di Domenico Casagrande – VENEZIA
Premessa
Prima di esaminare i principi informatori e il testo della proposta di legge intitolata "Norme per la prevenzione e la cura delle malattie mentali", ritengo opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale.
La legge n.833/1978 di riforma sanitaria, è una legge quadro che fissa norme generali che, per essere messe in pratica necessitano di dispositivi attuativi quali regolamenti, piani e progetti. Anche per la legge n. 36/1904, intitolata "Disposizioni sui manicomi e sugli alienati", fu necessario il Regolamento del 1909 e la legge n.431/1968, intitolata "Provvidenze per l'assistenza psichiatrica", all'entrata in vigore della legge 180/1978 era per la maggior parte obsoleta in quanto non era stata seguita da dispositivi attuativi.
D'altra parte le leggi quadro contengono principi fondamentali relativi all'ordinamento della materia trattata, è compito poi dei regolamenti, dei piani e dei progetti obiettivi formulare indicazioni realizzatrici delle norme di legge, fondate su ideazioni e studi tecnici.
D'altra parte il ritardo, rispetto alla legge n.833 della formulazione dei piani e progetti dovuti, ha avuto come conseguenza, ad esempio, che i Distretti Socio Sanitari, abbiano cominciato ad essere organizzati solo dal 1995.
Una proposta di abolizione di alcuni articoli di una legge quadro, che entra nel merito progettuale, induce qualche perplessità in merito alla sua reale efficacia.
Comunque sarà materia di ulteriore riflessione, mentre è opportuno ora esaminare le motivazioni e i presupposti scientifici che sottendono la formulazione della proposta in questione.
Le ragioni di un cambiamento
Fondamentalmente le motivazioni che inducono l'On. Burani Procaccini a formulare l'abolizione degli art.34, 35 e 64 della legge 833 sarebbero sia di ordine sociale sia di ordine scientifico.
Di ordine sociale in quanto, cito: "i familiari dei pazienti psichiatrici si trovano ad affrontare da soli il problema della malattia mentale". Una simile affermazione, che mette in luce un disagio certamente presente, mi lascia perplesso in quanto disgiunta dal disagio del malato di mente.
Infatti, il familiare che si trova solo ad affrontare il problema della malattia mentale di un proprio congiunto, sconta sicuramente il fatto che colui che è vittima della malattia mentale o non è stato preso in carico da nessun servizio o è stato preso in carico in maniera non esaustiva.
Sorge tuttavia spontaneo il dubbio se la riforma di qualche articolo di legge possa rimediare a questo problema e ancora se nel sottolineare il disagio dei familiari non si sia dimenticato il soggetto a cui la legge, che norma l'assistenza sanitaria, è indirizzata e cioè il malato di mente.
Di ordine scientifico in quanto, secondo l'On. Burani Procaccini, il venir meno di alcune contrapposizioni ideologiche ha permesso una valutazione degli esiti della riforma dell'assistenza psichiatrica del 1978 e cito: "con quella oggettività scientifica impedita da rigide teorie sociogenetiche delle malattie mentali. I dati a disposizione hanno evidenziato limiti del paradigma psicologistico e quelli ancora più netti del paradigma sociologistico. Cosicché la maggioranza degli psichiatri condivide oggi l'affermazione che, senza sottovalutare gli aspetti psicologici e sociali, è necessario recuperare una dimensione biologica e medica della Malattia mentale".
Anche a tal proposito sorgono numerosi dubbi in primis su cosa pensa la maggioranza degli psichiatri sul problema dei vari paradigmi psicologistico, sociologistico e sul problema della medicalizzazione e susseguentemente sulla scientificità di simili affermazioni, che così come sono espresse, risultano piuttosto ambigue.
Infine ancor più perplesso e dubbioso sono di fronte ad una affermazione, che è ampiamente contraddetta dai fatti, secondo cui l'assistenza psichiatrica "in Italia non è adeguata ai bisogni di una società moderna".
Vorrei tuttavia meglio chiarire i dubbi espressi chiarendo nello stesso tempo che non penso che tutto vada bene nell'assistenza psichiatrica in Italia, convengo che si registra, in certe zone, un diffuso malessere dei familiari, che esiste una situazione di configurazione dell'assistenza a macchie di leopardo e anche che ulteriori interventi rispetto a quelli esistenti siano dovuti, ciò detto tuttavia alcuni distinguo li ritengo assolutamente necessari.
Sociologismo, psicologismo e biologismo
L'affermare che un paradigma sociologistico o psicologistico, come unica causa di evento morboso psichiatrico sia per lo meno da mettere in discussione, mi trova d'accordo, perché mi sembra ormai universalmente assodato che la malattia mentale deve essere assunta e globalmente presa in carico come problema complesso, risultante da più fattori eziopatogenetici con compromissione di più piani, siano essi inter che intra-psichici, micro e macro-sociali, genetici e biologici ed è pur vero che tale compromissione è variamente presente non solo nelle diverse manifestazioni nosologiche, ma anche nei diversi momenti dell'evoluzione della malattia.
E' altrettanto vero che il modo di gestire la malattia mentale non è un fatto esclusivamente medico e risente del modo di approccio, non solo interpersonale, ma anche sociale e di come questa sia considerata e di come il malato sia trattato.
Questa visione complessa della malattia, della necessità che la sua gestione avvenga in modo plurispecialistico e non sia lasciata esclusivamente all'atto medico ha portato al superamento di atteggiamenti ideologici precostituiti ed ha permesso, ad esempio, la collaborazione fra Società Italiana di Psichiatria e Psichiatria Democratica e una maggiore chiarezza progettuale sfociata nei due Progetti obiettivi del 1994 e del 1999.
Motivo di regressione sarebbe ricondurre l'interpretazione della malattia mentale al solo aspetto biologico, sia perché riduttivistico e non scientificamente corretto, ma anche perché si andrebbe incontro ad una medicalizzazione che riproporrebbe la destorificazione e l'oggettivazione del malato di mente.
Riconoscimento della malattia mentale e della cronicità
Si afferma che per dare dignità ai malati mentali è necessario riconoscerli come tali.
Siamo perfettamente d'accordo che per il rispetto che dobbiamo alla sofferenza psichica "si deve riconoscere, la malattia mentale, una malattia uguale a qualsiasi altra"
Scriveva Franco Basaglia a proposito della legge 180 "succede dunque che il cosiddetto malato di mente non è una persona che soffre, una persona che si trova in una situazione di disagio ma è appunto un malato di mente. Questo è importante: deve mantenersi questa connotazione di malato, quindi tutto deve rientrare nella medicina"
Tale affermazione assume significato allorché si tiene conto che la medicina non si riduce a solo atto medico, ma che della medicina fa parte la sfera sociale e la sfera psicologica, nel senso che la malattia non è una condizione destorificata e destorificante, che la conseguenza della malattia non è e non può essere l'esclusione dal mondo sociale, che integrazione, risocializzazione, diritto di cittadinanza sono processi che non attengono solo alla sfera medica, che la terapia non si riduce a mera somministrazione di farmaci, che il rapporto interpersonale ha un peso importante ed insostituibile, e tutto ciò ci riporta al problema della complessità della malattia e della necessità della presa in carico globale del malato mentale.
Ma oltre a ciò un'altra affermazione di Basaglia ci sembra importante quando dice che, pur volendo, non tutto può essere medicalizzato, in quanto da questo concetto rimangono fuori tutti quegli individui che sono a margine della malattia come i paramatti, i parapsichiatrizzati, i drogati, gli alcoolisti ecc., cioè tutte quelle persone che stanno fra la medicina e la giustizia.
Questa analisi mi sembra peraltro condivisa anche da Rosa Andretta presidente della Diapsigra, allorché, in un convegno nel 1993, testimoniava di stare "facendo una lunghissima battaglia perché non è permesso che si criminalizzino i malati e si ammalano i criminali", riferendosi ai manicomi criminali.
Per quanto poi attiene all'attribuire carattere di scientificità al termine di cronicità correlato alla malattia, mi sento francamente di contestarlo, nel senso che la cronicità indica una situazione che si protrae nel tempo e che non sempre è legata all'evoluzione di uno stato morboso, nel senso che una particolare tipologia morbosa ha ineluttabilmente quel tipo di evoluzione, ma è al tipo di trattamento inadatto messo in opera cui spesso si deve attribuire l'esito di cronicità, anche in assenza di manicomio.
Ciò detto potrebbe sembrare che nulla osta ad attribuire a questo termine una connotazione comunicativa, ma anche in questo caso, il più delle volte, proprio perché assunto come termine "imputabile alla evoluzione nosodromica propria della malattia" viene anche assunto come stato per il quale qualsiasi atto terapeutico risulta inutile e quindi causa di caduta di tensione terapeutica verso il soggetto malato.
Mi scuso se, visto il poco tempo, posso dare l'impressione di semplificazioni che possono sembrare non tenere conto della complessità della materia che si affronta, tuttavia mi sembra che rispondano ad un criterio di maggiore riduttivismo le affermazioni riportate nell'illustrazione dell'On.Burani Procaccini alla seduta della XII commissione della camera il 19 settembre u.s., in cui si conferisce dignità scientifica ad affermazioni tutte da dimostrare e si confutano con semplici affermazioni processi che, seppur variamente considerati, hanno trovato pratica conferma come ad esempio affermare che "la parola cronicità fu attribuita ideologicamente al manicomio".
Crisi del ruolo ed identità dello psichiatra
Anche poi sull'affermazione che la crisi dello psichiatra sia stata conseguenza di coloro che hanno indebolito l'area medica, mi sembra essere un'affermazione non solo superficiale, ma inammissibile e storicamente insostenibile.
La crisi dello psichiatra è la crisi della psichiatria stessa che aveva legato il suo ruolo al paradigma manicomiale, il superamento del manicomio ha forzatamente messo lo psichiatra nella necessità di ricercare un nuovo ruolo, riproporre un ruolo legato esclusivamente alla medicalizzazione significherebbe ritornare 100 anni indietro nel tempo.
Sinceramente mi riesce molto difficile capire cosa significa il riferimento a "visioni anacronistiche e ascientifiche".
Credo che a questo proposito sia necessario chiarire alcune cose:
- La legge 180 fu resa possibile perché esperienze italiane avevano dimostrato la percorribilità della psichiatria senza manicomio
- In quei territori dove i tecnici si sono sforzati di mettere in crisi il loro ruolo e hanno cercato di farsi carico del malato di mente nella sua globalità e hanno creato situazioni alternative, il fenomeno dell'abbandono non si è verificato e le famiglie si sono sentite sostenute
- Ciò ha significato usare anche dell'helping professions senza escludere alcun portato di progresso scientifico
- Nelle zone a me note si cerca di assumere qualsiasi nuovo portato scientifico nella pratica quotidiana, qualora manifesti validi risultati (vedi ad esempio il recente aumento della spesa farmacologia a causa dei neurolettici di ultima generazione), così come pianificazione, valutazione dei risultati e controllo di gestione sono ormai parte della quotidianità
- Ed infine, mi si consenta di dire che, proprio in quelle zone dove si è fatta troppa medicalizzazione e poca assistenza (e non assistenzialismo), si è prodotto abbandono.
Riporto ancora una frase di Franco Basaglia del 1980: "la distruzione del manicomio non significa abbandono del malato a sé stesso ed ha valore nel creare le premesse perché egli possa essere seguito in modo migliore ed aiutato in quelle che possono essere le sue difficoltà".
Discorso a parte merita l'affermazione secondo cui oggi si deve "lasciare il posto ad un approccio che ricorre a linee guida precodificate secondo il modello medico-scientifico", come se affidarsi acriticamente alla psichiatria basata sull'evidenza fosse l'unico metodo scientifico valido per la cura del malato di mente.
Ricordo che qualche tempo fa, durante un incontro all'Istituto Superiore di Sanità, il dott. Carmine Munizza presentò i risultati di una ricerca effettuata in Piemonte che contraddiceva totalmente le indicazioni sul metodo e posologia di somministrazione di alcuni psicofarmaci date dalla Evidence Based Medicine.
Rapporto pubblico-privato
Anche sulla affermazione che "il sistema attuale, pur criminalizzando in modo ideologico il privato, non ha potuto, per evidente necessità eliminarlo" ci sarebbe da disquisire a lungo.
In passato certamente il privato si occupava della cosiddetta piccola psichiatria, lasciando al pubblico la gravità della psichiatria, certamente la situazione oggi è modificata e maggiormente diversificata, ma anche questa affermazione è riduttiva.
Da più parti si sente l'esigenza invece di chiarire competenze e ruoli.
Nei piani di zona della Azienda ULSS in cui lavoro (ULSS12 Veneziana) si è fatto uno sforzo per cercare di meglio definire ruoli, strategie, competenze e sinergie fra Comune, Ulss, Privato e Privato sociale con notevoli difficoltà trovandoci in carenza di indicazioni giuridiche e quindi trovandoci di fronte a problemi non facilmente risolvibili.
Il rapporto pubblico-privato è un problema che deve essere affrontato, non solo in riferimento alla malattia mentale ma in riferimento a tutta la medicina.
Allora penso si debbano affrontare a monte oltre che i problemi dei ruoli e delle competenze, anche problemi importanti quali l'accreditamento, il controllo dei livelli di qualità, chi, con quali mezzi e con quali finalità si esegu a i controlli, quali risorse siano usate.
D'altra parte questi sono problemi che comunque vanno affrontati prima di mettere in piedi meccanismi che potrebbero nel non lungo termine rivelarsi molto peggiori dei mali che pretendono di curare o meglio delle lacune che tendono a ricoprire.
La proposta di legge
Mi sono posto il problema se cercare di prendere in considerazione i vari articoli di legge, ma alla fine mi è sembrato più utile cercare di dimostrare come le ragioni di tipo tecnico scientifico, addotte per cambiare la legge, non siano francamente sostenibili, anzi si dimostrino molto pericolose.
Tale pericolosità è puntualmente riflessa nella legge, che casualmente come la legge del 1904 è composta di 11 articoli.
Ciò premesso vorrei indicare come preoccupanti alcuni punti fondamentali della proposta esaminata:
- La riproposizione del concetto di pericolosità della malattia mentale e quindi la negazione di un qualsivoglia criterio clinico
- L'avere basato fondamentalmente l'impianto della legge sul TSO come conseguenza del 1° punto
- Il dare la responsabilità della restrizione della libertà di un cittadino al medico psichiatra su segnalazione di chiunque ne abbia interesse. Così si pone il duplice problema del medico che confonde il ruolo di curante con quello di custode e della mancanza di garanzia da parte del malato, essendo scomparsa la figura del sindaco come massima autorità sanitaria garante. Inoltre non viene definito quale sia "l'interesse" di colui che fa la segnalazione.
- Si conferisce un ruolo di polizia al personale sanitario
- Il ruolo del familiare assume la caratteristica del controllore e non di colui che abbisogna anche di aiuto
- Funzioni ispettive e di controllo hanno il sopravvento sulle funzioni sanitari
- Le SRA di 50 posti letto rischiano di diventare dei nuovi manicomietti, magari gabbie dorate contornate da giardini
- Il ruolo del lavoro reso obbligatorio e il compito del DSM di procurare lavoro ha molto di ritorno all'ergoterapia.
Ho voluto elencare solo gli aspetti più evidenti e significativi. L'impianto della legge dimostra inequivocabilmente una vocazione non di cura ma di controllo in aperto contrasto con qualche norma garantista che ben difficilmente può essere praticata. Come si pensa, ad esempio, di fare convivere le quattro ore di libera uscita col concetto di consenso informato!
L'On. Orsini ai tempi della 180 aveva fatto una lotta per fare in modo che il medico non assumesse nessuna responsabilità di controllo, qui invece si dà al medico un ruolo di controllo con una superficialità non contenuta neppure nella legge del 1904 e, rispetto a quella, con minori garanzie per il malato.
Per la legge del 1904 il ricovero d'urgenza era eccezionale, era ordinato dall'autorità di pubblica sicurezza, su certificato del medico che non avesse alcuna affinità di parentela con il paziente, che entro tre giorni doveva riferirne al procuratore del Re.
Quello che tuttavia ci sembra più grave è che al paziente viene, di fatto, impedito di essere al centro dell'interesse terapeutico e protagonista della propria terapia.
Conclusioni
Non ritengo che questa proposta possa avere i requisiti per contemporaneamente soddisfare le esigenze dei familiari per non affrontare da soli il problema della malattia mentale e rispettare i diritti del malato di mente, ci sembra che ancora una volta la diversità segni una disuguaglianza.
Questa convinzione, che ho sempre più rafforzato nel leggere più volte le dichiarazioni dell'On. Burani Procaccini alla XII commissione della Camera dei Deputati e gli 11 articoli della legge, spero possa produrre qualche ripensamento agli estensori di questa proposta di legge.
Vorrei ricordare che la promulgazione della legge 180 è stata il risultato di spinte culturali, scientifiche e teoriche diverse e diversificate e fu resa possibile dalle pratiche istituzionali ispirate o direttamente collegate alle iniziative di Franco Basaglia.
Questa legge rappresenta un segno di civiltà adeguato ad una moderna società e ha creato dibattiti ed è stata imitata anche all'estero e per ultimo anche in Francia.
Sono ben conscio della necessità che le esigenze degli insoddisfatti debbano essere prese in considerazione e le lacune che ancora oggi si manifestano debbano essere superate, ma tuttavia sono convinto che le contraddizioni non si possano superare a scapito di chi è più fragile e più debole, ma solo cercando di capire senza pregiudizi e nella diversità delle interpretazioni le cause per superare concretamente la situazione.
Molti dei problemi che ci troviamo ad affrontare oggi, come operatori della salute mentale, non sono presenti in questa nuova proposta di legge, mi riferisco per esempio alla difficoltà di garantire il patrimonio di un paziente che ha una temporanea incapacità di gestione dello stesso, alla difficoltà di reperire alloggi per strutture alternative che non siano in zone emarginate e così via.
Per tali motivi più che proporre nuove leggi sarebbe, a mio avviso, opportuno agire attraverso dispositivi attuativi maggiormente cogenti degli attuali, e questo sia in riferimento alle strutture alternative, sia in riferimento alle regole di accreditamento dei servizi, alla loro qualità, alla necessità di un più specifico impegno rispetto alle risorse, all'aggiornamento del personale non generico ma legato alla specificità dei servizi, alle emergenze e ai nuovi bisogni dell'utenza cui i servizi sono rivolti.
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