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Seconda giornata – Domenica 14 ottobre

23 Nov 12

Di

CORSO D'AGGIORANAMENTO ORE 9.0 – 11,00
LA PRIMA CRISI EPILETTICA: DIAGNOSI E TRAPIA ALLA LUCE DELLA MEDICINA DELLE EVIDENZE. 

Il primo intervento a carattere introduttivo è stata tenuto dalla Dott. Gallionardo (Roma) che ha spiegato come una crisi epilettica si presenti nel 5% della popolazione generale, dove con crisi si intende la presenza di una alterazione parossistica transitoria delle funzioni del sistema nervoso centrale dovuta a una anomala scarica ipersincrona di gruppi di neuroni. Si tratta di un fenomeno di portata assai rilevante se si considera che la crisi epilettica rappresenta lo 0.7% degli accessi al Pronto Soccorso, il 34% dei quali è rappresentato da una prima crisi. Il primo problema che si presenta al medico del pronto soccorso è il porre esatta diagnosi differenziale tra di crisi epilettica ed altri manifestazioni cliniche. La dottoressa Gallionardo ha posto l'accento sul ruolo fondamentale di una anamnesi mirata col paziente e/o con testimoni dell'evento come base per una corretta diagnosi.
Un problema altrettanto rilevante è la ricerca di precedenti anamnestici di possibile natura epilettica che possano rivelare la presenza di una forma epilettica precedentemente insorta. Ha quindi presentato il Caso clinico di un paziente di 42 anni che presentava delle epilessie parziali che grazie ad un mirato approfondimento anamnestico hanno scoperto essere parte di una forma epilettica caratterizzata da dejavù e sintomatologia epigastrica ad insorgenza in epoca remota e mai riferiti ad alcun medico in precedenza. 
La principali patologie che entrano nella diagnosi differenziale di una crisi epilettica sono la sincope (20%), le pseudocrisi psicogene (4%) e a seguire patologie ischemiche cerebrali (sintomatologia focale di tipo disfasico o sensitivo motoria) e condizioni mediche generali di tipo tossico, metabolico o infettivo. 
Sono state quindi presentate alcune delle caratteristiche cliniche utili per poter discriminare tra una sincope ed una crisi epilettica: nella sincope è generalmente più facile individuare la presenza di eventi scatenanti, in genere la ripresa della coscienza avviene in modo piuttosto rapido, non è fenomeno comune la presenza di incontinenza urinaria o morso linguale e generalmente si nota l'assenza di uno stato confusionale post critico. A questo però è necessario aprecisare che nell'anziano alcune di queste caratteristiche ( per esempio la presenza di sintomi prodromici) sono in genere di più rara osservazione. Per quanto riguarda un'altra condizione di grande importanza nella diagnosi differenziale con le crisi epilettiche come le pseudocrisi psicogene, si osserva come il pattern di movimenti degli arti sia generalmente di tipo asincrono, non sia presente una fase iniziale tonica e il tipo di artefatti EEG abbia caratteristici artefatti monomorfi. 
Infine la dottoressa Gallionardo ha ribadito che, come emerge dalle linee guida redatte a cura del gruppo del Prof. Beghi, l'esame semeiologico e la storia clinica delle circostanze dell'evento critico siano conditio sine qua non per la corretta diagnosi della primi crisi epilettica. 
Nel secondo intervento del Prof Beghi (Milano) è stata trattata l'epidemiologia della prima crisi epilettica. 
La prima crisi epilettica si definisce provocata se esistono fattori clinici precipitanti, quelli di più frequente osservazioni sono i traumi (16%) Ictus (16%) e le infezioni (15%). 
Per quanto riguarda il rapporto tra crisi epilettica e farmaci assunti ad una attenta revisione della letteratura si nota come siano pochi i farmaci che possano essere messi in relazione con l'insorgenza delle crisi epilettiche (Clozapina, antidepressivi triclicici, Meperidina, penicillina Teofillina e la ciclosporina la sospensione di Barbiturici ed analgesici e tra le sostanze d'abuso la cocaina e le anfetamine). Il rischio i ricorrenza nei vari studi di una crisi epilettica varia seconda del disegno dello studio stesso, in quanto negli studi retrospettivi che evidenziano una incidenza media rilevata del 47% esiste un bias di selezione e quindi le incidenze rilevate negli studi prospettici risultano più attendibili (incidenza rilevata da questi studi 36%). 
Per certo si sa che il rischio di ricorrenza della crisi epilettica è massimo nei primi mesi fino ai due anni per poi ridursi in modo significativo. Fattori importanti per determinare il rischio di ricorrenza sono le caratteristiche elettroencefalografiche, dove un EEG alterato aumenta significativamente il rischio di ricorrenza, il rilievo di una lesione cerebrale, una storia familiare di crisi epilettiche e l'insorgenza della crisi durante il sonno. 
Infine viene trattato brevemente l'impatto di una terapia antiepilettica sulla ricorrenza della crisi, secondo molti studi nei primi due anni il trattamento sembra produrre una riduzione dell'incidenza di nuove crisi ma questo effetto protettivo viene a mancare quando si superano i due anni dalla prima crisi.
L'intervento successivo del Professor Aguglia prende in analisi i criteri clinici e strumentali che predicono lo sviluppo di una epilessia in caso di una prima crisi epilettica. Come breve premessa il professore ha ricordato che circa la metà dei pazienti che si rivolgono allo specialista per una presunta prima crisi abbiano in realtà una storia i crisi non diagnosticate in precedenza. 
Quindi ha preso in considerazione i fattori da valutare in relazione al rischio di sviluppo di una epilessia in pazienti con prima crisi epilettica. 
Innanzi tutto viene analizzata la modalità di comparsa. In relazione al numero di crisi all'esordio due studi prospettici hanno evidenziato che non vi è alcuna differenza di rischio relativo fra la crisi singola e le crisi multiple nelle 24 h. uno studio retrospettivo invece indica un maggior rischio nel caso di crisi multiple. La durata della crisi non è risultata un fattore predittivo negativo per lo sviluppo futuro di epilessia. Se la crisi d'esordio è uno Stato di male invece il rischio di epilessia è del 25% negli studi prospettici e del 70% circa in quelli retrospettivi. In secondo luogo viene analizzato l'eziologia della crisi epilettica. Se lo stato di male epilettico è determinato da un danno neurologico la probabilità di sviluppare epilessia sale al 60% anche negli studi prospettici. Nei paziente con crisi provocata (circa il 30% di crisi singole) un elevato rischio è stato coevidenziato con patologie quali l'emorragia subaracnoidea, l'emorragia cerebrale e i traumi cranici gravi mentre un rischio moderato è correlato con la meningite asettica ed i traumi cranici i minor entità. In generale se la prima crisi si associa ad un danno neurologico reversibile il rischio di epilessia è del 3%, se il danno è permanente del 10%; se vi è uno Stato di male associato a qualsiasi danno neurologico il rischio è del 45%. Le crisi idiopatiche costituiscono un fattore di rischio relativo minore rispetto alle sintomatiche. 
Va infine valutata la semiologia: le crisi parziali apparentemente presentano un rischio maggiore rispetto alle generalizzate. In conclusione il professore ha ricordato quale debba essere l'approccio ad una prima crisi: la clinica (anamnesi accurata ed esame neurologico); l'EEG (da eseguire in fase critica e post critica, entro le 24 h) e l'imaging (preferibilmente la RMN encefalica). Attraverso tali dati è auspicabile l'inquadramento delle crisi in una sindrome, tuttavia tale inquadramento è informativo del rischio solo nel 25-50% dei casi. 
L'ultimo intervento della mattina è stato tenuto dal Prof Zaccara (Firenze) che ha fornito indicazioni riguardo all'opportunità del trattamento della prima crisi e a questo proposito ha presentato quattro quesiti: perché trattare? È stato osservato che il trattamento modifica di poco il rischio di sviluppo di epilessia nel caso di crisi singola mentre lo riduce maggiormente in caso di crisi multiple. 
Il secondo quesito è: quando iniziare la terapia? Quando la probabilità di recidiva è alta nei tre- quattro anni successivi, quando le possibili conseguenze di una recidiva sono importanti, quando vi sono particolari aspetti psico-sociali e quando vi è condivisione della terapia con il paziente. 
Il terzo quesito è quali farmaci? Sulla base delle linee guida ILAE di Glauser pubblicate nel 2006 su Epilepsia raccomandazioni per le crisi parziali di livello A vi sono nell'adulto per carbamazepina e fenitoina, nel bambino per Oxcarbamazepina e nell'anziano per la Lamotrigina. 
Infine lo Studio SANAD indica come farmaci di prima scelta nelle crisi parziali la Lamotrigina, Oxcarbamazepina e la Carbamazepina e per le crisi generalizzate il Valproato. È importante ricordare come ogni farmaco debba esser scelto tenendo conto delle condizioni cliniche del paziente e dell'eziologia della crisi.
In conclusione il quarto quesito è la durata del trattamento in relazione al rischio di recidiva dopo sospensione che va valutato sulla base dell'età del paziente, dell'eziologia, dell'EEG, della Sindrome epilettica della durata del periodo libero da crisi e della gravità delle crisi, della velocità con cui si esegue a sospensione, del tipo di farmaco e della condivisione del paziente.

(A cura di Elena Pretegiani e Laura Ciolli) 

Neurolobiologia della depressione: la mente parla al corpo

Il prof. P. Pietrini affronta con competenza, chiarezza e ottima sintesi, il tema dei contributi delle neuroscienze di base alla pratica clinica neurologica e psichiatrica con particolare riferimento alla depressione.
Le metodiche di indagine funzionale e biologia molecolare stanno consentendo, e consentiranno sempre di più, di esaminare approfonditamente i processi neurobiologici in vivo, tra cui le varie dimensioni della depressione. In particolare la risonanza magnetica funzionale, studiando i flussi ematici cerebrali, permette di identificare le aree cerebrali coinvolte nei diversi processi cerebrali.
Il relatore passa poi nello specifico al tema delle emozioni che, da un punto di vista biologico, possono essere viste come un complesso sistema di bioregolazione finalizzato al mantenimento dell'omeostasi con il fine ultimo della conservazione dell'individuo. Le regioni del cervello principalmente coinvolte nella regolazione emozionale sono il cingolo anteriore, la corteccia orbito frontale e ventromediale, l'amigdala e l'ippocampo. L'amigdala è stata molto studiata e ritenuta una sede di elaborazione rapida di stimoli esterni ai quali viene o meno attribuita una valenza minacciosa. Questo avviene anche senza che l'individuo ne sia consapevole. Una iperattivazione dell'amigdala e del cingolo anteriore e una loro abnorme attivazione in presenza di stimoli ambientali neutri è presente in soggetti depressi.
Una delle dimensioni critiche della depressione è rappresentata dal dolore, presente sia come dolore psichico che come somatizzazione nel 70% dei pazienti depressi e che, oltre a costituire sovente il sintomo di presentazione della depressione, ne condiziona fortemente la prognosi.
Dagli studi sul dolore fisico, si sono tratte informazioni sull'elaborazione a livello centrale anche del dolore emotivo. Ad esempio si è dimostrato che il cingolo anteriore ha un ruolo chiave nella componente psichica del dolore, indipendentemente dagli stimoli somatici. Questo è ulteriormente confermato da studi condotti sul meccanismo del perdono, considerato un meccanismo di protezione dal dolore psichico e nel quale è nuovamente implicato il cingolo anteriore. Modulando l'attività di questa stessa regione agiscono anche gli oppioidi e il placebo.
Il dolore fisico e quello psichico hanno anche vie di regolazione neurotrasmettitoriali che sono in parte comuni, come quello serotoninergico e noradrenergico e questo può essere uno dei motivi per cui dolore e depressione sono strettamente legati. Bersaglio delle terapie antidepressive, che sono in grado di agire anche sul dolore, sono appunto questi sistemi di regolazione. Il risultato finale della terapia farmacologica si estrinseca nell'aumento di produzione di fattori trofici neuronali, come il BDNF, maggiormente studiato e noto per essere ridotto nella depressione.
Le prospettive di ricerca si orientano attualmente verso la biologia molecolare e in particolare sullo studio dei SNP che si ritiene siano alla base delle differenze individuali, siano esse dotate di connotazioni patologiche o meno.

(a cura di W. Natta)

SIMPOSIO :IL TRATTAMENTO DELLA MALATTIA DI PARKINSON: CONTROVERSIE

INIZIARE IL TRATTAMENTO CON UN AGONISTA DOPAMINERGICO?
Il simposio è stato aperto dal Prof. Barone il quale ha presentato il problema della complessità della scelta terapeutica nel paziente con malattia di Parkinson. 
Ogni paziente infatti necessita di un trattamento personalizzato, la malattia è progressiva e quindi i sintomi cambiano nel tempo, oltre a questo è caratterizzata dalla presenza di sintomi motori ma anche da quelli non motori che contribuiscono ad influenzare negativamente la qualità della vita. In mancanza ad oggi di una cura che permetta di guarire dalla malattia è opportuno definire gli obiettivi del trattamento prima di scegliere quali farmaci somministrare al paziente. La terapia farmacologia può avere varie finalità: -ottenere un massimo effetto sintomatico sui disturbi motori (approccio "all and now");
-ottenere un miglioramento dei sintomi motori prevenendo la comparsa di complicanze motorie correlate alla terapia (fluttuazioni motorie e discinesie);
-raggiungere una qualità della vita migliore,
-effettuare neuroprotezione verso la progressione della degenerazione.
È stato sottolineato come ad oggi non esista una terapia ideale per la m. di Parkinson e cioè un farmaco che sia in grado di agire migliorando i sintomi motori e non motori, che sia in grado di prevenire l'insorgenza di complicanze motorie conseguenti alla terapia stessa, che abbia una efficacia prolungata nel tempo, che abbia un basso costo e una buona tollerabilità, una facile titolazione, che sia capace di dare neuroprotezione.
La possibilità di scelta terapeutica è tra tre classi di farmaci: dopaminoagonisti (ergolinici e non), L-Dopa, inibitori delle monoaminossidasi B (IMAO B).
In particolare sono state analizzate le caratteristiche dei dopaminoagonisti per definire quanto si avvicinassero al concetto di "farmaci ideali". È stato dimostrato infatti che i farmaci dopaminoagonisti (pergolide, ropirinolo, pramipexolo) sono in grado di controllare i sintomi motori in fase iniziale di malattia se dati in monoterepia.
L'efficacia di tali farmaci è stata valutata sulla base di un miglioramento ottenuto alla scala UPDRS (Unified Parkinson's Disease Rating Scale), sezione III. Sono stati anche mostrati i risultati di uno studio eseguito in doppio cieco che confrontava l'efficacia della L-Dopa rispetto ai dopaminoagonisti nel controllo dei sintomi motori. La L-Dopa risulta più efficace dei dopaminoagonisti indipendentemente dal dopaminoagonista utilizzato. È stato ricordato come invece non esistano ad oggi studi comparativi tra i vari dopaminoagonisti. L'efficacia dei dopaminoagonisti sui sintomi non motori è ancora in fase di studio comunque ci sono evidenze che il pramipexolo agisca sulla depressione migliorandone i sintomi. 
I dopaminoagonisti (cabergolina, pramipexolo, ropirinolo) si sono dimostrati gli unici farmaci in grado di prevenire l'insorgenza delle complicanze motorie. La durata dell'efficacia dei dopaminoagonisti è di circa 10 anni, più breve di quella della L-Dopa sui sintomi motori. I dopaminoagonisti non riflettono invece le caratteristiche di basso costo, al contrario della L-Dopa. Inoltre la tollerabilità è ridotta dagli effetti collaterali noti (in particolare effetti psichiatrici e di fibrosi a carico delle valvole cardiache e del retroperitoneo, quest'ultimo effetto è dovuto solo agli ergot derivati). La titolazione del farmaco richiede un periodo lungo partendo con la somministrazione a basso dosaggio per raggiungere col tempo una dose di mantenimento. Per quanto riguarda la neuroprotezione è stato dimostrato con studi SPECT con DaTSCAN come il ropirinolo e il pramipexolo siano in grado di ridurre la morte cellulare e quindi siano in grado di proteggere i terminali dopaminergici dalla distruzione. È stato mostrato come l 'associazione in fase iniziale di malattia tra dopaminoagonisti e inibitori delle monoaminossidasi B (rasagilina) sia più efficace dei soli dopaminoagonisti nell'ottenere un risultato di neuroprotezione. I dopaminoagonisti riflettono quindi le seguenti caratteristiche ideali: buona efficacia sul controllo dei sintomi motori, se pur minore rispetto alla L-Dopa; prevenzione delle complicanze motorie; neuroprotezione.
La comunicazione si è conclusa con la risposta alla domanda iniziale con cui si era aperto il simposio e cioè è stato chiarito quando e se sia opportuno iniziare il trattamento con un agonista dopaminergico. Il Dr Baroni ha precisato che terapia della malattia di Parkinson va iniziata al momento della diagnosi e che i dopaminoagonisti trovano indicazione nel trattamento della fase precoce della malattia, associati o meno agli inibitori delle monoaminossidasi B.
IL PROFILO DI TOLLERABILITA DEI DOPAMINOAGONISTI
La seconda parte del simposio è stata tenuta dal Prof Antonini. È stato spiegato come attualmente nelle linee guida sull'utilizzo dei farmaci dopaminoagonisti non sia presente una sessione dedicata alla valutazione del rischio-beneficio nell'utilizzo di questi farmaci.
La comparsa delle discinesie è considerato un fattore prognostico positivo per il decorso della malattia, in quanto dimostrazione del fatto che il paziente risponde al trattamento.
La tolleranza e quindi l'impiego dei dopaminoagonisti ergot derivati (cabergolina, pergolide) è limitata dal rischio di fibrosi polmonare, del pericardio, della pleura e del retroperitoneo, ma soprattutto delle valvole cardiache. È stato constatato che la valvulopatia conseguente all'utilizzo di ergot derivati è solo parzialmente reversibile con la sospensione del farmaco. Il controllo ecografico effettuato su pazienti che hanno assunto farmaci dopaminoagonisti ergot derivati ha permesso di constatare che fino ad 1/3 di questi pazienti presentava una valvulopatia severa-moderata.
Gli ergot derivati sono stati impiegati fino a poco tempo fa, quando ancora non era stato valutato il rischio potenziale di fibrosi. Soprattutto la cabergolina aveva un vasto impiego dato il vantaggio di una sola somministrazione giornaliera. Il Prof Antonini ha spiegato come in realtà questi effetti collaterali potessero essere previsti dati i noti analoghi effetti collaterali dei farmaci anoressizzanti in uso negli Stati Uniti negli anni '80.
Successivamente è stato affrontato il problema del disturbo del controllo degli impulsi nella malattia di Parkinson. È stato ricordato che i risultati dello studio PRIAMO dimostrano una elevata prevalenza di disturbi psichiatrici tra i disturbi non motori presenti nella malattia di Parkinson in fase iniziale, in particolare la depressione. Inoltre è stato spiegato come la allucinazioni possano insorgere nel corso della malattia in quanto effetto collaterale dei dopaminoagonisti o come sintomo della malattia; si possono accompagnare ad una elevata componente disesecutiva. Le allucinazioni infatti sono un segno prognostico negativo e sono un fattore di rischio per l'insorgenza di demenza.
È stato successivamente chiarita la relazione tra M di Parkinson e disturbo del controllo degli impulsi: la condizione di depressione eventualmente presente nel paziente con M di Parkinson faciliterebbe l'insorgenza di un disturbo del controllo degli impulsi in concomitanza al trattamento con dopaminoagonisti. Il Prof Antonini ha precisato come oggi sia dimostrato che non c'è differenza tra ergot e non ergot nel rischio di determinare l'insorgenza di un disturbo del controllo degli impulsi. Il rischio è maggiore invece nei soggetti con precedenti psichiatrici di disturbo del controllo degli impulsi, nei soggetti con età di esordio giovanile, nei pazienti con elevate discinesie o lunga durata di malattia.
Il disturbo del controllo degli impulsi si concretizza, nel caso specifico, nel gambling, shopping, ipersessualità e aggressività. È maggiormente prevalente nei maschi nei quali si manifesta soprattutto con ipersessualià e aggressività, mentre il gambling è frequente anche nelle femmine. L'insorgenza del disturbo è correlato all'utilizzo dei dopaminoagonisti, infatti la stimolazione dopaminergica non agisce solo a livello dei circuiti motori ma influenza anche il comportamento interferendo con le via meso-limbica. In particolare è stato precisato che le fluttuazioni motorie(on-off) dovute alle variazioni della stimolazione dopaminergica sono accompagnate da fluttuazioni cognitive-comportamentali: in fase off è prevalente un comportamento incline all'inflessibiltà, in fase on è presente invece un'eccessiva impulsività. 
Infine sono stati dati dei consigli al fine di effettuare in modo appropriato la terapia con dopaminoagonisti tenendo conto degli effetti collaterali di questi farmaci:
– valutare se nella storia del paziente è presente un disturbo del controllo degli impulsi e monitorare i soggetti a rischio
-somministrare i dopaminoagonisti in fase iniziale di malattia così da ridurre il rischio di insorgenza di complicanze motorie, senza aspettare però di raggiungere una somministrazione con dosaggio massimo prima di introdurre la L-Dopa. -aumentare la dose dei dopaminoagonisti in parallelo al peggioramento dei sintomi motori per evitare l'insorgenza di una eccessiva stimolazione limbica
Al termine della comunicazione è stato chiesto quando l'utilizzo dei dopaminoaginisti sia correlato all'insorgenza del disturbo del controllo degli impulsi. L'impiego di questo farmaci nel trattamento dell'iperprolattinemia e del gigantismo non è accompagnato dall'insorgenza del disturbo del controllo degli impulsi, probabilmente quindi questa complicanza che insorge nella malattia di Parkinson potrebbe essere correlata alla dose utilizzata oltre che alla presenza di depressione che può comparire in corso di malattia di Parkinson facilitando l'insorgenza del disturbo.

(A cura di Gemma Lombardi)

SIMPOSIO: GRANDI NEUROLGI ITALIANI ALL'ESTERO NUOVE E VECCHIE MALATTIE DA PRIONE UMANO

Il Professor Lugaresi ha esordito presentando il suo allievo P.L.Gambetti che laureatosi in Italia presso l'Università degli Studi di Bologna nel 1959, se ne è poi allontanato spinto da Lugaresi stesso, che lo ha seguito assiduamente nel lavoro della tesi.
Ha lavorato prima in Belgio, fino ad arrivare nel 1966 negli Stati Uniti, presso l'Università della Pennsylvania.
"Non sono più tornato in Italia perché qui mi offrivano incarichi sempre più importanti, poi ho incontrato quella che diventò mia moglie".
Il Prof. Gambetti ha sottolineato di aver detto due grandi "SI''"nella sua vita: al Professor Lugaresi "�a cui devo tutto per quanto riguarda la mia vita scientifica" ed a sua moglie. Oggi ha due figlie e dirige il grosso centro di sorveglianza a Cleveland.
Collabora comunque ancora, ed in modo assiduo, con l'equipe bolognese, con cui ha scoperto un'altra malattia da prioni: l'insonnia familiare fetale.
Nel 1992, insieme con l'equipe bolognese, ha pubblicato un articolo con il quale dimostravano essere realmente una malattia da prioni.
Afferma Gambetti che "è stata una malattia importante di cui tanti vantano ingiustamente la paternità". Per quanto riguarda il futuro della ricerca per queste malattie, il relatore afferma che attualmente la ricerca sta facendo passi da gigante: in Europa ci sono vari gruppi di ricerca all'avanguardia nel settore, ma la vera svolta si avrà quando si riuscirà a cristallizzare la proteina prionica, sia quella sana che quella infetta in quanto questo permetterà di studiarne la struttura in modo dettagliato (cosa che oggi è stato fatto solo per le proteine sintetiche), perché il processo di cristallizzazione è molto complesso.
Il prione è una normale proteina posta sulla membrana citoplasmatica delle cellule, che appare nell'evoluzione di tutti i mammiferi ed è espressa nella maggior parte dei tessuti, ma soprattutto nel cervello. A differenza dell'isoforma normale, quella anomala è resistente alle proteasi. Questa resistenza è il segno caratteristico di quelle che sono definite malattie da prioni, che possono essere ereditarie, sporadiche o trasmesse. PrP proteasi resistente è stata trovata nei soggetti affetti da FFI. Processando il gene è stata scoperta una mutazione al codone 178, che comporta la sostituzione dell'acido aspartico con l'asparagina nella PrP. La mutazione è stata trovata in tutti i membri affetti. La presenza della PrP-proteasi resistente e la mutazione del gene definiscono la FFI una malattia da prioni, che costituisce un nuovo capitolo delle encefalopatie ad un tempo ereditarie ed infettive. Secondo recenti sviluppi, la proteina prionica è parte del recettore per il sistema GABA-ergico; essa, pertanto, attiverebbe il tono inibitorio. L'anomala isoforma della PrP non avrebbe la capacità di legarsi alle sinapsi. In mancanza di tono inibitorio, i neuroni talamici nella FFI rimarrebbero in condizioni di costante iper-attività, fino all'esaurimento funzionale e alla necrosi. Il deterioramento dell'inibizione sinaptica può essere coinvolto nell'attività epilettiforme osservata nella malattia di Creutzfeld-Jacob. Si potrebbe, quindi, dedurre che la perdita della funzione della proteina prionica può contribuire alla precoce perdita sinaptica e alla degenerazione neuronale osservata in queste malattie. Nell'ambito clinico dell'insonnia familiare fatale vi sono due varianti, una a decorso rapido con prevalenza di onirismo e mioclonie, l'altra a decorso più lento con prevalenza di stupor e segni piramidali. La mutazione al codone 178 si trova, inoltre, in un sottotipo della malattia di Creutzfeld-Jacob (CJD), che si differenzia dalla FFI nell'espressione fenotipica, perché non vi sono né insonnia né atrofia selettiva talamica, bensì spongiosi diffusa, indipendente dalla durata della malattia e diverse manifestazioni cliniche. Per comprendere l'eterotipia fenotipica tra FFI e la 178 CJD e tra le due varianti clinico-patologiche nell'ambito della FFI è stata allora estesa l'analisi del gene prionico nei membri affetti da queste malattie. E' stata osservata una differenza al codone 129 del gene prionico, che mostra un polimorfismo metionina/valina, comune alla popolazione caucasica: 62% per l'allele metionina e 38% per l'allele valina. Se il gene prionico non presenta mutazione al codone 178, l'omozigosi o l'eterozigosi al codone 129 esprime un fenotipo normale. Se, invece, il gene prionico presenta mutazione al codone 178, si hanno diverse espressioni fenotipiche per eterotipia allelica al codone 129. La definizione clinica, anatomopatologica e genetica della FFI ha permesso le seguenti considerazioni:
In primo luogo ha dato credibilità alla teoria dei prioni, già formulata da Prusiner nel 1982-83 e tratta dagli studi sullo scrapie. Teoria osteggiata dai sostenitori delle malattie da virus lenti. Tuttavia negli encefali patologici non è mai stata trovata traccia di materiale genico virale. L'infettività delle malattie prioniche non consiste nella trasmissione di un ipotetico genoma virale nell'encefalo dell'ospite. L'ipotesi prionica di Prusiner prevede un nuovo concetto di infettività, che supera i postulati di Koch, cioè di tipo molecolare anziché virale. La proteina prionica mutante agirebbe da stampo anche per la proteina normale, mutandola a sua volta. Si tratta quindi di un'infettività per contatto, tale da indurre una "mutazione" nella proteina normale.
Tale fenomeno trova riscontro in natura nella cristallizzazione a cascata di alcuni minerali; il fronte di cristallizzazione induce una mutazione del materiale amorfo adiacente. Questo modello risponderebbe a due quesiti:
a) Perché siano necessarie grandi quantità di proteina prionica patologica per mutare (infettare secondo Prusiner) quella normale?
b) Perché i portatori della mutazione ammalino pur avendo un allele normale?
Ha ridefinito poi il ruolo del talamo. Le formazioni talamiche degenerate in questa malattia sono state fino ad ora "terra incognita". Hess nel 1953 riscontrò che la stimolazione talamica mediale induceva nell'animale un sonno fisiologico. La selettività della lesione talamica in questa malattia permette di effettuare correlazioni anatomo-cliniche molto più precise, prima impossibili. Anzitutto questa abiotrofia talamica è su base familiare, è isolata e selettiva; insomma un modello sperimentale naturale, che integra in una visione unitaria osservazioni sparse e le pone nel massimo rilievo. I nuclei talamici anteriore e dorso-mediale sono una fondamentale struttura ipnoinducente ed organizzativa del sonno, coordinano l'intero sistema neurovegetativo ed endocrino. Infatti in questa malattia si verifica uno sbilanciamento di tutto il sistema ergotropo, nella direzione di un abnorme dispendio energetico: iper-tensione, iper-termia, tachicardia, iper-cortisolemia, disordine che alla fine si conclude con la morte. Il talamo anteriore e mediale, dunque, costituisce una stazione integrativa, un vero e proprio network, della vita vegetativa in senso trofico, ossia di ricostituzione e di salvaguardia delle riserve energetiche. E' dunque chiaro che esso rappresenta una struttura essenziale per la vita medesima. 3. Ha complicato la genetica. E' venuto a cadere, infatti, l'assioma "una mutazione una malattia", ossia una mutazione = un fenotipo. Il polimorfismo genico di un allele normale può, in presenza di una medesima mutazione, dare fenotipi diversi.
La domanda che il relatore si è posta è la seguente:
" Fino a che punto si accetta la variabilità di una malattia, prima di cambiare la diagnosi?"
" Perché una malattia o una data malattia variano tanto?"
A questo riguardo è estremamente utile l'uso del Western Blot, un metodo utilizzato per verificare la presenza di una proteina specifica in una miscela complessa, utilizzando un anticorpo specifico diretto contro un dominio della proteina o una sequenza segnale (tag), inserita nella proteina.
Si procede preparando un estratto proteico dalle cellule; da questa miscela viene separata la proteina di interesse mediante elettroforesi in gel di SDS-poliacrilammide. Dopo la corsa su gel, le proteine vengono trasferite dal gel ad una membrana di nitrocellulosa, che viene incubata con una soluzione di un anticorpo specifico per la proteina di interesse. La membrana viene poi incubata con una soluzione contenente un anticorpo legato ad un enzima per rilevare la proteina e come sistema di rilevazione viene poi seguito un metodo colorimetrico che permette di visualizzare la proteina direttamente sulla nitrocellulosa. Il relatore ha messo magistralmente in risalto l'esistenza di una nuova variante di malattia PrPDs, le cui caratteristiche distintive sono di essere resistente alle proteasi, come emerge dal Western Blotting, di presentare a livello istopatologico spongiosi con vacuoli più larghi rispetto alla forma classica e depositi eosinofili.
In conclusione i vari polimorfismi fenotipici non solo nelle Malattie da prioni, ma anche in altre malattie neurodegenerative, mettono a dura prova costantemente le capacità clinico-diagnostiche degli specialisti. 

(Elena Alvisi)

Simposio IL SISTEMA PENUMBRA: nuova possibilità terapeutica endovascolare nell'Ictus Ischemico Acuto?

L'Ictus cerebrale rappresenta la seconda causa di mortalità per tutte le cause e prima causa di disabilità a lungo termine. La terapia dell'Ictus cerebrale ischemico si avvale già da molti anni di metodiche utilizzate a livello internazionale di provata efficacia quali la trombolisi sistemica e quella locoregionale. Il Prof Toso ha iniziato il proprio intervento in questo simposio dedicato alle nuove prospettive terapeutiche nel campo delle malattie cerebrovascolari presentando le caratteristiche delle struttura dedicate al trattamento dell'Ictus acuto: le Stroke Units. Sono reparti dedicati, con personale in formazione continua, dove sia possibile: l'esecuzione di una TC cranio 24 h al giorno e 7 giorni la settimana; effettuare la trombolisi sistemica in qualunque momento, effettuare un monitoraggio pressorio ed ECG in continuo ed eseguire in acuto uno studio dei vasi sia intra che extracranici mediante esame Doppler. 
Esistono purtroppo importanti limiti all'esecuzione di una trombolisi sistemica: uno dei principali è l'orario di arrivo in ospedale. Lo studio SISTS MOST indica come limite temporale per la trombolisi sistemica tre ore dall'esordio dei sintomi o, meglio, dall'ultima volta che il paziente "è stato visto sano". Lo studio ECASS II propone un ampliamento dei limiti fino a tre ore e mezzo. Il tempestività dell'intervento è di fondamentale importanza nel delicato equilibrio tra la possibilità di salvare i neuroni della regione di penombra ischemica e il rischio di trasformazione emorragica dell'ictus. Tale rischio emorragico si assesta secondo diversi studi al 6% allorquando siano rigidamente rispettati criteri di inclusione ed esclusione attualmente utilizzati. 
Quando avviene l'occlusione di un vaso arterioso cerebrale e quindi si produce una riduzione di flusso sanguigno, si ha la formazione di un core ischemico in cui si la riduzione del flusso è pari o superiore all'85% del normale e dove le cellule neuronali non sopravvivono; la regione circostante presenta una riduzione fino al 40% del normale flusso di sangue: quest'ultima viene chiamata penombra ischemica. L'obiettivo cruciale della terapia dell'ictus acuto è quello di salvare queste cellule della penombra ischemica ancora potenzialmente vitali. La Dott.ssa Santalucia nel suo intervento dal titolo "perché la trombectomia" ha chiarito l'importanza della ricanalizzazione dei vasi cerebrali. Viene indicato come un punteggio cut off di 12 alla NIHSS sia un discreto predittore della presenza di una occlusione di un vaso cerebrale. A questo riguardo le linee guida SPREAD nella raccomandazione 10.4 Grado D suggeriscono come, in caso di documentata occlusione dell'arteria basilare sia indicata, nei centri con provata esperienza di neuroradiologia interventistica, la trombolisi intrarteriosa con una finestra terapeutica anche oltre le 6 ore dall'esordio dell'evento. Mancano anche per motivi etica studi di confronto tra la terapia intravenosa e la terapia intrarteriosa data la provata efficacia della prima modalità terapeutica e l'invasività della seconda. Nella pratica clinica la ricanalizzazione sembra essere correlata con un miglior outcome dell'Ictus anche se non esistono evidenze certe che chiariscano in modo definitivo l'argomento. È stato dimostrato come la ricanalizzazione di una arteria basilare occlusa sia correlata con un buon esito dell'Ictus (Lindberg et al. Stroke 2006) ma come l'esecuzione in sequenza di una trombolisi sistemica e locoregionale sebbene aumenti la percentuale di ricanalizzazioni non migliori l'outcome del paziente. 
Infine il Dott. Branca (Milano), neuroradiologo interventista, ha introdotto i risultati preliminari dello Studio PENUMBRA che è arrivato alla sperimentazione di fase II. Per prima cosa ha specificato come l'uso del farmaco fibrinolitico nella trombolisi intrarteriosa sia uno dei fattori di rischio di trasformazione emorragica e che l'uso di una tecnica che non necessiti la somministrazione locoregionale del farmaco permettendo altresì la ricanalizzazione del vaso sia un possibile obiettivo del futuro della terapia dell'Ictus acuto. La nuova tecnica messa a punto dal Dott. Branca prevede l'utilizzo di un device costituito da un catetere guida che viene introdotto dall'arteria femorale, portato lungo l'asse arterioso fino all'occlusione del vaso cerebrale; lì entra in azione un "separatore" che distrugge il coagulo e infine un microcatetere che aspira i frammenti. Lo studio è partito nel giugno 2007 ha reclutato fino ad adesso 23 pazienti con punteggio NIHSS maggiore o uguale ad 8, con una occlusione di un vaso cerebrale intracranico o di un grosso vaso con un punteggio valutato secondo la TIMI Scale di 0 o I . 
Il primary outcome dello studio prevede la rivascolarizzazione del vaso (punteggio alla Scala TIMI II o III) e la valutazione di eventuali eventi avversi. I risultati preliminari sembrano incoraggianti; nel 58% dei casi si è ottenuta la ricanalizzazione completa ed in un solo paziente non si è verificato alcuna ricanalizzazione. Non sono state riportate gravi complicanze emorragiche. Lo studio è ancora in corso e si attendono per il 2008 ulteriori incoraggianti risultati per il trattamento una patologia così largamente diffusa e invalidante. 

(A cura di L. Ciolli)

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