In quanti di noi, che per sensibilità e per professione, si sentivano coinvolti dal problema della malattia mentale, la promulgazione della legge 180 determinò la possibilità di avvicinarsi alla riforma psichiatrica con lo spirito pionieristico ed ideale di chi pensava di poter cambiare il corso della storia semplicemente abbattendo i cancelli dei manicomi.
Erano anni in cui si combattevano e si vincevano tante battaglie per i diritti civili, forse ci prese la mano il sogno di fare giustizia e riparare i misfatti operati a danno dei tanti pazienti psichiatrici, fino allora reclusi.
Credevamo con candore/ingenuità che fosse sufficiente liberare quelli che tutti chiamavano i "matti" per non doverli più considerare tali, che bastasse conferire loro una diversa dignità attraverso trattamenti umani, che bastasse dare una risposta più o meno garantita ai loro bisogni primari, che semmai si trattasse di organizzare e di fornire loro un lavoro – vero o fittizio – in una società allora in una fase certo più attenta e aperta ai cambiamenti di quella odierna. Sognammo, specialmente noi delle comunità terapeutiche, di restituirli rapidamente sani – tutti o quasi – ad una società capace di integrarli e liberarli dallo stigma della follia.
Fu solo il tempo e la paziente, seppure entusiastica, pratica quotidiana e la ricerca e l'aggiustamento di tutte le misure ritenute necessarie e sufficienti alla realizzazione di tale encomiabile progetto, a farci via via impattare i nostri e loro limiti, in un confronto serrato tra i loro bisogni e i nostri, in un progressivo concatenamento di elementi ritenuti ora di ostacolo, ora di prezioso aiuto sul cammino verso quella ideale oramai possibile, guarigione. La nostra tenacia, il nostro perseguire punto per punto ciò che ci è apparso sempre più complesso ma anche più chiaro, tradisce tutt'oggi un coinvolgimento così intenso che un osservatore pragmatico potrebbe valutare patologico.
Mentre una parte di operatori del mondo della psichiatria continua a ricercare formule, miscele, che possano, chissà attraverso quali artifici, "restituire ad integrum" il paziente psichiatrico, chi si fa carico di condividerne la vita quotidiana è spinto ad analizzare e mettere in correlazione quanti più elementi da integrare e da utilizzare per tenere in vita, attraverso più puntuali processi di cura, la speranza.
Tra il sogno di una risoluzione facile del problema "malattia mentale" e il sogno, sempre vivo, di una società finalmente in grado di accogliere, aiutare e ricomprendere tutti i suoi diversi, a noi operatori in campo, a noi familiari a noi pazienti ben curati o mal curati, spetta il compito di raccontare le esperienze di mettere a confronto – senza reticenze- quanto a nostro avviso ha funzionato e può ancora funzionare e quanto è apparso inutile o forse anche dannoso�.
Affinché trent'anni di esperienze dolorose ma ricche di spessore umano non rischino di coagularsi in nuove semplificazioni, affinché non vada persa la lezione di Basaglia e la esperienza storica che ne è nata, per non essere complici di processi di "restaurazione" ma stimolo anzi per il completamento di quella riforma rimasta in parte inapplicata, abbiamo promosso il nostro Convegno e siamo qui ad elaborare i bisogni che abbiamo individuato sui diversi poli coinvolti nei processi di cura e riabilitazione e che spesso hanno lavorato in compartimenti stagni.
A tutti noi: Istituzioni, responsabili di luoghi di cura sia pubblici sia privati, pazienti, familiari e operatori di base�. A tutti noi in questo convegno spetta, in primis, di riaprire il confronto.
Dott. Giampiero Di Leo
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