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Seconda giornata – Mercoledì 20 febbraio

23 Nov 12

Di

Clozapine
La lettura introduttiva viene tenuta dal prof. J.P. McEvoy, co-principal invetigator dello studio CATIE, che delinea un profilo dell'utilizzo clinico di clozapina attraverso una revisione della letteratura più recente in proposito.
Studi condotti tra l'88 e il 2001 hanno evidenziato in maniera convincente la superiorità di clozapina rispetto a clorpromazina e aloperidolo nell'efficacia sui sintomi positivi e nel profilo di tollerabilità.
La fase 2 del CATIE si è concentrata sul confronto di clozapina con altri antipsicotici atipici (olanzapina, qutiapina e risperidone) all'interno del braccio dello studio sull'efficacia. I pazienti di questo campione risultano prevalentemente di sesso maschile, con frequenti ospedalizzazioni e una sintomatologia positiva rilevante. Clozapina è stata somministrata ad un dosaggio medio di 332,1 mg/die e l'outcome primario è stato, come nella fase 1, l'interruzione del trattamento per qualsiasi ragione.
In questi termini clozapina è risultata superiore agli altri farmaci in studio, ma considerando nello specifico l'interruzione per scarsa efficacia, la differenza risulta anche statisticamente molto significativa.
Le valutazioni standardizzate con PANSS e CGI sono limitate nell'elaborazione statistica dall'esiguità del campione giunto al termine del follow-up, ma a 3 mesi i dati sono favorevoli ancora a clozapina.
Conferme a tali risultati vengono anche dallo studio CUtLASS 2 condotto nel Regno Unito su un campione di soggetti affetti da schizofrenia, disturbo schizoaffettivo o delirante cronico e randomizzati a clozapina o un antipsicotico atipico. A fronte di una superiorità nella riduzione della sintomatologia psicotica, però, clozapina non ha mostrato di migliorare significativamente la qualità della vita.
Nel confronto diretto tra clozapina e olanzapina la superiorità del primo farmaco non è sempre così netta e in letteratura sono presenti studi che non evidenziano differenze significative.
Un ambito peculiare di impiego di clozapina è nelle schizofrenie ad esordio precoce e in uno studio recente su un campione di pazienti tra 10 e 18 anni la risposta è stata del 67% verso un 33% con olanzapina.
Un'altra indicazione all'uso di clozapina è il trattamento dell'aggressività nei pazienti psicotici con una superiorità dimostrata rispetto a olanzapina e aloperidolo e una capacità di ridurre gli arresti e i giorni di detenzione in pazienti psicotici con storia di atti criminali.
Infine clozapina ha mostrato di ridurre la frequenza dei suicidi, dell'uso di sigarette e dell'assunzione compulsiva di acqua. A fronte di un'efficacia notevole e di diverse specifiche indicazioni, clozapina presenta anche un profilo di effetti collaterali rilevanti e potenzialmente fatali, come la ben nota agranulocitosi, ma anche il rischio epilettogeno, per il quale sembra più rilevante la positività anamnestica per patologia epilettica che non il dosaggio del farmaco. Altro rischio è la miocardite, più frequente nelle prime settimane di trattamento e legata ad una risposta eosinofila acuta al farmaco; per tale rischio è consigliato un monitoraggio ECG, della conta eosinofila e di alcuni indici biochimici di danno miocardico nella prima fase del trattamento.
A lungo termine preoccupa la comparsa di resistenza insulinica e l'aumento di colesterolo non HDL perché risulta ormai evidente che la sopravvivenza dei pazienti trattati a lungo termine con clozapina è fortemente influenzata dall'insorgenza di diabete e di complicanze cardiovascolari. In tal senso sono state proposte modifiche dello stile di vita, terapie preventive con metformina, simvastatina e acido salicilico.
In conclusione, è stato dimostrato in modo convincente che clozapina è il farmaco antipsicotico più efficace, ma con diversi e pericolosi effetti collaterali. Attualmente risulta sottoutilizzato negli USA e il suo impiego ideale sarebbe la prescrizione da parte di specialisti della salute mentale sulla base di algoritmi ben definiti per il monitoraggio degli effetti collaterali.
A CURA DI WERNER NATTA.

SESSIONE PLENARIA – FARMACOTERAPIA PSICHIATRICA UN GRANDE FUTURO DIETRO LE SPALLE
Relatori : R. Rossi (Università di Genova), L. Pani (CNR, Milano-Cagliari), A. Rossi (Università de L'Aquila) Moderatori: E. Sacchetti (Brescia), E. Smeraldi (Milano)
 I moderatori aprono il convegno con la considerazione di limitare l'introduzione e dedicare tutto il tempo agli interventi in programma, particolarmente densi di contenuto.
Apre pertanto il prof. R.Rossi, sul tema "I farmaci come personaggi dell'icona psichiatrica": l'assunto è che il farmaco sia un "character", il personaggio di una scena (teatrale) che si svolge tra medico e paziente. Ma chi è il medico? Si può definire il tecnico della sistemazione dell'intervento sulla malattia somatogena e psicogena, oppure il tecnico della relazione. E lo psichiatra? Come sopra, tecnico della diagnosi e della terapia, ma più spiccatamente : il tecnico della relazione, l'addetto alla sistemazione e ridefinizione dei rapporti tra componenti mentali psicogene e somatogene. Egli è portatore di una grande ambivalenza, ed i suoi compiti sono reinserire in una dimensione mentale ciò che è stato esternalizzato ( per esempio, da un determinato comportamento identificare il vissuto che vi sta dietro). Lo psichiatra dovrebbe ricostruire la storia clinica con una percezione narrativa della crisi, nominare l'innominabile, trattare il problema dell'empatia (Einfuhlung ), tener conto del rapporto paziente-farmaci-medico (menàge a trois), con una particolare attenzione all'inefficienza in psichiatria del concetto di compliance, che andrebbe meglio sostituito con quello di relazione.
Nello specifico dei farmaci come personaggi, li si possono considerare come terapia ( con un problema: in psichiatria il sintomo ha un senso, e può rappresentare il cosiddetto "male minore", per esempio vedi l'obesità o l'impotenza), come contenimento o presa di distanza, come mezzo linguistico. Non va trascurata la dimensione sedazione/stimolazione caratteristica nell'uso e nella scelta del farmaco, e le istanze proiettive e persecutorie ad esso associate.
Si tratta di una fornitura di presenza oltre che di una fornitura di farmaci: all'interno di meccanismi di perdita e nostalgia, il farmaco si pone come oggetto transazionale, ed il medico come oggetto trans ferale. Si instaura una patologia seconda: dalla malattia alla dipendenza farmacologica ricercata, alla dipendenza personale ed infine all'autonomia.
Infine, un ultimo accenno alle strutture difensive utilizzate dal medico stesso: l'iperdisponibilità, il distacco e la razionalizzazione, l'ottimismo negatorio o viceversa l'ottimismo onnipotente. Se non funzionano, si ha il collasso della funzione medica: depressione, astenia, burn-out, dissociazione oppure risposta maniforme. Attenzione: del medico, non del paziente!
Si prosegue con l'intervento del prof. L. Pani, sul tema "Ricerca e sviluppo in psicofarmacologia: the long and winding road". Esordisce ricordando le parole del prof. Pancheri, che gli disse di voler fare un congresso problematico, chiedendo ai farmacologi come mai i farmaci non valessero più niente, perché l'aloperidolo tutto sommato non sia mai stato battuto e – provocatoriamente – forse sia proprio lui alle giuste dosi l'antipsicotico di nuovissima generazione. Sono analizzate di seguito le criticità della ricerca farmacologica, per capire come mai non ci siano in realtà nuove molecole: in primis i modelli di ricerca. Le sorgenti attuali sono: la sintesi classica (es. l'Aloperidolo, sintetizzato nel 1958 e somministrato all'uomo l'anno successivo), la chimica combinatoria, in realtà colpevole dell'aver rimpiazzato i clinici medici con i tecnici dei computer, perdendo la memoria della capacità di sintesi dei farmaci, le librerie virtuali (software che simulano i sistemi complessi, per esempio la mente umana), gli estratti naturali, ed infine quello fondamentale della Serendipity (or just pure luck), come nel caso delle Benzodiazepine.
E' importante far notare che i miglioramenti per salto di categoria di un farmaco avvengono solo per l'intervento di un medico, che somministra il farmaco, e non dal tecnico di laboratorio. I risultati della chimica combinatoria hanno dato i seguenti risultati: una molecola su 10.000, dopo circa 14 anni, arriva in farmacia, con costi altissimi, e talvolta è uno spreco (in fase 3, la più costosa, su 5000 o 6000 pazienti si testa il farmaco, poi sul mercato in poche settimane con un buon lancio si ha un milione di pazienti: se l'effetto collaterale è grave, ed ha di frequenza 1 su 10.0000, saranno circa 1000 pazienti, non lo si poteva vedere per l'esiguo numero e si avrà il ritiro del farmaco).
L'Italia è esclusa spesso da clinical trial, soprattutto perché non sviluppiamo in fase 1.Parafrasando il titolo della plenaria "un grande futuro dietro le spalle": alla fine si ha meno di 2 farmaci nuovi all'anno sul mercato. Pertanto, un primo problema della farmacologia è che probabilmente ci sono degli errori nei modelli. Un altro problema riguarda la validità di un modello animale, che deve avere validità costruttiva (un modello animale derivato il più possibile dalla patologia umana) e validità strutturale (un'omologia significativa di segni e sintomi tra modello animale e condizioni cliniche), ed i problemi sono ancora più evidenti nel ramo psichiatrico. Non ci sono attualmente modelli per esempio del disturbo bipolare, dell'autismo, dell'ADHD�ed un altro problema da sempre discusso è se lo stress sia specifico o no�
Speranze sono riposte nella drug-discovery attraverso l'informatica, fino al "delirio" finale del "Man simulator": un complesso di algoritmi che simula cosa succede se si introduce un farmaco in un organismo umano: per tagliare la fase 1 sino a giungere ad una dose di riferimento, senza l'utilizzo dell'uomo. Sono stati usati gli schemi delle mappe cerebrali della coscienza, per inserire nel sistema degli "errori", cioè in questo caso non aumentare la potenza di calcolo, ma introdurre dei fattori di ridondanza, sino all'integrazione di database complessi dove la fisiopatologia è all'inizio di tutta la catena. Tali database appunto dovrebbero essere integrati con degli "errori", in maniera però evoluzionistica: quello che fa il DNA, per intendersi: fa errori e li ricorda. Altrimenti saremmo ancora dei batteri e non ci sarebbe la musica. 
Conclude con un commosso ricordo del prof. Pancheri.

IL PROBLEMA DEL TRATTAMENTO DEI DEFICIT COGNITIVI NELLA SCHIZOFRENIA.
Relatore: A. Rossi

Il deficit cognitivo, doveva, deve e dovrà essere incluso nei criteri diagnostici e nella patofisiologia della schizofrenia, essendone un carattere nucleare. Ad oggi la ricerca tende ad ipotizzare che tale disturbo possa essere trattato sia farmacologicamente che non farmacologicamente.
La cognitività negli ultimi trent'anni è stata considerata predittiva dell'esito funzionale della malattia e sempre a riguardo delle funzioni cognitive è stata cambiata anche la prospettiva e il suo punto di vista: dagli anni 70 agli anni 90 l'attenzione era concentrata sul deficit cognitivo, negli ultimi vent'anni si è spostata sull'esito funzionale "miglioramento delle funzioni cognitive".
Il miglioramento cognitivo, che ci si aspettava con i farmaci antipsicotici di seconda generazione è stato molto minore rispetto a quello atteso; si è perciò cercato di spostare la nostra attenzione su un altro tipo di intervento farmacologica e su un altro punto di vista della schizofrenia.
Non più un trattamento basato sui recettori D2, ma sull'endofenotipo.
Gli endofenotipi si trovano in una posizione prossimale alle manifestazioni del disturbo "al disturbo stesso" e sono solitamente associati a geni.
Es: La modulazione della trasmissione nicotinica e l'espressione del proprio recettore è regolato dal gene alpha 7 nicotinico. Questo gene sembra essere associato ad un certo fenotipo e quindi alla schizofrenia. Si è evidenziato come un farmaco che agisse sull'attività agonistica del recettore poteva anche migliorare i deficit cognitivi.
Un ulteriore domanda che ci si è posti in questi ultimi anni e se ci fosse un'altra strada non farmacologica in grado di migliorare i deficit cognitivi.
Un consistente effetto sul miglioramento delle performance cognitive e sui sintomi è stato attribuito al "il rimedio cognitivo", che sembra migliorare significativamente anche gli esiti funzionali a lungo termine. Es: Una strategia di "rimedio cognitivo" potrebbe essere la verbalizzazione.
La conclusione potrebbe dunque essere un' integrazione tra endofenotipi, "rimedio cognitivo" e farmaci. Es: La verbalizzazione "rimedio cognitivo" potrebbe essere legata a polimorfismi genetici "endofenotipo" e da qui una maggiore risposta farmacologica.
A cura di: M. Fenocchio, V.Vinciguerra. 

Unmet needs nella Demenza di Alzheimer
In un simposio organizzato in ottica multidisciplinare, il primo intervento è quello del prof. S. Govoni, biologo e farmacologo, che parla delle attuali linee di ricerca farmacologica per la Malattia di Alzheimer. Ripercorrendo una storia che dagli anni 70 (scoperta dei deficit della trasmissione colinergica) ad oggi (impiego dei farmaci inibitori delle colinesterasi in associazione alla memantina), delinea una prospettiva futura che vede mantenere un ruolo di primo piano da parte degli attuali farmaci, per almeno i prossimi 8-9 anni. Per questa ragione il relatore ritiene fondamentale concentrarsi sullo studio delle molecole oggi disponibili per migliorare la pratica clinica.
Gli inibitori delle acetilcolinesterasi hanno probabilmente effetto anche sul metabolismo della beta-amiloide, ma questo non sembra vere ripercussioni cliniche significative, come pure le differenti proprietà farmacologiche delle molecole di questa classe. Più promettente sembra essere lo studio dei polimorfismi genetici delle molecole bersaglio di questi farmaci, oppure gli studi sulla farmacocinetica.
Le prospettive di sviluppo futuro di nuove categorie di farmaci si orientano al momento sulla modifica del metabolismo della beta-amiloide, ma non ci sono evidenze convincenti che questo sia il bersaglio più idoneo. Ci sono infatti evidenze che indicano che più sistemi siano interessati precocemente dalle anomalie della beta-amiloide, ad es. le vie dopaminergiche e un'azione precoce su questi sistemi potrebbe essere utile clinicamente. Inoltre sembra che siano presenti alterazioni morfologiche di p53 nella demenza di Alzheimer.
La conclusione del relatore è che sia al momento di prioritaria importanza studiare approfonditamente i farmaci oggi disponibili con particolare attenzione alle caratteristiche dei pazienti responder o non responder.
Segue l'intervento del prof. S. La Pia che affronta il complesso tema del trattamento dei sintomi non cognitivi della demenza, con particolare riferimento ai disturbi comportamentali accomunati sotto l'acronimo BPSD. Questi sono i principali responsabili della prognosi negativa della malattia e hanno alcuni caratteri rilevanti, tra cui una struttura sintomatologica eterogenea, rapporti non sempre definiti con i deficit cognitivi, un decorso peculiare (presenza non costante, persistenza di alcuni sintomi e non di latri, ecc.) e si inseriscono in un modello biopsicosociale della malattia.
Il trattamento farmacologico di questi disturbi si avvale principalmente di inibitori delle colinesterasi (i farmaci più usati), di SSRI (usati circa nel 50% dei casi), di antipsicotici atipici (circa 1/3 dei casi) e di antiepilettici. Gli inibitori delle colinesterasi sono abbastanza efficaci, soprattutto su ansia e sintomi psicotici, ma poco sull'agitazione. Gli SSRI sembrano efficaci sulla depressione, anche se c'è una certa dipendenza dallo strumento di valutazione scelto. Il trazodone sembra efficace più specificamente sull'irritabilità. Il valproato (spesso associato agli antipsicotici) mostra una buona efficacia sui sintomi comportamentali.
BPSD definisce una classe non omogenena, per cui è importante focalizzarsi sui diversi cluster sintomatologici e scegliere un trattamento farmacologico mirato ai sintomi quando questi diventano particolarmente rilevanti. Il terzo intervento si focalizza sugli antipsicotici atipici nella demenza e il prof. G. Muscettola affronta il tema sia dal punto di vista dell'efficacia che della tollerabilità. Gli antipsicotici tipici non sono efficaci e quindi non hanno indicazione, mentre quelli atipici sono indicati nel trattamento dei sintomi psicotici, dell'agitazione e aggressività e possono essere utili nella sintomatologia dell'umore e cognitiva. I dati della letteratura sono controversi e non univoci in tal senso, ma c'è uniformità nel suggerire l'uso di bassi dosaggi. Sotto il profilo della tollerabilità, con particolare riferimento all'aumentato rischio di eventi cerebrovascolari, la letteratura è anche qui ben lontana dal fornire risposte definitive.
Il rischio esiste, anche se resta aperta l'ipotesi su quanto tali eventi siano legati alla malattia di base piuttosto che al trattamento. E' quindi sconsigliato l'impiego routinario, ma è opportuno valutare attentamente il rapporto rischi benefici, soprattutto con attenzione ai rischi del non trattamento di sintomi gravi.
Chiude il simposio l'intervento del prof. M. De Vanna sulla relazione tra deficit cognitivi e disturbi dell'umore. Vengono passate in rassegna le diverse ipotesi di correlazione tra questi due disturbi, partendo dal MCI come conseguenza del danno cerebrale indotto dalla depressione, passando poi alla possibilità che un MCI preclinico possa predisporre alla depressione, per arrivare alla più convincente ipotesi di una vulnerabilità di tipo genetico comune ai due disturbi o al solo MCI e su cui la depressione agirebbe da evento trigger. Rimane in ogni caso il dato che la depressione è presente in 1/3 dei casi di MCI ed è un fattore di rischio per al demenza sia di tipo Alzheimer che per quella vascolare.
I più recenti studi neurobiologici prospettano uno scenario di convergenza di deficit cognitivi e depressione nell'ambito della neurogenesi e dei fattori di crescita neurotrofici.
(A cura di Werner Natta)

LA SPECIFICITA' DEL DISTURBO BIPOLARE IN ETA' EVOLUTIVA 

Il Prof. G.Perugi apre la questione della comorbilità tra Disturbo Bipolare e Disturbi d'Ansia nell'infanzia e nell'adolescenza, argomento sempre più oggetto di interesse, vista la frequenza con cui si presenta (una diagnosi aggiuntiva di Disturbo d'Ansia sarebbe presente in circa il 70% degli adolescenti affetti da Disturbo Bipolare).
Soprattutto l'associazione tra Disturbo Bipolare e Disturbo di Panico sembra evidenziare particolari caratteristiche: nei pazienti affetti da entrambi i disturbi vi sarebbero una maggiore tendenza alla familiarità ed un esordio più precoce dei sintomi (spesso in età pre-puberale); in questi pazienti, inoltre, un attacco di panico costituisce spesso il primo sintomo di un Disturbo Bipolare in fase di slatentizzazione. Una comorbilità con disturbi d'ansia sarebbe anche indice di maggiore tendenza ad un viraggio dalla depressione all'ipomania, sia spontaneo che indotto dalla terapia farmacologica con antidepressivi (spesso prescritta erroneamente per controllare i sintomi ansioso-depressivi). Questi fenomeni di viraggio, molto frequenti soprattutto nell'età evolutiva, hanno indotto ad approfondire il problema dell'associazione tra panico e mania, che è stata in passato relativamente trascurata, a differenza dei numerosi studi disponibili sui rapporti tra panico e depressione. 
Dai dati attualmente a disposizione, il Disturbo di Panico sembra essere presente non solo durante l'episodio depressivo del Disturbo Bipolare (come avviene nella Fobia Sociale), ma anche nella fase espansiva: risulta quindi fondamentale, soprattutto nel caso di un giovane paziente, non limitarsi a considerare le caratteristiche di un attacco di panico (che tende ad attirare maggiormente l'attenzione dello psichiatra), ma di indagare sempre l'eventuale presenza di instabilità dell'umore. In quest'ultimo caso, infatti, l'utilizzo di un farmaco antidepressivo potrebbe indurre un'ipomania iatrogena, molto pericolosa, visto l'elevato rischio di suicidio in questa fase.
La comorbilità tra Disturbo Bipolare e Disturbo di Panico sembra influenzare anche la risposta al trattamento farmacologico: in questi pazienti, infatti, il litio e gli antipsicotici atipici sarebbero meno efficaci, mentre si evidenziano significativi benefici dalll'aggiunta di stabilizzatori dell'umore, quali gabapentin e valproato. Concludendo, ai due poli dello spettro bipolare esisterebbero, da un lato, forme episodiche (caratterizzate da un'alternanza di episodi maniacali e depressivi) e, dall'altro, forme estremamente instabili: queste ultime sarebbero molto frequenti in adolescenza, avrebbero tendenza alla familiarità e alla presentazione clinica come Disturbo Bipolare tipo II (depressione+ipomania).
Si può quindi ipotizzare che la "bipolarità ansiosa" sia un sottotipo del Disturbo Bipolare, con caratteristiche specifiche: alta incidenza di instabilità dell'umore e di switch rapidi tra depressione e ipomania, eziopatogenesi familiare, esordio precoce e maggiore risposta ad anticonvulsivanti rispetto a litio ed antipsicotici atipici.
La Dott.ssa C. Pari illustra i risultati di recenti studi su bambini e adolescenti affetti da Disturbo Bipolare (sulla base di indagini anamnestiche, di osservazioni prolungate e di informazioni raccolte dall'intervista clinica strutturata K-SADS-PL). In base a tali studi si possono distinguere due diverse presentazioni fenotipiche di Disturbo Bipolare ad esordio precoce: 
1) Fenotipo A: caratterizzato da esordio in età prepuberale, tono dell'umore tendente all'irritabilità, decorso cronico, quadro clinico inquadrabile nella categoria del Disturbo Bipolare NAS, maggiore comorbilità esternalizzante (disturbi del comportamento e ADHD), minore risposta alle terapie farmacologiche.
2) Fenotipo B: caratterizzato da esordio in età adolescenziale, umore tendente più all'euforia che all'irritabilità, decorso episodico, quadro clinico compatibile con Disturbo Bipolare tipo I o II, maggiore comorbilità internalizzante (disturbi d'ansia), maggiore risposta ai trattamenti.
Soprattutto il fenotipo B necessita di un'accurata indagine diagnostica per evitare di privilegiare eccessivamente la componente ansiosa e di trascurare l'ipomania. Esiste quindi il rischio di orientarsi erroneamente verso l'ipotesi di una sindrome ansioso-depressiva, da trattare con antidepressivi (che come visto precedentemente, inducono spesso lo switch verso l'ipomania).
Il Prof. Zuddas descrive le caratteristiche principali del Disturbo Bipolare in età evolutiva (che si associa spesso a prognosi sfavorevole), con particolare riferimento alle sue relazioni con l'ADHD. Molti criteri diagnostici del DSM-IV per l'ADHD, in effetti, si ritrovano anche nell'Episodio Maniacale: in particolare la distraibilità, l'aumento di attività finalizzate (anche se nell'ADHD vi sarebbe una tendenza più specifica ad effettuare attività non finalizzate) e l'eccessivo coinvolgimento in attività piacevoli. Sintomi chiave dell'ADHD, inoltre, sono l'impulsività, e l'alterata percezione del tempo (anche il paziente bipolare tende ad essere accelerato e a vivere nel futuro).
A differenza di quanto può avvenire nel Disturbo Bipolare, tuttavia, nell'ADHD non sarebbero presenti l'umore espansivo, i deliri di grandezza e le idee di suicidio.
Un ADHD esordito in età infantile potrebbe costituire, comunque, il motore per lo sviluppo di successivi disturbi in adolescenza (soprattutto dell'umore e del comportamento), fino all'evoluzione, in età adulta, verso il Disturbo Antisociale di Personalità e l'abuso di sostanze.
Risulta in ogni caso difficile, allo stato attuale, stabilire con certezza i rapporti fra ADHD e Disturbi Bipolari, poiché queste categorie diagnostiche si basano ancora sulla valutazione del comportamento esteriore del paziente e non sono ancora disponibili dati biologici specifici. 
Studi di neuroimaging hanno comunque dimostrato, nel Disturbo Bipolare insorto in età pediatrica, una diminuzione del volume dell'amigdala rispetto ai controlli, con un'aumentata reattività del suo funzionamento in risposta a stimoli affettivi (Chang, 2006). La somministrazione di litio e di stabilizzatori dell'umore avrebbe un effetto protettivo nei confronti di queste alterazioni morfofunzionali.
Nei pazienti affetti da ADHD, invece, vi sarebbe un ritardo dello sviluppo della corteccia prefrontale e di quella temporale, che sarebbero di dimensioni inferiori rispetto ai controlli. L'area motoria, invece, si svilupperebbe in modo anomalo.
La Dott.ssa Mucci indica i possibili predittori di risposta nel Disturbo Bipolare in età evolutiva, in base ad uno studio su 266 pazienti consecutivi (età media 14 anni), trattati inizialmente in monoterapia, con litio, acido valproico o un antipsicotico atipico, e, successivamente, in terapia combinata.
L'impiego di acido valproico è risultato di prima scelta nei casi di Disturbo Bipolare ad esordio precoce, a decorso cronico, inquadrabili clinicamente nei criteri del Disturbo Bipolare tipo II, in comorbilità con disturbi d'ansia (soprattutto DAG e fobie) o con ADHD.
Il litio, invece, è risultato di prima scelta nei casi ad esordio in adolescenza, a decorso episodico, inquadrabili come Disturbo Bipolare tipo I, associati a sintomi psicotici, in comorbilità con disturbi d'ansia (soprattutto Disturbo di Panico) o con Disturbo della Condotta.
Dallo studio è emerso, inoltre, che la monoterapia con uno stabilizzatore dell'umore (litio o valproato) risulta efficace nel 50 % dei casi; l'aggiunta dell'altro stabilizzatore è efficace nel 55 % dei casi, mentre l'aggiunta di un antipsicotico atipico è efficace nel 45 % dei casi.
A cura di Gabriele Giacomini

Ecce Homo: dolore somatico e dolore mentale 

Apre il simposio il moderatore, Prof. Romolo Rossi, riprendendo il fil rouge riguardo l' espressione corporea del dolore mentale. Il dolore ha appositi centri, apposite vie neurologiche, e funzioni specifiche: fu in Inibizione Sintomo e Angoscia, che Freud si pose per la prima volta il problema che dal dolore fisico derivava metaforicamente il dolore mentale, come quel vissuto legato alla separazione e alla perdita. Esso è efficacemente rappresentato dall' Ecce Homo di Antonello da Messina, le cui opere ( Annunciata, Ritratto di ignoto di Cefalù ) non rispondono all'immagine tradizionale, ma con la loro ambiguità comunicano un sentimento di ignoto. Il dolore fisico è una funzione e ha una sua struttura, al contrario il dolore mentale non è comunicabile. Il dolore mentale è una metafora del dolore fisico, è la risposta alla perdita dell'oggetto che non è più presente per soddisfare il bisogno. Ha un investimento emotivo analogo al dolore fisico e in entrambi è presente una componente ossessiva. Il dolore mentale è presente in tutta la vita: chi non tollera il dolore mentale non è sano di mente. 
La luce del vero: lo studio delle emozioni nell' opera di Caravaggio – C.Vecchiato
L' opera del Caravaggio sottende ad un progetto artistico e, in qualche modo, anche scientifico volto alla strutturazione e comprensione di disorganizzate eccedenze affettive. Lo scopo del lavoro è di focalizzare le istanze euristiche del doloroso vissuto del pittore, che cerca di provare e comprendere le emozioni attraverso la sua arte. Attraverso l' esposizione di alcune opere si delinea il percorso della rappresentazione del dolore: dapprima, nel "Martirio di San Matteo", vi è un' esplosione di violenza mentre in seguito, nel "Martirio di Sant'Orsola", il dramma è focalizzato in un momento quasi definitivo. Ed è grazie agli studi sulla camera oscura,utilizzando luci ed ombre, che il pittore esprime con grande intensità la sofferenza, riuscendo a tradurre la percezione ottica in pittura.
Dolore mentale cosmico: il Cotard – A.Priori
Il grado estremo del dolore è individuato nel Delirio di Cotard, in cui lo stato d'animo del paziente è uno stato misto: "tutto è perduto tranne il mio eterno dolore"; secondo la teoria psicoanalitica è presente un Io megalomanico espressione della negazione della perdita dell'oggetto, essendo rappresentato dalla negazione del corpo e quindi dalla perdita del sé. Si nota come la vicinanza all'Io della negazione aumenti sempre di più nel Cotard dagli oggetti esterni, agli oggetti mentali, al proprio corpo con delirio di negazione degli organi. Il delirio di negazione è punto d'unione tra psicopatologia e neuropatologia (disconoscimento degli organi e somatoagnosia). A questo punto vengono presentati due casi clinici a dimostrazione di quanto riferito. Meccanismi molecolari convergenti e divergenti nel dolore e nella depressione – A de Bartolomeis La relazione si apre con presentazione di un lavoro di Baliki pubblicato il 6 febbraio 2008 su "The Journal of Neuroscience", in cui si afferma che non solo la corteccia ma tutto l'encefalo è coinvolto nella percezione e trasmissione del dolore nella depressione. Il relatore vuole indagare sulla comparsa precoce del dolore rispetto agli altri sintomi e la correlazione temporale e la gravità dei sintomi depressivi in relazione alla persistenza del dolore. Tale relazione è anche dimostrata per il dolore morale, durante il quale è presente un'iperresponsività dei sistemi neuronali deputati alla percezione del dolore: da studi sull'infarto emerge che la percezione del dolore in pazienti depressi è maggiore che in pazienti non depressi. Inoltre la componente è maggiormente presente in comorbidità con depressione e disturbi d'ansia, soprattutto disturbo post-traumatico da stress.
In particolare studi con RM evidenziano l'attivazione del cingolato nella decodificazione del dolore. Altri studi su patologie dolorose croniche sottolineano un invecchiamento cognitivo con perdita di sostanza grigia cerebrale. Infine nella depressione e nel disturbo bipolare vi è perdita neuronale, anche in termini di volume, e gliale.
A cura di Davide Prestia e Serena Puppo

SIMPOSIO TEMATICO PARALLELO "LA MEMORIA: RICORDO, RIMOZIONE, DISTORSIONE, OBLIO. DALLE NEUROSCIENZE ALLA PSICODINAMICA"
Moderatori: N.Lalli, G. Bertocci

Intervengono: N.Lalli (Centro di Psicoterapia Dinamica, Roma), A. Seta (Studio di psicoterapia, Roma), S. Mazzoni (Università La Sapienza, Roma), G. Bartocci (Associazione Mondiale di Psichiatria Culturale)
Il simposio si apre con l'intervento di N. Lalli (La memoria: dalle neuroscienze alla psicodinamica), che esamina i vari tipi di memoria e le specifiche funzioni ad esse correlate, come vengono costruiti i ricordi, le patologie e le distorsioni della memoria. Comprendendo come si formano e si consolidano i ricordi, e come si evocano, si può trovare una spiegazione ai disturbi della memoria.
Numerose evidenze sperimentali e cliniche hanno dimostrato l'esistenza di diversi tipi di memoria, ed è proposta una logica classificazione che tiene conto delle basi biologiche: memoria a breve termine (MBT), a lungo termine (MLT), procedurale (MP) o implicita, dichiarativa (MD) o esplicita. Quella a breve termine, chiamata da W. James memoria immediata, corrisponde alla memoria che riguarda sensazioni e percezioni ritenute nella mente da pochi secondi fino a trenta minuti, e che se non è trasformata in MLT porta all'oblio. Se al contrario alcune percezioni sono significative o necessarie, si costituisce la memoria di lavoro, forma particolare di MBT. La memoria a lungo termine contiene i dati di MBT consolidati. 
La memoria procedurale o implicita assolve un compito fondamentale nella formazione di "modelli mentali" che aiutano il bambino e poi l'adulto ad interpretare il presente e prevedere esperienze future. Le strutture coinvolte comprendono amigdala ed altre regioni limbiche (memoria emozionale), nuclei della base e cortex motoria (memoria comportamentale), cortex percettiva (memoria percettiva). Resta un nodo centrale comprendere se la memoria procedurale corrisponda al concetto psicoanalitico di inconscio. La memoria dichiarativa o esplicita è infine quella che comunemente si intende per memoria, in cui il ricordo è accompagnato dalla sensazione e dalla consapevolezza di ricordare. E' distinta in semantica (ricordi di dati, parole, simboli) ed episodica o autobiografica (episodi ed eventi autobiografici e le rispettive relazioni spazio-temporali). Numerosi sono i temi aperti, per esempio il fatto che la memoria abbia una funzione creativa nella elaborazione dei dati, dato di estrema importanza in psicoterapia. Si conclude con la riflessione sull'importanza delle neuroscienze nel campo della memoria, ed un invito ad evitare facili e semplicistiche contrapposizioni tra neuroscienze e psicodinamica.
Segue l'intervento di A. Seta (Memoria, rimozione e inconscio. Vecchi modelli e nuove conoscenze), che intraprende un viaggio, partendo dalle più recenti acquisizioni in neuroscienze, attraverso le definizioni della memoria e dei processi ad essa imputati negli ultimi due secoli, dal modello psicodinamico ottocentesco e le sue evoluzioni fino alle conoscenze attuali, da Freud a Laforgue, fino a Kohut, e all'inconscio creativo di Eagle oggi. L'attenzione in particolare si focalizza sulla rimozione, con attenzione a facili banalizzazioni ed un uso che poco ha a che fare con il contesto psicoterapico. Oggi infatti la psicoterapia sembra prendere la direzione dell'hic et nunc, sottolineando l'importanza della presenza del terapeuta in seduta, in grado di fornire al paziente delle esperienze correttive, e non più la ricerca "banalizzata" e vuota di significato terapeutico di un "trauma infantile" rimoso responsabile della patologia.
Il fatto poi che in occasioni particolari (Abusi sull'infanzia) si ritorni a parlare di cura come recupero della memoria di fatti accaduti può offrire uno spunto di riflessione. Viene ricordata anche la polemica tra Freud e Laforge (1926), sulla necessità di distinguere tra una rimozione fisiologica ed una scissione psicotica che costituisce la "scotomizzazione", nel bambino incapace di modificare la sua affettività da captativa ad oblativa, e la libido è scissa in normale ed autistica (schizonoia). Con un riferimento al testo di Hacking "La riscoperta dell'anima" e l'equivoco sulla dissociazione isterica nella psicopatologia europea, si tratta una problematica molto complessa, come quella del rapporto tra isteria e psicosi. Si conclude con la riflessione sull'esigenza che emerge di cercare un confronto ed una comunicazione tra sviluppo delle conoscenze biologiche, approfondimento storico-critico e metodo psicoterapeutico, per conseguire una pratica diagnostica e terapeutica valida.
Prosegue S. Mazzoni con un intervento dal titolo "Memorie soggettive e memorie condivise: verso una spiegazione razionale dei falsi ricordi", esordisce con l'importanze del contestualismo nello studio della psicologia e della psicopatologia (Cicchetti, Aber, 1998), per la concettualizzazione, l'operazionalizzazione e l'analisi del contesto stesso, nella ricerca dello sviluppo funzionale e disfunzionale del contesto stesso. E' approfondito il concetto dell'intersoggettività; in particolare l'osservazione nella famiglia ha dimostrato che il processo di autoregolazione di ciascun soggetto si realizza nell'ambito di un processo di regolazione più ampio delle relazioni familiari attraverso cui si tende a correlare relazioni non solo diadiche, ma triadiche.
E' necessario comunque chiarire e distinguere tra forme implicite di intersoggettività (interazioni non verbali e presimboliche presenti fin dalla nascita) e forme esplicite (le interazioni verbali che permettono alle famiglie di costruire rappresentazioni condivise della realtà e delle relazioni. Durante tali processi ogni famiglia costruisce un sistema di credenze familiari, e si è rilevato che le famiglie hanno una funzione di memoria che va al di là delle credenze e delle memorie singole di ciascuno dei membri, e le narrazioni familiari vengono a far parte dell'esperienza soggettiva anche quando il soggetto in questione non ha ricordi diretti. E' stato presentato un esempio clinico della funzione e della fedeltà del mito familiare, che può portare anche a forme di disadattamento e patologia.
Conclude il simposio l'intervento di G. Bartocci dal titolo "Le credenze culturali nella costruzione della memoria", che introduce e sviluppa il tema delle credenze religiose e spirituali, ma sarebbe meglio allargare e definire culturali, nei confronti del funzionamento psichico. Esse formano un complesso di condizionamenti che influenzano non solo il clima psicologico di un contesto sociale, ma anche il funzionamento cerebrale sul piano biologico. Ricorda inoltre l'importanza della Psichiatria Transculturale e l'importanza di una cornice teorica di riferimento, riprendendo dalla cibernetica il concetto che dalle complessità emergono qualia da un substrato che nulla ha a che fare con essi: allo stesso modo nel sistema nervoso centrale si può parlare di monismo biologico con dualismo epistemologico.


A cura di M. Fenocchio

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