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Mortalità precoce e suicidio “subintenzionale” nei depressi: il caso di Giovanni Segantini

21 Dic 12

Di Sabino Nanni

I – Dimensioni del problema




segantini

Partiamo da dati quantitativi: da uno studio compiuto negli USA nel 1993 [Frasure-Smith citato in 11] è emerso che i pazienti depressi, nell'anno immediatamente seguente un infarto del miocardio, hanno una probabilità di morire da 3 a 4 volte superiore al gruppo di controllo di persone con la stessa patologia cardiaca. Uno studio compiuto, sempre nel 1993 e negli USA [Robinson, ibidem], poneva in evidenza un identico aumento dei valori di mortalità per emorragia cerebrale associata a depressione rispetto alla stessa patologia vascolare senza disturbi dell'umore. Il DSM IV TR [2] riporta, negli individui oltre i 55 anni con Disturbo Depressivo Maggiore, una frequenza di morte aumentata di ben quattro volte rispetto al resto della popolazione della stessa età. Come spiegare dati così rilevanti? La prima ipotesi che verrebbe spontaneo considerare è quella del suicidio, ma, sempre dal DSM IV TR, apprendiamo che esso incide su non più del 15% delle morti precoci di individui con Disturbo Depressivo Maggiore grave, mentre l'aumento rispetto alla popolazione generale è del 300%. Molto più frequentemente, tuttavia, l'attrazione verso la morte si manifesta indirettamente tramite abitudini tossicomaniche, disturbi dell'alimentazione o un più generale "prendersi scarsa cura di sé" tipico dei depressi. In questo scritto prenderò in considerazione le ipotesi (di cui esiste il sospetto in un gran numero di casi, ma una chiara dimostrazione soltanto in pochi) del suicidio "subintenzionale" o inconscio [1] e della somatizzazione acuta. È ai casi che presentano entrambi questi fatti patologici che intendo dedicare le righe che seguono.

 

II – Vita di Giovanni Segantini

Data la scarsità del tempo a mia disposizione e la facile riconoscibilità dei miei pazienti di questo genere, salterò subito all'illustrazione di un "caso testo" che non sarà, stavolta, un personaggio letterario, ma un grande artista realmente esistito, la cui vita tormentata e sfortunata sembra tuttavia appartenere ad un romanzo. Si tratta di Giovanni Segantini, il pittore vissuto nella seconda metà dell'ottocento, morto in strane circostanze all'età di soli 41 anni, sulle cui vicende e sulla cui produzione artistica Karl Abraham scrisse un importante saggio psicoanalitico nel 1911 [1].

Nato nel 1858 ad Arco tra le montagne del Trentino, il povero Giovanni restò privo della madre all'età di soli cinque anni. Con lei, egli perse, in un colpo solo, anche lo splendido ambiente naturale in cui sino ad allora era vissuto e l'intera famiglia. Il padre, infatti, decise subito di trasferirsi insieme al bambino a Milano da dove, affidato il piccolo ad una sorellastra, partì per l'America e pare che sia morto poco dopo. "Solo, senza amore, da tutti abbandonato come cane rabbioso" (sono parole dello stesso Segantini [8]), il futuro artista diede prova molto presto di uno spirito fortemente ribelle e di una grande vivacità d'ingegno. Trascurato dai parenti, egli reagì alla solitudine con comportamenti giudicati aggressivi, che lo portarono ad essere recluso in riformatorio per diversi anni, e con frequenti fughe. Ancora adolescente, si rese conto del proprio talento artistico e, frequentata con grandi sacrifici l'Accademia di Brera, riuscì presto ad ottenere i riconoscimenti che la sua notevole produzione pittorica meritava. Coniugatosi giovanissimo, Segantini restò sempre fedele alla moglie. Ma il resto della sua vita non conobbe altrettanta stabilità: in perenne stato di conflitto con l'autorità costituita e con i principi di buona amministrazione del denaro, egli incontrò diverse disavventure economiche, guai col fisco ed anche con la legge (aveva scelto, per motivi ideologici, di rendersi renitente alla leva). Il massimo della sua instabilità, però, si concentrava sul tono dell'umore: conobbe frequenti oscillazioni da uno stato sub-euforico ad uno depressivo (oggi verrebbe diagnosticato come "ciclotimico") e la sua produzione artistica reca tracce evidenti dei due atteggiamenti affettivi. In entrambi i casi, tuttavia, i suoi soggetti preferiti furono paesaggi e scene d'alta montagna, cioè di quell'ambiente che conobbe e da cui era stato esiliato nei primi anni della propria esistenza. E man mano che procedeva il suo ravvicinamento interiore a quella prima epoca della sua vita ed alla terra-madre, Segantini spostò la residenza propria e della famiglia sempre più vicino alle più alte montagne: trasferitosi in Brianza appena sposato, passò a Savognino, nei Grigioni, e di qui al Maloia, nell'alta Engadina, fino ad approdare ai 2700 m. di altezza dello Schafberg. Qui, nel corso di un soggiorno in una baita, benchè apparentemente in piena salute, fu colto da un violento attacco di peritonite. Il suo medico, che in un primo momento Segantini si era rifiutato di far chiamare, giunto sul posto, non potè che constatare una patologia ormai incurabile, anche perché le condizioni ambientali non consentivano un intervento operatorio. Senza apparente consapevolezza di quel che stava succedendo, mantenendosi fino all'ultimo sereno ed ottimista, il grande pittore morì dopo pochi giorni.

 

III – Il percorso di Segantini

La montagna (la sua terra madre), la madre perduta e la morte furono costanti compagne della vita di Giovanni Segantini. Il suo progressivo avvicinarsi a queste tre entità, nella loro configurazione originaria, costituisce il percorso fondamentale della vita interiore (espresso, nelle varie tappe, dalle produzioni pittoriche) ed, in parte, anche di quella esteriore di questo Artista. Possiamo schematicamente dividere tale cammino in tre fasi.

A) fase iniziale: difese. Nella prima di esse una costellazione o "complesso a tonalità emotiva: madre-patria-natura [fuse in virtù della loro parentela interna]d'insolita potenza" [1] è già chiaramente riconoscibile nel pittore. Esiste, tuttavia, un sistema di difese volto a preservare il giovane Segantini dagli aspetti più sconvolgenti del trauma della separazione legata al ricordo della madre. Innanzi tutto lo spostamento della persecuzione (vissuto originario legato al trauma della separazione) sulla figura paterna e sui suoi sostituti: Segantini mantenne, nel corso della propria esistenza, un atteggiamento anarcoide di ribellione nei confronti dell'autorità costituita e di chiunque minacciasse di limitare l'espressione della sua individualità.E' ad esempio, a tale atteggiamento che si deve il suo rifiuto di prestare il servizio di leva nell'esercito dell'Impero Austro-Ungarico, di cui mantenne la cittadinanza; rifiuto che egli pagò dolorosamente con l'impossibilità permanente di ritornare alla terra natia. Ma, al di sotto di questo rapporto "triangolare" superficiale, in cui la figura paterna occupa, nel complesso, una posizione di scarso rilievo (come chiaramente rappresentato nei suoi quadri), s'intravede la fissazione ad un rapporto duale ed esclusivo con la madre. È ad allontanare dalla coscienza le tracce mnestiche delle delizie di tale rapporto e, inscindibile da esse, del tormento di averle bruscamente perdute, che si volgono le principali difese di questo periodo. Ad esempio: l'isolamento reciproco delle correnti affettive, entrambe originariamente rivolte alla genitrice, di sensualità e di tenerezza. 
segantini La prima prevaleva quando Segantini considerava la madre singolarmente e direttamente (ne descriveva la bellezza dell'aspetto e del portamento più che le qualità affettive [1]), la seconda quando si volgeva più astrattamente alla genitrice ideale dei suoi quadri. La sensualità sembra prendere il posto di un bisogno deluso di tenerezza, mentre quest'ultimo è rappresentato come pienamente appagato con la Madre ideale ed immortale. Proprio per il suo legame con il bisogno deluso, è la sensualità (insieme ai moti istintuali sessuali ad essa collegati) ad essere prevalentemente soggetta a rimozione. Abraham ne ravvisa gli indizi nella timidezza, nell'estraneità al linguaggio di parole volgari (singolare in un ragazzo cresciuto nel riformatorio), nella rigida monogamia (anche questa piuttosto inusuale in un ventenne) che caratterizzarono Segantini fin dalla prima giovinezza [1]. Una dolce melanconia, un abbandono alla sofferenza, riconducibili secondo lo stesso Autore, ad un atteggiamento passivo-femminile (quale risultato della rimozione della componente pulsionale maschile attiva e dei moti aggressivi), caratterizzano la produzione artistica di Segantini nel periodo brianzolo [1]. Ne vediamo un esempio nella "Ave Maria a trasbordo" . L'uomo nella barca che ha abbandonato i remi, la donna che pare assopita col bambino, la luce crepuscolare, la quiete dell'acqua, tutto questo comunica come un senso di "pace stanca", di languida dolcezza che paiono escludere ogni possibile atteggiamento affermativo o ideale di forza di tipo mascolino.

B) fase di ritorno del rimosso. La seconda fase, che ha inizio con il trasferimento del pittore e della sua famiglia a Savognino, si caratterizza per il ritorno dalla rimozione delle tendenze maschili attive e di altri moti pulsionali, per oscillazioni timiche che paiono divenire sempre più ampie e soprattutto per la progressiva comparsa della "cattiva madre".

In questo periodo Segantini divenne un provetto alpinista. L'acquisita capacità di salire su alte vette, così simili a quelle degli antichi anni dell'infanzia, si accompagnava in lui ad un sentimento di tripudio, al desiderio — come si legge in una delle sue lettere — di pervenire a una totale conoscenza e ad un completo dominio sulla Natura [1]. Egli avvertiva, di fronte a quei grandiosi scenari, una particolare avidità di luce e di colori, un intenso piacere di guardare, che riuscì splendidamente, tramite un uso particolare della tecnica del "divisionismo", a trasmettere all'osservatore dei suoi quadri. Ma, accanto a quadri che esprimono tale tripudio (ad esempio lo splendido "Ragazza che fa la calza" oppure "L'aratura" , iniziano a comparire scene di tipo melanconico. È il caso di "Pascoli alpini": colpisce innanzi tutto il pastore "poco più che un ragazzo, e tuttavia debole e stanco come un vecchio" [1]. Inoltre il paesaggio brullo, inospitale.
La Natura, qui, non è più la madre soccorrevole e consolatrice di altri quadri dello stesso Autore, ma una matrigna avara persino di un filo d'erba per gli animali. Rappresentata simbolicamente come Natura, compare per la prima volta, in questo quadro, l'immagine ostile della madre che sarà descritta più chiaramente nelle produzioni del "Ciclo del Nirvana", soprattutto ne "Il castigo delle lussuriose" e "Le cattive madri" . Con essi si precisa in Segantini il ritorno dal rimosso di una componente pulsionale aggressiva legata a risentimento verso la madre.
Ciò si esprime chiaramente nel contrappasso: la madre penitente è condannata a provare il freddo, l'angoscia e la melanconia del bambino abbandonato, che compare nella scena. Freddo e sospensione nell'aria sono gli elementi della punizione delle madri lussuriose. Il secondo di essi è interpretato da Abraham come simbolo di sensualità, ma potrebbe forse essere anche visto come condanna al sostegno di braccia invisibili e impersonali, che non trasmettono affetto, né protezione, né calore.

segantini

La comparsa della "cattiva madre" dovette essere, per Segantini, difficilmente tollerabile ed esclusiva dei suoi periodi di depressione. "L'Angelo della Vita" , opera immediatamente successiva a "Le cattive madri", pare esserne una prova. 
Del tutto simile al quadro precedente nel particolare dell'albero e nella collocazione su di esso della madre e del bambino, ha caratteristiche opposte nel paesaggio retrostante (la neve è scomparsa ed un caldo raggio di sole illumina le figure in primo piano) e soprattutto nel rapporto tra la donna ed il figlio: essi appaiono rappresentati, con un poco di esagerazione retorica, come uniti in un tenero e dolcissimo abbraccio. Qui la scissione e l'idealizzazione sia della figura materna, sia del bimbo (è evidente la somiglianza con l'iconografia tradizionale della Madonna col piccolo Gesù), consente al pittore di produrre la "versione ipomaniacale" del quadro precedente.

Abraham riconduce le oscillazioni dell'umore dei pazienti simili a Segantini all'impossibilità, da parte delle tendenze istintuali in contrasto tra loro, di pervenire ad un equilibrio stabile ed armonico, oltre che al carattere "esigente" delle pulsioni sublimate. Il soddisfacimento di esse, secondo l'Autore, produrrebbe una sorta di gioia della vittoria, ma questa, se non segue immediatamente un'altra realizzazione, cederebbe il posto ad uno scoramento melanconico, dato che le suddette pulsioni "richiedono un appagamento continuo" [1]. 
Qui la geniale intuizione di un'intransigenza affettiva alla base delle oscillazioni timiche è espressa, in base al pensiero dell'epoca, nei termini di una caratteristica intrinseca alle pulsioni (sessuali-genitali) sublimate. Questa formulazione non spiega la profondità e l'ampiezza degli sbalzi d'umore che caratterizzano persone come Segantini, a differenza di altri non meno dotati di capacità di sublimazione ma più equilibrati. La maggiore attenzione del pensiero psicoanalitico odierno per le fasi pregenitali dello sviluppo libidico consente di ampliare e rettificare in parte la spiegazione di Abraham.
Lo stesso Autore, in un'altra parte del suo saggio, sottolinea come Segantini fosse assillato dalla fantasia nevrotica di aver causato la morte di una persona cara: egli era convinto di aver procurato alla madre, nascendo, un'infermità da cui la donna non si sarebbe ripresa e che cinque anni dopo ne avrebbe cagionato la morte [1]. La stessa idea di aver causato, iniziando la propria esistenza, la fine di quella della genitrice, sembra essere frequente in coloro che persero la madre in età precoce. Vediamo, ad esempio, come lo scrittore Géza Csath rielabora nella fantasia la fine, avvenuta in realtà quando egli aveva otto anni, di colei che gli aveva dato la vita:"Mia madre morì nel momento della mia nascita (…) L'aurora era ancora lontana. Era ancora molto lontana. Invano, tra i tormenti, la mia mammina invocava l'alba sussurrando flebili preghiere. Quando io aspirai la prima boccata d'aria, lei morì. Esalò un grande e pesante sospiro, giacchè amava mio padre e aveva soltanto vent'anni…" [5]. Questa coincidenza della prima boccata d'aria aspirata dal bambino con l'ultimo respiro esalato dalla madre pone in evidenza con efficacia una rottura della simbiosi intrauterina resa particolarmente brutale dalla morte. E che qui si parli di simbiosi anche come fatto emotivo è dimostrato da quanto segue subito sotto: "E io la dimenticai. Non chiesi mai nulla di lei. Non mi rendevo conto che lei, mia madre, doveva pur essere esistita e che lei — lei che a causa mia si era adagiata ancor giovane nella tomba (…) — lei ero io" [5].

Dobbiamo supporre che, in persone come Csath e Segantini, l'evento traumatizzante della morte della madre, nei primi anni dell'infanzia, riattivò gli effetti di un precedente trauma, precocissimo, che portò ad una brusca rottura del rapporto di simbiosi (abbiamo notizia, dagli archivi parrocchiali, di una nascita di Segantini caratterizzata con un latino discutibile come "ab periculum" [8]). 
segantini Ciò danneggiò l'evolversi del processo di separazione-individuazione che dovette avvenire a tappe forzate, senza la possibilità di temporanei ritorni alla simbiosi e che, proprio per questo, non potè portare ad un effettivo superamento della simbiosi stessa. 
Il presupporre che al di sotto dei desideri di Segantini di ricongiungersi alla madre (il cui soddisfacimento era reso possibile al pittore dall'Arte come atto riparativo e creativo) vi fosse la fantasia del ripristino di una fusione simbiotica onnipotente, rende maggiormente ragione dello stato sub-euforico legato alle opere "felici", come pure della depressione legata alle opere "tristi", in cui trovano espressione la separazione e la morte. Più che al carattere insaziabile delle pulsioni sublimate, le oscillazioni timiche di Segantini appaiono, quindi, legate ai vissuti di "tutto o nulla" quali espressioni di un pieno appagamento narcisistico che riconosce, quale unica alternativa, una totale e mortale frustrazione. Su di un piano strettamente soggettivo, la scomparsa della madre del pittore fu, per lui, condizione per la sua nascita come individuo separato, nel momento in cui la simbiosi si ruppe brutalmente. Ciò deve aver contribuito a conferire un sentimento di realtà all'idea di aver causato la morte della genitrice.

C) fase della progressiva affermazione del "richiamo della morte" Nell'ultimo periodo della vita di Segantini si precisa, quale aspetto nucleare della sua struttura psichica, il conflitto insanabile con un oggetto d'amore irrinunciabile. Parallelamente procede la progressiva affermazione del richiamo esercitato sulla sua mente dalla morte. Come adombrato da Abraham, notiamo nella biografia e nelle opere dell'Artista i segni di una lotta interiore sempre più accanita. All'irruzione nella coscienza delle pulsioni aggressive rimosse si contrappone un crescente sforzo creativo, al servizio delle istanze riparative, con un'affermazione sempre più faticosa di quest'ultimo. Ciò si traduce in un'accelerazione nella frequenza delle oscillazioni dell'umore.

Non è casuale che le prime opere dopo il trasferimento al Maloia facciano riferimento al tema del ritorno. Infatti, come si è visto, l'alta montagna significava per Segantini un ambiente del tutto simile a quello dei primi anni della sua vita. Il ritorno, tuttavia, si lega in forma più o meno esplicita, al tema della morte. In "Ritorno al paese natio" , la prima opera creata nel nuovo ambiente, una famiglia riconduce il cadavere del figlio al paese d'origine. "Un lutto infinito grava sulla scena" [1]: ne portano i segni non solo gli esseri umani, ma anche gli animali e lo stesso ambiente naturale. Alla luce di quanto si verificò negli anni successivi, possiamo supporre che l'Artista abbia dato forma ad un'oscura intuizione che il ritorno di lui stesso-figlio alla terra-madre avrebbe potuto avvenire pienamente soltanto con la morte. Segue, anche qui, quella che possiamo considerare una "rielaborazione ipomaniacale" dello stesso tema: "L'amore alle fonti della vita" . Anche in quest'opera troviamo, quali prodotti della scissione e della negazione, oltre che di sforzi riparativi, caratteristiche che si contrappongono a quelle più angoscianti del lavoro precedente: qui il veicolo del ritorno non è più la morte, ma l'amore; la meta non è più un camposanto, ma una fonte, custodita da un angelo, che rappresenta l'inizio di una nuova esistenza. La contrapposizione delle due scene, in questo caso, è ancora netta. Diversamente accade in alcuni quadri successivi dove l'espressione di una delle due polarità affettive dell'Artista non riesce più ad essere del tutto disgiunta da quella di segno opposto. 
Ad esempio, ne "La raccolta del fieno" colori vivaci e luminosi animano una scena evidentemente tinta di nostalgia; ma le scure nuvole temporalesche che cominciano a coprire il cielo paiono alludere ad un cupo presagio. Un crudo realismo delle immagini descrive l'afflizione dei genitori per il figlio morto ne "Il dolore confortato dalla fede" ; ma, anche qui il pittore non potè fare a meno di esprimere il suo conflitto attraverso la rappresentazione dell'elemento emotivo di segno opposto: in una lunetta aggiunta al quadro nella sua parte superiore, la visione di due angeli che conducono l'anima del defunto "nel regno della gioia eterna" si contrappone al contenuto della scena sottostante. 
segantini Questa sovrapposizione di elementi depressivi ed ipomaniacali descrive, a mio avviso, la crescente incertezza, nei suoi esiti, della lotta interiore che tormentò Segantini nell'ultimo periodo della sua vita. L'ultima opera, "Il Trittico della Natura, della Vita e della Morte" , mostra l'esigenza dell'Artista di conciliare le forze che lottavano in lui, di "unire armonicamente la vita e la morte" [1]. Qui non c'è più contrapposizione, ma solo una logica successione di immagini: il conflitto tra vita e morte pare, pertanto, ricomporsi in quanto entrambe tappe necessarie dell'esistenza e quindi, sia l'una che l'altra, parti integranti di un unico ordine naturale. Parallelamente, la serenità e l'ottimismo di cui Segantini dava prova negli ultimi istanti, prima di cessare di vivere, sembrano dimostrare che egli sentiva d'aver risolto, anche al di fuori dell'Arte, il suo conflitto.

"L'ombra della morte", attraverso pensieri, sogni, presentimenti infausti, fu costante compagna dell'esistenza di Segantini ed egli lottava contro di essa in tutti i modi, anche aggrappandosi a credenze superstiziose o religiose dei più svariati tipi; soprattutto, però, lottava con la sua Arte.
"Ma mentre si volgeva coscientemente a nuovi progetti e creazioni (…), dal suo inconscio si levava sempre più distintamente il richiamo della morte (…). Nel corso di una camminata, d'inverno [circa un anno prima della sua scomparsa], si era smarrito; spossato si era lasciato cadere nella neve e si era addormentato. Sarebbe sicuramente morto per congelamento se nel momento del pericolo non l'avesse chiamato una voce che egli riconobbe come la voce di sua madre" [1].
Che un esperto alpinista come Segantini smarrisse la strada e fosse tanto imprudente da fermarsi ed assopirsi nel gelo — quando chiunque conosca l'alta montagna sa che questo fatalmente porta a morte per congelamento — ci crea, non il forte sospetto, ma la certezza che qui l'Artista abbia compiuto un tentativo (per il momento fallito) di suicidio "subintenzionale". Poiché l'episodio fu raccontato da Segantini a chi gli era vicino (come pure furono da lui rivelati cupi pensieri di quel periodo "che rendevano fin troppo chiaramente percepibile un anelito alla morte" [1]), possiamo supporre che il pittore, ancora lottato tra il desiderio di porre fine alla sua vita e quello di preservarla, stesse diffondendo inconsapevoli e disperati messaggi di richiesta d'aiuto; questo, tuttavia, tramite comunicazioni come "gettate al vento", senza interlocutori precisi. L'estremo, inconsapevole tentativo di questo genere ci è rivelato dalla moglie.
La donna riferisce che, poco prima della salita allo Schafberg, il marito raccontò, a lei e successivamente alla modella dei suoi quadri, un suo sogno ad occhi aperti: egli si trovava all'interno della scena rappresentata nel suo ultimo quadro ("La morte" ) e stava portando fuori dalla capanna la bara. Una delle donne che indugiavano nelle vicinanze era la moglie e la vedeva piangere. La vedova Segantini così prosegue: "…ciò che egli ha visto allora, diveniva realtà dodici giorni dopo. Il suo quadro della morte rappresentava la sua propria fine, da quella capanna hanno portato fuori la sua bara. Il paesaggio era tale e quale lui l'aveva dipinto nel suo quadro; la donna che nel quadro si vede piangere, vicino alla bara, ero io" [1].

Il 18 settembre 1899 Segantini, accompagnato da uno dei figli e dalla modella, saliva sullo Schafberg a 2700 m. di altezza. Il soggiornare in luoghi di questo tipo, pernottando in una modesta baita di pietra, il lavorare restando ore ed ore pressochè immobile all'aperto ed al freddo allo scopo di dipingere gli scenari alpini dal vero, il sorbire la neve invece dell'acqua, quando questa mancava presso il sito dove era piantato il quadro [8]; tutto ciò rientrava nelle abitudini dell'Artista e perciò non stupì chi gli stava vicino. Ma questa volta la stagione era particolarmente avanzata per un'altitudine del genere ed un repentino cambiamento del tempo colse Segantini già affaticato da un'intensa giornata di lavoro. Ebbe così inizio, con la comparsa di febbre e di dolori addominali, la malattia che doveva portare il grande pittore alla sua fine. Durante la notte Segantini, nonostante il suo intenso malessere, si alzò e uscì più volte nella tempesta di neve, vestito solo precariamente [1]. Il giorno dopo, costretto a letto, non volle che si andasse a chiamare il medico "che, pensava lui, lo avrebbe trovato, con sua grande mortificazione, in perfettissima salute" [8]. Ma tale mortificazione gli fu risparmiata. Il curante, interpellato il giorno successivo, accorse con inutile sollecitudine presso l'infermo: ormai non c'era più nulla da fare. Con tutto ciò, fino a quando ebbe coscienza, l'Artista si mantenne sereno, a tratti persino scherzoso.

Già nel 1911, Abraham non aveva alcun dubbio che ciò che portò Segantini alla sua fine fu, sostanzialmente, un suicidio "subintenzionale" seguito ad una lunga lotta interiore in cui il pittore contrapponeva le proprie capacità creative ad un crescente richiamo della morte. Anche in rapporto ai limiti delle conoscenze dell'epoca ("Lutto e melanconia" di Freud doveva ancora comparire), Abraham, nello spiegare tutto questo, non va oltre l'osservazione di un "rivolgersi contro di sé" dell'aggressività originariamente indirizzata alla madre [1].

Ad un clinico, come chi scrive, preme rispondere soprattutto a una domanda: che cosa può suggerirci Segantini, con le notizie autobiografiche e soprattutto con le opere che ci ha lasciato, riguardo ai motivi per cui il richiamo della morte finì per avere la meglio su di lui? Su di un uomo, cioè, così dotato di capacità sublimative e creative, oltre che di una grande forza d'animo? Credo che la risposta risieda nella direzione, nella coerenza e nella continuità del percorso interiore che egli ci descrive nei suoi quadri. Egli perseguì, in ultima analisi, il recupero dei vissuti originari legati al rapporto con il suo antico oggetto d'amore ed una visione realistica, priva di deformazioni al servizio delle difese, di quello stesso oggetto. Si trattava, per lui, di un compito di vitale importanza: la tenacia con cui cercò di portarlo a termine non venne meno neppure di fronte alla comparsa perturbante della "cattiva madre", né alle esperienze, rivissute in modo sconvolgente, di separazione e di morte. L'abnegazione al lavoro e le capacità creative lo sostennero fino all'ultimo. Ma anche quando esse vennero meno, travolte dalle angosce arcaiche e dalla distruttività primitiva legate all'antico trauma — trauma che proprio la sua stessa ricerca gli aveva consentito di rivivere — , la madre (la madre-terra che accogliesse le sue spoglie) continuò ad essere, per lui, l'unica meta che potesse dare un senso a tutta la sua esistenza. C'è, nel modo di essere di queste persone, nella fase finale della loro vita, un paradosso: l'integrità della loro esistenza soggettiva (la vitalità e la coesione del sé) può essere mantenuta solo ricongiungendosi, concretamente e non solo metaforicamente, ad un oggetto-sé perduto e per loro insostituibile, cioè solo attraverso la morte [7, 10]. Questi pazienti, che non hanno mai superato la nostalgia di un rapporto simbiotico, tendono a vivere il corpo come fonte di tutti i disagi derivanti dal processo di separazione-individuazione. Al corpo essi contrappongono un "surviving self" a-corporeo, a-pulsionale, a-conflittuale e, quindi, privo di tutto ciò che può opporsi ad un pieno ripristino dell'antico rapporto di simbiosi [4]. Quando tale fantasia patogena prende il sopravvento, la strada è spianata per il suicidio, consapevole o "subintenzionale", e probabilmente per le somatizzazioni acute mortali.

 

IV — Depressione e patologia post-traumatica

I pensieri di morte, oggettivamente ingiustificati, i cupi presentimenti e gli incubi notturni che tormentarono Segantini per tutta la vita, come pure i comportamenti impulsivi autolesivi (attuati al di fuori di ogni elaborazione cosciente e successivamente razionalizzati) che comparvero negli ultimi tempi; tutto ciò si presenta, per le caratteristiche tipiche della sintomatologia, come la diretta continuazione in età adulta degli effetti del trauma originario. Anche il rapporto simbiotico regressivo con l'oggetto arcaico idealizzato, cui Segantini ricorse più volte per fronteggiare le sensazioni intollerabili legate all'antico trauma, è tipico delle persone che, in età infantile, subirono un abuso o una grave deprivazione affettiva [16]. Sembra che, in questo tipo di paziente, il ritorno alla risposta più antica e meno evoluta che essi opposero alla situazione traumatizzante originaria (clinicamente, il passaggio da una sintomatologia depressiva ad una simile a quella post-traumatica) rappresenti l'eventualità più pericolosa. Nella situazione rivissuta, il trauma, provocando una brutale rottura col mondo esterno, tende a scatenare un'incontrollabile aggressività primitiva (rabbia "narcisistica" [9] o "cannibalica"[16]) e, per quanto riguarda gli orientamenti potenzialmente più positivi, tende a causare una regressione a modi arcaici di relazione d'oggetto-sè: è persa la capacità d'identificare, scegliere liberamente, e trovare gli oggetti-sé ed i messaggi di richiesta d'aiuto vengono come "lanciati al vento" (Segantini negli ultimi tempi) ; sono ricercate forme di mirroring, d'appoggio ad oggetti idealizzati ed "alter ego" di tipo primitivo, cioè forme di sostegno caratterizzate da fusione anzichè da un rapporto con la risonanza empatica degli oggetti [10]. 
La mancanza di oggetti-sé che entrino in sintonia con questo livello di regressione impedisce al paziente di dar forma al proprio mondo interno. La conseguente regressione (parziale o totale) a livelli preconcettuali di organizzazione emotiva priva i sentimenti di angoscia e depressione delle caratteristiche di mentalizzabilità e verbalizzabilità e soprattutto della loro funzione di "segnali", divenendo essi la pura espressione "automatica" e somatizzata delle tensioni. Come tali, essi cessano di fornire informazioni differenziate sul mondo esterno, lasciando spazio a comportamenti impulsivi, distruttivi e primitivi, diretti contro oggetti mal distinti dal corpo e dal sé del paziente e favoriti anche da una parallela regressione ad un livello "sensorimotor enactive" dell'organizzazione delle tracce mnestiche [3].

 

V — Posizioni difensive ed interventi terapeutici

In questa situazione il paziente può assumere due possibili posizioni difensive che potremmo definire "paranoide" ed "alexitimica". Esse rappresentano gli estremi baluardi difensivi contro il rischio di auto-annientamento.

A) Posizione paranoide È a tale situazione psicopatologica che probabilmente si riferiva Abraham, con il suo concetto di attacco sadico-orale all'oggetto con scopi essenzialmente distruttivi [13], laddove la "identificazione narcisistica" di Freud ha finalità fondamentalmente conservative e riguardava, probabilmente, forme depressive più evolute [6, 13]. In questa posizione difensiva, un oggetto del mondo esterno viene proiettivamente vissuto come persecutorio (l'autorità paterna oppressiva e successivamente la "cattiva madre" di Segantini), in modo da consentire la deflessione all'esterno dell'aggressività. Essa può costituire una difesa stabile solo a condizione che il paziente disponga di un oggetto buono, cui appoggiarsi, nel mondo esterno: la madre, nel caso dello spostamento della persecuzione sulla figura paterna o la madre idealizzata nel caso della scissione fra questa ed una "cattiva madre" persecutoria. In questi casi se, nel rapporto transferale, la figura persecutoria viene individuata nel terapeuta, è possibile quella sua graduale evoluzione in "persecutore-salvatore", di cui ho parlato in altra sede [15 — Vedi anchenota 1], che può consentire al paziente di uscire dal suo isolamento narcisistico autodistruttivo. Nel caso di Segantini, al contrario, il rapporto "triangolare" era troppo labile per assicurare un costante spostamento della persecuzione sulla figura paterna; la sua tensione verso una configurazione realistica dell'immagine materna era troppo intensa per consentire una stabile scissione tra madre idealizzata e "cattiva madre". Di conseguenza, l'intollerabilità del conflitto con la figura materna produsse quella scissione tra corpo e "surviving self" [4] e quella fusione regressiva tra quest'ultimo ed oggetto perduto che condussero l'Artista alla sua fine.

B) Posizione alexitimica È da intendersi come chiusura ad un mondo interno deprivato d'affetti e non strutturato, oppure ad oggetti interni carenti e deteriorati, con un appoggio esclusivo a quelli esterni. Ogni legame simbolico che unisca il mondo interno agli oggetti, in quanto testimonianza di una separazione traumatizzante, viene ad essere disconosciuto o attaccato. Come conseguenza, l'Io torna a confondersi con la sua matrice corporea e, al tempo stesso, torna ad immergersi in uno stato di simbiosi con l'oggetto arcaico [14]. Nel suo "Sé-corpo" (mal differenziato da quello dell'oggetto d'amore) il paziente trova rifugio dai conflitti con il mondo esterno, per lui intollerabili, che sono stati provocati dal trauma originario. Come posizione difensiva, l'alexitimia è volta ad evocare, attraverso le cure corporee, un intervento materno non simbolico, concreto e, perciò non attaccato o deteriorato. L'approccio somatico come risposta empatica a questo atteggiamento affettivo, consente perciò di eludere il vissuto di "cattiva madre" traumatizzante presentificando nel rapporto terapeutico, attraverso il vissuto transferale, una "buona madre" che accudisce in modo adeguato. Il punto debole di questa posizione difensiva consiste nella situazione di totale dipendenza del paziente che, nel caso di una sua spiccata vulnerabilità alle frustrazioni o di insufficiente capacità di comprensione empatica di chi lo cura, è esposto al rischio di gravi scompensi. Ad esempio, nel caso della depressione "mascherata" (una delle possibili espressioni cliniche di questo atteggiamento affettivo), una diagnosi errata e cure inadeguate conducono, nella maggior parte dei casi, a gravi conseguenze come un ricorso massiccio all'alcool o il suicidio [3].

Per quanto concerne l'autonomia e la consapevolezza del mondo interiore, l'alexitimia conduce il paziente ad un notevole grado di regressione. Ne discende la necessità di far percorrere al paziente un cammino inverso, cioè d'un passaggio graduale, scandito da "frustrazioni ottimali", dallo scopo regressivo di "far passare i sintomi" a quello più evoluto di capire e porre sotto il proprio controllo la situazione disturbante, da una fase iniziale in cui il terapeuta si pone del tutto come "io ausiliario" ed i contatti sono mediati pressochè esclusivamente dal corpo, ad una in cui gli interventi sono di carattere prevalentemente interpretativo e volti a favorire la consapevolezza e l'autonomia. Anche la componente farmacologica del trattamento svolge una funzione differente a seconda del grado d'evoluzione della relazione terapeutica. Nelle fasi più primitive, è necessario soddisfare il bisogno regressivo del paziente di "fondersi" con un agente di sollievo: il farmaco, infatti, a questi livelli di regressione è l'unica protezione possibile dalla disintegrazione del sè; esso rappresenta un precursore delle "self-soothing" e delle "buffering" structures autonome del paziente; costituisce, cioè, un sostituto dell'oggetto-sè arcaico idealizzato con la cui calma e con la cui forza egli si può fondere. Gradualmente, man mano che la relazione terapeutica evolve, il rapporto con la risonanza empatica del terapeuta prende il posto di quello, più primitivo ed a carattere fusionale, con il terapeuta stesso e il farmaco [10]. Quest'ultimo assume, sempre di più, il ruolo accessorio di mezzo per contenere i disturbi emotivi, allo scopo di favorire il processo psicoterapeutico e, nei casi che lo richiedono, il reinserimento sociale. Se questo non avviene, il paziente può ripiegare su di un esclusivo trattamento sintomatico, con la possibilità di contrarre un'irreversibile addiction ai medicamenti o, altrimenti, opporre una resistenza passiva e sterile all'azione dei farmaci.

Un trattamento integrato, che tenga conto della necessità di cure corporee in funzione psicoterapica, è quindi l'unico compatibile con il livello di regressione raggiunto dal paziente nella posizione alexitimica e con la necessità di aiutarlo, nei limiti del possibile, ad evolversi ed uscire da tale posizione. Ciò è suffragato anche dai dati statistici, da cui risulta, nel caso di depressioni gravi con elevato rischio di suicidio, un 83% di successi del trattamento integrato contro un 16% della sola psicoterapia [7]. La psicoterapia da sola non può incidere su emozioni non del tutto de-somatizzate, su cui la coscienza del paziente esercita uno scarso dominio [12]. Altri motivi della forte percentuale d'insuccessi della sola psicoterapia sono la possibilità di somatizzazioni anche improvvise e mortali e quella della comparsa, a seguito della brusca assunzione della posizione difensiva paranoide, della fantasia patogena del "surviving self" e del corpo come fonte di tutti i disagi derivanti dal processo di separazione-individuazione [4]. In entrambi i casi, solo cure corporee adeguate ed intensamente vissute sul piano emotivo possono ripristinare un buon rapporto col corpo e costituire, quindi, un'efficace misura preventiva [14].

 

Nota 1: Cito qui una più precisa definizione del "persecutore-salvatore" ed alcune considerazioni tratte da un mio scritto ancora inedito su questa figura, quale si riscontra nella letteratura e nella clinica:




"Alcuni quadri clinici comportano problemi apparentemente insolubili di "noncompliance". In essi i sintomi, anzichè sofferenza, procurano al paziente sollievo; un sollievo, per di più, immediato e superiore a quello che può promettere la terapia. Essi rappresentano spesso l'espressione dell'unico tipo di vita soggettiva di cui il malato è capace in quel momento. Una situazione del genere s'incontra in un'ampia gamma di affezioni, di solito gravi: nell'isolamento autistico (in cui l'impatto con i propri simili è intollerabile), nelle sindromi deliranti megalomaniche o mistiche (in cui il contenuto del delirio ha carattere valorizzante o appagante), nella grandiosità maniacale, nelle parafilie (in cui il comportamento sessuale deviante è l'unico apportatore di piacere), nelle tossicodipendenze e nei disturbi psichiatrici dell'alimentazione. Se si prescinde dal paziente autistico, impenetrabile ad una comprensione empatica della sua vita soggettiva, risulta evidente che il malato di questo genere vive immerso in una fantasia grandiosa che lo distacca dagli altri. Quello che si è notato è che egli prova spesso (sempre?) una strana attrazione verso una specifica persona fra quelle che minacciano il suo isolamento: la cerca, la provoca, la sfida, come per saggiare i rapporti di forza nel timore (o nella speranza) che costui possa sottometterlo. La letteratura, oltre che la clinica, offre numerosi esempi di situazioni del genere. Ricordo, ad esempio, in "Delitto e castigo" [bibliografia della nota: 2], il rapporto di Raskolnikov con il giudice istruttore Porfirij che, ad un certo punto, dice esplicitamente al protagonista di averlo "messo con le spalle al muro" allo scopo di salvarlo da se stesso, cioè dalla prigione interiore della megalomania in cui vive. Oppure il rapporto che Oskar Matzerath instaura, verso la fine de "Il tamburo di latta"[ibidem: 3], con il suo accusatore-amico; rapporto che, attraverso il processo e le cure psichiatriche, gli offre per la prima volta l'opportunità di uscire dalla prigione dei suoi vissuti di onnipotenza e di crescere. Non sempre le cose vanno così bene: molto più sfortunato, ad esempio, è il tentativo di autoguarigione dello "antenato" di Oskar: Peter Pan, l'eterno bambino, il "leader nato", dietro la cui megalomania s'intravede tutta la disperazione del piccolo abbandonato dai genitori. Egli "…nei suoi sogni è sempre all'inseguimento d'un ragazzo che non è mai esistito, né qui, né da nessun'altra parte: l'unico ragazzo che potrebbe batterlo" [ibidem: 1]. Dietro questo inafferrabile "ragazzo che potrebbe batterlo", c'è l'adulto, il genitore perpetuamente irraggiungibile per Peter: questo personaggio ha la caratteristica di essere "invisibile" (cioè inesistente) per chi è cresciuto. In casi come quello di Riccardo II con Bolingbroke, poi, l'essere strappato all'isolamento grandioso conduce alla catastrofe [ibidem: 4]. Sia nella clinica che nella letteratura, quindi, dal tipo di rapporto che viene a crearsi tra le due persone dipende se colui che esce dal suo distacco troverà la salvezza oppure la rovina. Per tale motivo, oltre che per l'ambivalenza della relazione, proporrei di chiamare "persecutore-salvatore" la persona capace di mettere in crisi il paziente affetto da una patologia del narcisismo che lo separa dagli altri.

Nei casi clinici di cui ho potuto ricostruire la storia (anche grazie ai suggerimenti dei modelli letterari che ho citato), il paziente, trovandosi durante lo sviluppo in un ambiente non adeguatamente empatico, si è sentito costretto a proteggere un nucleo arcaico di grandiosità (unico possibile fondamento della coesione e del vigore del suo sè), chiudendosi ad ogni effettiva influenza esterna, ponendosi in contatto unicamente con oggetti (o oggetti-sè) a carattere delirante ed instaurando con quelli della realtà rapporti superficiali o collusivi. Se una persona reale riesce a cogliere empaticamente i residui bisogni maturativi del paziente, può verificarsi, nel vissuto transferale di questi, l'evoluzione da un persecutorio "non io" (il "persecutore") ad un effettivo oggetto-sè. Quest'ultimo, a sua volta, può consentire di riprendere il cammino evolutivo interrotto (il "salvatore"). Per svolgere la sua funzione, il "persecutore-salvatore" deve essere in grado di comprendere il punto di vista soggettivo del paziente e, nello stesso tempo, mantenere fermo il ruolo di chi si occupa della sua realtà oggettiva. Deve capire ciò che il malato prova senza, tuttavia colludere con lui nella fuga dalla realtà; cioè non deve mai dimenticare gli aspetti oggettivi del proprio compito curativo ed il proprio personale punto di vista soggettivo. Ciò facendo, egli offre al paziente il modello di una capacità di "Übersteigen" che il malato ha perso o non ha mai acquisito. Tutto questo, all'inizio del processo, è inscindibilmente legato, nel paziente, a vissuti persecutori.

Negli esempi letterari che ho ricordato, il "persecutore-salvatore" è una tipica figura maschile-paterna che fa uscire il protagonista da uno stato di simbiosi onnipotente con la madre arcaica. Esiste, tuttavia, anche una versione femminile-materna del "persecutore-salvatore": una madre persecutoria, dispensatrice di un cibo "dannoso" eppure irrinunciabile (la "cuoca nera" di Oskar Matzerat e di tanti anoressici della realtà clinica), che gradualmente si trasforma in madre "sufficientemente benevola" capace di liberare il paziente dalla sua autosufficienza delirante"

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