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Dalla teoria alla pratica: l’etnopsichiatria tra suggestioni e istituzioni

26 Nov 12

Di FRANCESCO BOLLORINO

Se volete capire cosa sia una scienza, non dovete considerare anzitutto le sue teorie e le sue scoperte (e comunque non quello che ne dicono i suoi apologeti): dovete guardare che cosa fanno quelli che la praticano, gli specialisti.

Clifford Geertz (1973)

 

 

La presa in carico di un giovane ragazzo marocchino presso il Ser.T., è stata lo stimolo ad alcune considerazioni circa la possibilità di elaborare un modello operativo etnoclinico funzionale ad un contesto di cura istituzionale.

A questo proposito vorremmo discutere le difficoltà incontrate dagli operatori che in tale contesto lavorano, a modificare o meglio, ad interpretare i propri strumenti di lavoro, in modo da trasformare in senso operativo le suggestioni prodotte dal dispositivo etnopsichiatrico. Un dispositivo che pur nascendo da considerazioni riguardanti l’altro "più altro", lo straniero, si fa portatore di una più ampia critica al modello psichiatrico più accreditato a livello istituzionale; un modello che informa una clinica rigidamente organizzata attorno a mandati, ruoli, specificità, "steps", una clinica riduzionista e autoreferenziale, capace di armarsi e disarmarsi nello stesso momento, con la stessa facilità e con la stessa scarsa consapevolezza.

L’incontro con lo straniero, con l’immigrato, con l’extracomunitario, rappresenta solo l’occasione per poter riprendere le fila di un dibattito che si sta nascondendo dietro un nuovo linguaggio, più specialistico e più tecnico, in grado di fabbricare una nuova schiera di pazienti resistenti, difficili, refrattari, quando non sfrontati, manipolatori, irresponsabili.

La resistenza a modificarsi a ben guardare, sembrerebbe anche una prerogativa di qualche operatore troppo scrupoloso, troppo sicuro, troppo protetto dalle sue teorie, dai suoi mandati, dalle strutture entro cui lavora; una resistenza che si oppone a priori rispetto a quella bella premessa che suggerisce T. Nathan a proposito dell’etnopsiachiatria, che lui interpreta come una "sfida al cambiamento".

"L’etnopsichiatria- scrive- è quel pensiero psicologico che accetta la sfida di lasciarsi modificare dagli attaccamenti del paziente" (T. Nathan, 2003).

Ci piace sottolineare come questa disciplina si imposti a partire dall’operatore, dal suo sapere, mettendo in crisi i suoi modelli teorici e i suoi convincimenti, e come in questa logica voglia privilegiare gli attaccamenti dell’altro attore, il paziente, col suo mondo, le sue rappresentazioni e le sue presenze.

La vera sfida, poi, sarà negli sforzi che quell’operatore riuscirà ad apportare alle sue pratiche, lasciando che possano essere trasformate da quei nuovi mondi, quelle nuove rappresentazioni, quelle nuove presenze; su questo campo si gioca la sfida etnopsichiatrica in un contesto istituzionale. La possibilità di trasformare l’invisibile in visibile, una pratica che dovremmo conoscere già bene, una strategia che la psichiatria più medicalizzata applica quotidianamente. Dovremmo imparare a dare peso alle parole, ai "segreti sacri" (A. Sayad ,‘02), rispettando l’obbligo che deriva dalla rivelazione di quei segreti, tentando l’approfondimento della relazione che trova in quella rivelazione il suo momento culminante.

Roberto Beneduce ci incita a non tradurre quelle parole, quel materiale, ma piuttosto a problematizzarlo e a valorizzarlo, "riorientandolo e riformulandolo" attraverso quel complesso lavoro di mediazione capace di dischiudere territori infiniti e inesplorati.

La situazione clinica che intendiamo proporre, vuole sottolineare proprio questa continua tensione a non lasciar cadere le parole del paziente., tentando di tradurle in azioni efficaci da parte di tutti gli operatori coinvolti: psichiatra, assistente sociale, educatore, referenti della comunità terapeutica.

Attraverso la reale costruzione di un autentico lavoro di rete, è stato possibile sostenere le rappresentazioni di A. rispetto alla sua tossicodipendenza, costruendo con lui le strategie di cura , applicando una logica trasformativa ai nostri strumenti più consueti, rendendoli efficaci e significativi all’interno di quella storia particolare: la storia di un ventottenne di Rabat in Italia da circa tre anni, arriva dal carcere e dopo un breve periodo di ossevazione, su sua richiesta, si propone l’ingresso in Comunità Terapeutica (Durante questo periodo, l’educatore ha aiutato A. a sbrigare le pratiche relative al permesso di soggiorno e alla residenza (collaborando con l’assistente sociale), oltre che preoccuparsi dell’accoglienza del paziente al servizio.).

La valutazione è stata fatta sulla scorta di un complesso intreccio che ha privilegiato le difficoltà sociali rispetto a quelle più strettamente correlate all’uso di sostanze. A., in seguito alla detenzione, ha perso lavoro e domicilio, grazie ai contratti in nero che era stato "costretto" ad accettare, oltre che essere stato allontanato dagli amici che si sono sentiti minacciati da una frequentazione diventata pericolosa. Una rapida sequenza di eventi, dunque, aveva improvvisamente rafforzato in una situazione di fragilità sociale che il paziente riconosceva come concretamente minacciosa rispetto alla possibilità di un nuovo percorso deviante.

Nonostante le particolari modalità di utilizzo di eroina, prima sostanza d’abuso di A., non legittimassero in pieno la richiesta della comunità terapeutica (Durante questo periodo, l’educatore ha aiutato A. a sbrigare le pratiche relative al permesso di soggiorno e alla residenza (collaborando con l’assistente sociale), oltre che preoccuparsi dell’accoglienza del paziente al servizio), abbiamo preferito privilegiare gli aspetti sociali per accelerare quell’ingresso. Questa valutazione, seppur di buon senso, non va data per scontato, anzi appare sempre più rara nel panorama di servizi che sovrastimano il potere della diagnosi psichiatrica a scapito di quella sociale, rispettando una gerarchia di gravità che si riflette già nel target di comunità "dedicate": per "border", per "alcolisti", per "tossicodipendenti", per "doppie diagnosi"…

Un’attenta valutazione ci ha convinti ad utilizzare la comunità come "fattore di protezione", ancor prima che di cura o di reinserimento, gettando le premesse alla possibilità di un percorso terapeutico non evocato da una particolare situazione clinica quanto, piuttosto, da una situazione sociale.

Dopo poche settimane di permanenza, tuttavia, A. è deciso ad abbandonare la comunità: vorrebbe uscire per un mese, spacciare per procurarsi i soldi necessari a coprire il debito del padre in Marocco, e poi rientrare.

Una posizione che sembra irremovibile e che non riusciamo a confutare con nessuna "logica" detrattiva: non hanno senso il rischio di ricaduta, il carcere, l’obbligo di firma…l’unica proposizione che viene accolta da A. è quella "della disperazione" che fa leva sulla questione che i soldi guadagnati "illecitamente" sono "soldi sporchi"!

A. rimane scosso proprio da questa considerazione, che ridefinisce proponendo una traduzione "i soldi sporchi sono soldi haram".

Ecco arrivata la "parola sacra". Haram è una parola speciale, in arabo è la parola "sacra" per eccellenza, evoca il religioso, significa "illecito" ma anche "prezioso"; pronunciando questa parola, A. non esegue una semplice traduzione, ma compie un’operazione molto più complessa e profonda: attua una "convocazione" (Nathan, ’03).

Convoca la questione dell’appartenenza: se non paga il debito del padre, parte del mandato familiare rispetto al progetto migratorio, A. "rischia" l’appartenenza familiare, ma saldando quel debito con soldi haram collocherebbe se stesso e la sua famiglia proprio nella dimensione haram, quella del peccato, innescando "l’automatica" maledizione dei genitori: sackt. Una maledizione che nega l’appartenenza. Una trappola.

Ciò che rappresentano le rimesse degli immigrati, infatti, non può essere letto solo nel loro significato più esplicito, cioè nella loro portata economica, ma contestualmente rappresentano anche un intenzione ad esserci, una conferma dell’appartenenza.

Una convocazione che ha dell’incredibile per la semplicità del suo enunciato e la complessità della sua portata.

A questo punto è nostro obbligo raccogliere questo segreto, custodirlo e agirlo.

L’assistente sociale propone una borsa lavoro (poi tramutata in borsa di studio…a proposito dell’immigrato sempre considerato "forza lavoro"…) pur senza che ci siano le condizioni cliniche e temporali "previste" nell’utilizzo di questo strumento (Tre mesi in cui il paziente deve produrre urine pulite da sostanze stupefacenti), mentre lo psichiatra mette in discussione l’opportunità della diagnosi di "tossicodipendenza" che continua a tenere A. ancorato alla posizione dell’illecito, nella dimensione haram.

Alla convocazione di A. seguono due azioni che trasformano il progetto terapeutico riabilitativo del paziente, attraverso l’utilizzo apparentemente inopportuno di due strumenti specialistici: la borsa lavoro e la diagnosi.

La borsa lavoro ha un significato già esplicito rispetto alla necessità di attendere le rimesse al padre.

La diagnosi assume un risvolto che si articola attorno ad altre due nozioni, haram e hallal.

Hallal in arabo significa "lecito", è una nozione che si contrappone a ciò che è haram; haram e hallal sono due dimensioni che devono restare separate, non possono toccarsi, non possono sovrapporsi, né intersecarsi. A. non può affrancarsi dalla tossicodipendenza se è tossicodipendente. Non è una questione di rielaborazione, è una questione di posizione; non può rielaborare ora, potrà farlo solo quando sarà spostato dall’haram all’hallal e questo spostamento spetta a noi. E’ un’operazione strettamente terapeutica, la collocazione in un "luogo" dove sia possibile "dire", "pensare" e "comunicare" (Beneduce).

La diagnosi, dunque, che sinora aveva avuto il potere di convocare le risorse terapeutiche, adesso sembra immobilizzarle.

Concordare questo passaggio, cioè discutere con A. circa la sua non-tossicodipendenza, in una comunità terapeutica non è questione di poco conto (basti pensare alla logica delle rette che crescono in proporzione al numero delle diagnosi!), e solo l’aver impostato un lavoro subito integrato tra tutti gli operatori coinvolti, ci ha permesso di raccogliere in tempo zero i segreti di A. rendendoli immediatamente significativi e produttivi (Diventano fondamentali questioni quali l’assunzione dei farmaci in certi orari, così come i pasti, durante il periodo di Ramadan; la possibilità di fare telefonate a casa, ai genitori in Marocco, a carico della comunità; l’elasticità degli operatori di comunità rispetto un "segreto e complice"annullamento diagnostico).

Un’operazione faticosa da praticare piuttosto che da pensare, considerato che all’interno di una comunità si funziona anche in relazione ad una diagnosi che accomuna, che legittima la presenza, le attività, le regole.

Con una borsa di studio in più e una diagnosi in meno A. ha potuto ancora "appartenere", i suoi attaccamenti si sono riattivati, la possibilità della comunità è ripartita investita di un nuovo senso: quello più profondo, che A. ha dichiuso nel pronunciare una sola e preziosa parola.

Collocato nella dimensione hallal, A. sarà allora investito dalla benedizione del padre, R’da, e si costruirà così un’ulteriore "protezione".

Un’operazione a cui è seguita da una presenza diversa di A. all’interno della comunità dove comincia a mettersi in gioco di nuovo, partecipando alle attività previste, ora che non è non è più "tossico", haram, ma è di nuovo A., con una storia presa in mezzo a logiche sociali, economiche e politiche che rispolverano nuovi significati al suo percorso deviante. Significati nuovamente indagabili in colloqui più approfonditi che lui stesso ricerca.

tenta una nuova narrazione delle vicende che l’hanno portato in Italia, sforzandosi adesso di significare ogni passaggio, facendone una storia che non si limiti ad essere una semplice sequenza di episodi concatenati, ma ritrovando gli spunti per farne un’avventura produttiva e partecipata. Laddove il racconto si arricchisce di senso, laddove il paziente partecipa attivamente alla costruzione del dispositivo che gli permette una "narrazione densa", si sviluppa il processo terapeutico.

Tutto è visto sotto una nuova luce: la droga, il farmaco, la comunità, la terapia. Una logica espulsiva e accogliente allo stesso tempo, che lo allontana da un mondo e lo "attacca" ad un altro.

Un’ulteriore considerazione vogliamo fare rispetto al rischio di ricaduta che sembrava prospettarsi quando A. aveva deciso di abbandonare la comunità. In un modello che legge il ricorso alla sostanza come momento di ricerca affiliativo (traumatofilia), la convocazione della questione dell’appartenenza da parte di A. si è caricata di un ulteriore potenziale "protettivo", proprio attraverso la ri-affiliazione ai suoi attaccamenti più significativi. Torna ancora la già citata suggestione di T. Nathan rispetto ad un "fare" etnopsichiatrico che sembra prender forma proprio dalle provocazioni e dalle proposizioni di A.: l’obbligo ad avvalorarle sul piano dell’azione non sembra più essere una questione morale, ma eminentemente tecnica.

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