzionamento psichico, che forse un giorno renderanno obsolete le configurazioni ipotetiche della metapsicologia. Forse, esprimendo queste cautele, addirittura Freud dava qui voce a un proprio pregiudizio naturalistico e riduzionistico, che in realtà non attivava in altri passi delle sue opere.
8. Jaspers si preoccupa di contrastare le pretese etiologiche della psicologia psicoanalitica, che del resto non sono mai state chiaramente enunciate da nessuno, e meno che meno da Freud. Con i suoi interventi lo psicoanalista sa di fare ricorso a modelli psicologici che pur bastando a se stessi, non possono aspirare all'esaustività. Dovrebbe inoltre conoscere i confini di una loro appropriata applicazione, che è quella dell'incontro personale, entro uno spazio relazionale specifico, ritagliato a sua volta entro uno spazio sociale che è comunque assai vasto e complesso e che può condizionare ab exteriore la patologia.
Sia l'esistenza di orientamenti biologici sfavorevoli, spesso mal determinabili, ma che vanno comunque supposti e studiati; sia le circostanze avverse della vita e della crescita umana e altro ancora, creano situazioni di impasse (nello sviluppo personale e nella terapia), che ogni clinico dovrebbe saper riconoscere. Tutte considerazioni che dinamizzano l'incomprensibilità, la relativizzano e la trasformano nella nostra incomprensione.
9. Non è perché sono degli "illusi" che sopravvalutano la possibilità di comprensione che gli autori psicoanalitici hanno creduto e credono alla penetrazione in profondità della parola efficace, anche nella cura delle psicosi. Il potere dell'interpretazione analitica si documenta in molti casi, anche se non sempre. Anche la psicoanalisi ha i suoi "non responders", ovviamente, sui quali si interroga con grande attenzione, prima di consegnare il caso difficile alla scappatoia delle "cause" biologiche.
Gli psicoterapeuti orientati dalla psicoanalisi si sono sempre mossi entro un modello generale che affidava all'imponderabile — soprattutto biologico – importanti questioni, quali la scelta della malattia, l'intensità delle resistenze, la presenza di un'"economia" biologica – costitutiva sfavorevole, rocciosa e insondabile.
L'ordine motivazionale e psicologico non è comunque da sottovalutare come promotore fondamentale del comportamento umano; la pulsionalità stessa — al confine tra bios e psiche – permea il nostro volere in un modo che rende sterile contrapporre rigidamente causalismo a comprensione. La stessa medicina non può fare del resto riferimento a una causalità semplice, avendo a che fare con un plurideterminismo complesso che sia articola su livelli eterogenei.
10. Jaspers, analogamente a Dilthey, pensava come originario e di significato quasi categoriale, il fatto tipicamente umano dell'entropatia o empatia, che sta a fondamento del comprendere. Ma l'empatia è lungi dall'essere una categoria originaria, perché essa si costruisce, con le sue proprietà di penetrazione dell'Io nel Tu, entro una genesi personale e relazionale. L'empatia è una funzione quasi-biologica, quasi-psicosociale, ma non è in alcun caso un'essenza prima dell'uomo, benché lo caratterizzi essenzialmente, come il linguaggio e le capacità simboliche.
Il problema non sta oggi nei rischi di distoglierci, complice la psicoanalisi, dalla "vera causalità": ci sembra vero invece che non possiamo interrogare la causalità biologica se non ponendole domande a partire da quella fenomenologia della psiche umana che anche la psicoanalisi ha contribuito a mettere in luce. Acutamente Arnaldo Ballerini, nel saggio citato, raccomanda di articolare "comprensibile" e "incomprensibile", anziché contrapporli, senza per questo cancellare la dimensione tragica del delirio con un semplicistico comprendere "come se". Ma proprio il tragico del delirio e di molti sintomi è ciò che la psichiatria clinica deve attraversare, "assistendo", accogliendo senza mettere a tacere con la violenza delle cure o con "il pigro e rassegnato attestarsi sul criterio dell'incomprensibilità", che fa voltare subito la pagina conturbante, senza indugiare su di essa.
11. Nessuno psicoterapeuta potrebbe accettare una proposizione così approssimativa come quella che Jaspers enuncia, dicendo che "attraverso il comprendere non provoco effetti, ma faccio appello alla libertà". La libertà è assai limitata dalla patologia e nello stesso tempo ogni terapia psicologica presuppone un'adesione libera, e dovrebbe essere attenta a far sviluppare la cura parallelamente a un'accresciuta consapevolezza, senza la quale siamo troppo ciechi e il nostro volere risulta troppo asservito a bisogni e fantasmi rispetto ai quali non è possibile assumere una vera posizione.
Solo "posteriormente", Nachträglichkeit, ci è data la possibilità di leggere la curva della necessità e del presente. Ma anche la conoscenza psicologica intuitiva ci permette di fare "calcoli razionali" (p. 73), e non solo i nostri modelli esplicativi "empiricamente accertabili".
11. La psicoanalisi nasce da una trasformazione della distanza usuale dello psichiatra dal suo soggetto-oggetto, si sforza di creare modelli oggettivi in una situazione di osservazione in prossimità, rileva i fenomeni che si creano in una relazione che a Jaspers era profondamente estranea, quella del contatto ravvicinato e protratto con la follia, incarnata in persone e non soltanto libresca.
Le vecchie metafore freudiane dell'analista — specchio, o la stessa analogia col chirurgo, comportano la prossimità, addirittura un'inedita penetrazione associate alla oggettività e a una "freddezza", che devono comunque coniugarsi con una simpatia e una benevolenza di principio. L'empatia diltheyana la psicoanalisi degli inizi l'ha presupposta implicitamente in tanti suoi concetti, tanto da non aver bisogno di evocarla. Essa è stata solo tardivamente ed esplicitamente teorizzata da Kohut. Ma non si tratta in ogni caso della medesima empatia di Dilthey, quando ci confronta con quel bambino bisognoso e con quella fragilità che è in noi tutti. Il paziente stesso è infine uno specchio per chi lo cura e ciò richiede un grado di consapevolezza in più perché ciò non si trasformi in un disastroso inconveniente nelle relazioni d'aiuto.
12. Diversi altri punti della densa critica di Jaspers potrebbero essere ancora menzionati e richiederebbero lunghi discorsi, che in gran parte abbiamo già sviluppato altrove. [4]
Parecchi psichiatri odierni continuano a essere sconcertati dai "cerchi dialettici" della psicoanalisi, per riprendere le parole jaspersiane, e non vogliono averci a che fare; in alcuni casi colgono che qui sono in gioco verità fondamentali per l'antropologia umana e anche per la professione del medico, e al tempo stesso se ne ritraggono, talvolta perché avvertono i rischi di gravi coinvolgimenti, su un terreno poco fondato e insicuro.
Jaspers cerca di dare forma al suo fastidio per la psicoanalisi, rilevandone i numerosi difetti, le sciocchezze che qua e là possono essere espresse in suo nome, la problematicità di una cura psicologica dell'uomo che non si limiti all'elargizione della saggezza, l'imbarazzante necessità di una formazione personale che debba essere certificata, dando luogo a istituzioni, ecc. Tutta questa intrinseca difettosità, criticata dall'alto, puntigliosamente e acidamente, non ha impedito che la psicoanalisi si sviluppasse e con lei, in misura infinitamente superiore, le psicoterapie che ad essa si ispirano. Non vogliamo deliberatamente tracciare valutazioni astratte e generiche su tale situazione. Talvolta alcuni degli argomenti critici di Jaspers ci paiono giustificati, ma occorrerebbe che le stesse psicoterapie e la psichiatria clinica venissero sottoposte ad analoga disamina.
Freud avrebbe probabilmente sorvolato su accuse come quelle di Jaspers assai più di quanto noi abbiamo fatto con questa nota. E avrebbe forse contrastato le critiche jaspersiane alla psicoanalisi ricordando un Witz: la risposta data da uno spiritoso cinico a un tale che si lamentava continuamente delle donne. "Non lamentiamoci troppo; in fondo, nel loro genere, non conosciamo niente di migliore".
Ma la serietà accigliata di Jaspers non permette battute di questo tipo. E allora toccherà anche allo studioso della filosofia jaspersiana e allo storico delle idee chiarire i termini teorici e stilistici di un pensiero che vuole pronunciarsi sull'esistenza umana mantenendo la posizione di un medico — terapeuta, armato di una filosofica distanza; che predica l'empatia e insieme ne stabilisce rigidi e prematuri limiti biologici; e che avvertendo con gran fastidio l'immanenza quotidiana dell'inconscio e dell'ingovernabilità passionale e "notturna" nella nostra vita, passa troppo rapidamente dall'evocazione dell'essere nel naufragio all'auspicio di un saldo terreno neurobiologico, dal quale ancora la psichiatria clinica attende soddisfacenti risposte esplicative.
VANNA BERLINCIONI e FAUSTO PETRELLA
Università di Pavia
N O T E
1. K. Jaspers (1986), Il medico nell'età della tecnica, Raffaello Cortina, Milano 1991, con una presentazione di U. Galimberti.
2. Vedi, per esempio, L. Binswanger (1936), Freud e la costituzione della psichiatria clinica, in: Per un'antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970.
3. A Ballerini, La dicotomia comprensibile/incomprensibile é ancora un concetto ordinatore del delirio?, in: Breviario di psicopatologia (a cura di A: Ballerini e B. Callieri), Feltrinelli, Milano 1996, p. 26.
4.Per esempio in F. Petrella, Turbamenti affettivi e alterazioni dell'esperienza, Raffaello Cortina,
Milano 1993; e Nosologia e psicoanalisi, in Trattato di psicoanalisi (a cura di A. Semi), vol. II,
Raffaello Cortina, Milano 1989.
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