IL SIMBOLO COME RISCHIO PSICOTICO
PROF BRUNO CALLIERI
La scelta di tale argomento, a detta del prof. Callieri, assume una rilevanza fondamentale laddove, nei nostri pazienti, si verifica una crisi del simbolo.
“Il simbolo si pone come simulacro della relazione tra il nostro discorso sulla psiche e il discorso della nostra psiche, cioè si dà come il motore della segreta logica affettiva che rimanda da un testo all'altro, in un continuo dialogo”
Per queste ragioni appare fondamentale il contributo del pensiero di Erst Cassirer, il quale, muovendo dal simbolismo algebrico, si aprì la via ad una interpretazione più vasta, non solo limitata alla fisica, di tutte le attivià umane come creatrici di simboli.
Nella “Filosofia delle Forme Simboliche” (E. Cassirer, 1923-1929), prosegue il prof. Callieri, l'autore scopre che l'uomo si muove in un universo d simboli.
L'uomo, invece di trattare direttamente con le cose, le coglie, le esperisce e le decifra tramite un costante dialogo con se stesso, ossia vive e fa, sente e riflette, immerso in un'atmosfera densa di emozioni ed immagini.
A tal proposito è fondamentale riprendere il concetto di “paticità dell'immaginazione”, espresso da Muratori nel suo libro “Della forza della fantasia umana”, ossia l'accedere all'intelletto, alla noesi, con sentimenti, fantasie, speranze, timori, attese ed evitamenti.
Per Jung il simbolo è “corpo vivo ed anima”.
Il mondo della vita è pregno di simboli e, se il segno fa parte del mondo fisico delle cose e degli animali, il simbolo partecipa del mondo degli uomini e della cultura, librandosi in uno spazio e in un tempo “vissuti”.
La “memoria simbolica”, come la chiama Cassirer, si attua proprio in tali forme spazio-temporali vissute e in esse ricostituisce, in forme coerenti, la dispersione dei dati sensibili.
Va ricordata, a tal proposito, la “polarità del simbolo”, ossia il fatto che il simbolo affermi in termini “coglibili” ciò che è “incoglibile”, ossia la ricchezza della vita interiore.
Per Freud il simbolo è l'occultamento della verità, ossia la relazione che unisce un contenuto manifesto di un pensiero o di un comportamento, etc. al suo senso latente; invece in Jung è l'immagine che designa il meno peggio possibile la natura oscura della psiche conscia ed incoscia, mantenendo in costante allerta la tensione dei contrari, che è alla base della nostra vita psichica e che rimanda al di là di se stessi verso un senso che è ancora incoglibile.
Il linguaggi simbolico tende a dire sempre di più con una dimensione progettuale, ma anche con l'evidente possibilità di fraintendimenti dell'ermeneutica sul simbolo e di ambiguità della produzione della mente simbolica.
Il simbolo incita l'inconscio alla partecipazione, alla “metessi”, come una parte vivente del nostro essere in trasformazione.
A contemplare il simbolo è lo psicopatologo, che contempla anche la traiettoria vissuta, in quanto lo specifico del simbolo è di restare indefinitamente suggerente e suggestivo, consentendoci, come dice Ricoeur, di trascendere la letteralità per arrivare al senso primario, ossia il deciframento dei simboli ci conduce verso le insondabili profondità del “soffio primordiale”.
L'intelligenza dei simboli e dell'attività simbolopoietica non è mai acquisita una volta per tutte. Il simbolo ha una grandiosa ricchezza sintetica, in quanto ci rivela la simultaneità dei sensi. In accordo con Jung, prosegue il prof. Callieri, si può affermare che l'upmp crea simboli in modo inconscio e spontaneo, forse per tentare di esprimere l'invisibile e l'ineffabile, ossia ciò che non sa esprimere a parole. Cosa risciamo parlando di simbolo? Che rischio inerisce al simbolo? Il rischio che si corre lo possiamo vedere nell'esperienza dello psicotico, nel malato, di colui che si apre alla psicosi. Prima di affrontare tale argomento, però, è importante sottolineare quali sono le funzioni del dinamismo del simbolo:
– la “funzione esploratrice”, come una testa di ponte proiettata verso l'ignoto, polisemica nell'avventura spirituale umana;
– la “funzione di sostituzione”, destinata a far entrare nella coscienza, sotto forma camuffata, certi contenuti che non potrebbero pervenirvi in altro modo;
– la “funzione mediatrice”, per cui il simbolo è un vero e proprio ponte fra gli opposti( es. reale e sogno, natura e cultura, inconscio e coscienza).
Il simbolo, quindi, come fattore di equilibrio che esercita un'azione efficace sul piano dei valori e dei sentimenti, come forza unificatrice, come fattore di integrazione personale sempre, però, con il rischio di sdoppiamento della personalità, di induzione della frammentazione del sé, della falsificazione del passato.
Il simbolo come portatore di un al di là del pensiero, “cifra allegorica” di un mistero, mai spiegato una volta per tutte ma sempre ulteriormente da decifrarsi: “doppia sintassi” o doppio versante del simbolo.
Come osserva Di Petta, ne “Il mondo sospeso”, nulla ha più un significato perché tutto può avere significati diversi: la fiducia nel proprio mondo interno viene del tutto a smarrirsi e si cade in preda alla più radicale frammentazione del “senso”(Lenz) e del significato.
A tale condizione di rischio si trova esposta quella persona, quella “presenza” (come preferiva dire Cargnello), che viene a vivere quell'esperienza unica che, da Jaspers in poi ed in particolare da Blankenburg, viene indicata come “esperienza (delirante) primaria di significato”.
Nel mondo vissuto del delirante l'Erlebnis, ossia la cosa che si sta vivendo, diviene, da esperienza all'inizio settoriale, esperienza che poi ingloba tutto.
Lo psicotico non “crede che” ma “sa che”, progetto e destino, opposizione e composizione coincidono e questo è ciò che, come notava Jaspers, ci mette in scacco di fronte a lui. Il simbolo tende a trovare significati sempre più profondi di te, in cui il linguaggio è sommerso nell'attività imperiosa del trasferimento.
Ciò che dice lo psicotico a noi sembra privo di senso, di nessi consequenziali ma per quella persona i nessi ed il senso sono pienamente presenti per cui a noi tocca il compito di decifrare.
Il rischio psicotico del simbolo è il rischio da cui nessuno di noi è immune.
La storia interiore di vita, cioè come organizzo dentro di me le esperienze fondamentali della mia vita, la struttura di personalità, i crolli dipendenti da avvenimenti, mettono in risalto la continua mobilità inerente il simbolo, la natura collettiva ed individuale del simbolo, l'incoglibilità e la intelligibilità, ossia la natura del simbolo stesso.
A questo riguardo è importante riprendere il concetto espresso da Piro a proposito della pregnanza del linguaggio schizofrenico non solo come alienato ma “significante per vie diverse dalle solite”. Per concludere non posso non citare Erasmo Da Rotterdam ed il suo “Elogio della follia”, denso di figure simbolopoietiche.
“GUARIRE È UN IMPROBO RECUPERO DI FORZE PER AVVERTIRE UN PO' DI ETERNITÀ”
PROF. CORRADO PONTALTI
“Ci tenevo a precisare che il titolo della mia relazione è una frase di Alda Merini. Ci tenevo a condividere con voi il percorso di riflessione che mi ha portato all'incontro di oggi, a partire da un articolo letto su La Repubblica, dal titolo “Il poeta sulla nave dei folli”, scritto dalla Merini stessa, in occasione della edizione del libro “Corrispondenza negata-Epistolario dalla nave dei folli””.
Le due cose che mi hanno colpito e commosso di più in quest'articolo sono le parole “fiducia” e “speranza; la Merini, infatti, dice che i pazienti scrivevano ai loro cari ed i familiari ai pazienti e, anche se quelle lettere non sono mai state recapitate, ciò che contava di più era la speranza che un giorno un amico potesse venire a trovarli o che un familiare potesse decidere di esaudire un desiderio espresso.
Laddove il simbolo è legame, come osserva Ales Bello, il corpo è come una trama che può essere lo scritto, la parola a distanza, un segno grafico, cioè tutto ciò che connette. P. Ricoeur, citando Gadamer, diceva che la sola possibilità narrativa che abbiamo è quella di muoverci in una posizione di attesa, guardando al futuro come ad un intreccio sul quale dobbiamo rimanere nel nostro lavoro di “psi-“.
Le lettere ai familiari sottolineano come la distanza riportasse quelle persone ad una sorta di senso della perdita dei propri cari, degli affetti, delle persone che avevano popolato il loro mondo, quel mondo della vita che rappresentava la loro identità.
Infatti, il cosiddetto e a volte disprezzato “mondo comune” altro non è che il mondo della comunità, quella comunità che racchiude il senso della comunità stessa e dell'individuo che è in rapporto con quella comunità.
La famiglia è un luogo misterioso, è l'insieme di persone che producono simboli e tali simboli sono strettamente radicati al corpo. Per cui parlare in termini di “figure materne o paterne”, toglie ai padri ed alle madri, che sono persone fisiche, la loro funzione di portatori di un sapere che attiene al luogo di costruzione della persona.
Che fine abbiamo fatto fare alla famiglia “comunità” in questi ultimi 40 anni? Se la vita schizofrenica è sradicamento dal corpo, la separazione diviene la negazione alla possibilità di ridare senso all'esperienza e se la famiglia comunità rappresenta il luogo strutturale del simbolico, occorre recuperare il contributo dato dai familiari nelle storie cliniche che quotidianamente affrontiamo per poter essere di aiuto ai nostri pazienti.
Il confine della vita è presidiato da tutte le persone che fanno parte della nostra storia, la storia interiore di vita, per cui è necessario creare una dialogabilità possibile laddove c'è solitudine ed isolamento, laddove cioè si sono interrotte le trame di significazione di un individuo, che è fatto di relazioni e che in tali relazioni, soprattutto familiari, può riscoprire il senso di se stesso.
Per ricostituire le connessioni interrotte che in un paziente hanno procurato l'angoscia della perdita del senso della propria storia e del mondo della vita, abbiamo bisogno di un continuo dialogo con le persone che fanno parte di quella storia di vita e che possono aiutarci a comprendere quel “senso del senso” che è in un altrove dei nostri pazienti, ossia all'interno della “comunità famiglia”.
Giovanni Stanghellini
La riduzione apolinnea e la schizofrenia
La relazione intende fornire tre letture fondamentali della schizofrenia, di quella fase della patologia che precede il delirio (l' ”atmosfera predelirante”), stabilire così un parallelo tra gli aspetti più salienti di quest'ultima e tre modelli di riduzione: la riduzione eidetica, lariduzione trascendentale e la riduzione apollinea.
Ad ogni modello di riduzione corrispondono, continua il professore Stanghellini, un fenomeno clinico ed un dispositivo antropologico.
Nel modello della riduzione eidetica il momento del pre-delirio schizofrenico è inteso come un disturbo della simbolizzazione nel suo fenomeno clinico. Il concetto fondamentale è che ciò che dà inizio al delirio schizofrenico è una “destrutturazione della percezione del mondo” (Gruler 1832). Un frase che può essere considerata riassuntiva di questo concetto è la seguente di Jaspers “qualche cosa sta accadendo. Ditemi per favore che cosa sta accadendo”. Citando Callieri (Quando vince l'ombra), e i concetti di sospensione del compimento del significato e di dissoluzione di contenuti trascendentali e simbolici, il prof. Stanghellini giunge ad individuare la mente come un repertorio di significati e quindi il disturbo schizofrenico come un “difetto”, un' ”anomalia” nell'attribuzione di significati. Ciò che Blankenburg definisce “abdicazione dal senso comune”, Callieri definisce “dissoluzioni di strutture categoriali fondamentali” e Wiggins, Schwartz e Northoff definiscono “erosione radicale del soggetto costituente”.
La riduzione eidetica si configura così come una pratica in cui il fenomenologo-continua il professore- cerca di perdere il senso di familiarità con il mondo, alla ricerca dello “spalancarsi del significato essenziale di un oggetto”. Nel modello della riduzione trascendentale (Sass, 1992) il momento del pre-delirio schizofrenico è intriso di una profonda trasformazione del rapporto tra sé e il mondo. I fenomeni clinici corrispondenti sono una profonda anomali della coscienza pre-riflessiva e il solipsismo (riassumibili nel concetto di iperriflessività). La coscienza è qui rivolta esclusivamente a se stessa nell'atto di costruire gli oggetti. Nella schizofrenia quindi c'è un passaggio fondamentale dal noema, in cui la mente è rivolta al mondo in un processo naturale, alla noesi, in cui la mente è rivolta esclusivamente a sé.
Nel modello della riduzione apollinea la condizione schizofrenica può essere riassunta in due dispositivi: i corpi dominanti e gli spiriti disincarnati, come due facce opposte della stessa medaglia. I corpi dominanti sono corpi che hanno perso il contatto con sé stessi, con la propria carne, intesa come Io-agente, nell'ottica della perdita della coscienza di sé pre-riflessiva. Gli spiriti disincarnati esperiscono invece sé stessi come essenze spirituali che vedono il mondo nella prospettiva di una terza persona e\o di uno sguardo dal nulla. Nel modello della riduzione apollinea il fenomeno clinico corrispondente è quello della disincarnazione (disenbodiment).
Sass, per spiegare meglio il concetto di riduzione apollinea, ripercorre concetti propri di Nietzsche e la definisce una tendenza verso forme contemplative di esistenza alla ricerca di una forma di percetto, alla ricerca di una separazione di sé dal mondo e del sé da altri da sé. Rifacendosi poi ad Heidegger riprende la tematica del significato di un oggetto, cioè il modo in cui utilizziamo l'oggetto fa conseguire il significato, che ha quindi a che fare con il rapporto che un corpo ha con un oggetto. Il significato è quindi il tipo di relazione che io instauro con un dato oggetto.
Il dispositivo antropologico del modello della riduzione apolinnea è dato dall'impulso vitale (Max Scheler 2008), “una pulsione fondamentale che mi lega al mondo e mi impegna nel mondo”. riferendosi al tema dell'espressività del gesto altrui. Ciò che accade nell'esperienza schizofrenica è che gli oggetti ci sono e sono sostanzialmente contemplabili, perdono qualsiasi rapporto con il significato. In sé questa è una forma di riduzione molto radicale, di tipo cognitivo, riconducibile alla riduzione dell'impulso vitale. Infatti senza quest'ultimo esiste solo la contemplabilità e di conseguenza la perdita del significato.
Il professore Stanghellini chiude la sua relazione portando un esempio di riduzione apollinea tratto dalla clinica, riprendendo le parole di Reneè in “Diario di una schizofrenica”. Nello scritto coesistono e si dispiegano in tutta la loro profondità i fenomeni della cancellazione dei significati pratici delle cose, la cancellazione del significato del gesto altrui, la metamorfosi dello spazio che appare infinitamente dilatato perchè gli oggetti hanno perso il rapporto tra loro e non hanno alcun rapporto con il corpo.
Prof. Lorenzo Calvi
Spiritualità e follia. Spiritualità o follia.
Quando si comincia a riflettere sul tema della spiritualità ci si trova a dover consentire sul fatto che della spiritualità non si ha un'esperienza diretta. Se appare giustificato parlare della spiritualità come di una cosa immediatamente percepibile e quindi ovvia, bisogna rendersi conto che tanto ovvia non è. A prima vista sembrerebbe che l'unico criterio di individuazione della spiritualità sia quello di procedere per esclusione, definendo così spirituale tutto ciò che è estraneo al materiale.
Sul concetto del versante materiale della realtà si può aprire una riflessione che porta al concetto ci coesione. Osservando il mondo da una posizione nuova, ci si rende improvvisamente conto che tutta la realtà che ci circonda è coesa. La coesione è una qualità ovvia delle cose, abitualmente inavvertita. E' ovvia nel senso che è alle cose ontologicamente connaturata. Senza la coesione non si potrebbe né vedere né toccare una cosa. E anche della coesione si può parlare. In questo senso la coesione si prospetta come un fenomeno. Nel momento in cui la coesione delle cose si fa evidente agli occhi è inevitabile rendersi conto che ci si trova immersi nel mondo della vita. La nozione di mondo della vita si ricava dal pensiero di Husserl, dove si contrappone al mondo della mondanità (mondo dell'uso e del consumo). Quello della vita è il mondo della relazionalità, dell'empatia, delle emozioni e degli affetti. Scoprire la coesione vuol dire riflettere sulla relazionalità interna delle cose, vuol dire vederle nel loro incessante farsi, disfarsi e rifarsi. Riflettere sulla coesione vuol dire partecipare non alla loro struttura fisica ma al lavorio intenzionale della loro interiorità fenomenica. La coesione non è apparenza e non è apparizione, perché non appartiene alla superficie anche se si coglie attraverso la superficie.
Di coesione non si può parlare nei termini del concetto di formatività, prodotto da meccanismi psicologici conosciuti e riconducibili a precise connessioni neurali. Non è possibile, continua il prof. Calvi, parlare di coesione né sul piano biologico né sul piano psicologico. Occorre parlarne su di un altro piano, forse proprio quello spirituale su cui si sta riflettendo. A questo piano appartiene un'area che confina col cervello lungo una linea mobile sincronicamente e diacronicamente. L'esercizio insito in questa riflessione consisterebbe nel soffermarsi sul confine tra lo spirituale ed il materiale. Ma questo tentativo sarebbe turbolento, e necessiterebbe di un aggiornamento continuo. Si volge quindi l'attenzione su quello che è, almeno per assonanza, l'abitante del mondo dello spirito, l'Io trascendentale. Mentre non c'è dubbio che la follia rompa la rappresentazione coerente della realtà, ci si domanda se essa abbia effetto sulla coscienza immediata di sé, sulla pura coscienza dell'io come soggetto. Binswanger afferma che nella malattia mentale si manifesta un disfunzionamento della temporalità, con ogni sorta di possibili conseguenze per la costituzione della presenza.
Ma l'Io trascendentale continua legittimamente a dire “io” . Il punto fondamentale da superare è la distinzione tra io empirico e io trascendentale. Fin tanto che si fa riferimento al loro fungere, l'io empirico e l'io trascendentale si distinguono nella stessa misura in cui si afferrano come distinte le loro rispettive sfere, quella fattuale e quella intenzionale. A livello di senso comune si potrebbe credere che nell'esperienza quotidiana non ci sia distinzione tra la sfera fattuale e quella intenzionale. E' nell'esperienza quotidiana che si assiste al dialogo tra chi cerca di descrivere i fatti il più possibile spogli di soggettività e chi li propone senza tregua con tutto un alone di soggettività e di relazionalità affettiva. Ricorrono continuamente situazioni nelle quali il contrasto tra il piano fattuale e quello intenzionale non potrebbe essere più evidente. Chi si attiene, o cerca di attenersi il più possibile al piano fattuale individua il suo punto di forza nella materialità delle cose. Chi al contrario dimostra di avere un approccio alla realtà preferibilmente relazionale, dà conto non solo dell'interiore riflessione ma anche del dialogo di una stratificazione di affetti corrisposti e non, di volizioni realizzate e non. Chi si trova di fronte ad un interlocutore di questo tipo intuisce facilmente che la sua collocazione esistenziale trascende la sfera naturalistica e che egli vie quest'ultima come la sede del legame, del limite, del peso. E' nella transizione dall'una all'altra verità che si cela il rischio di un possibile adito al delirio. Ed è uno dei luoghi dove può farsi strada la “verità privata” (cit. Ballerini). Tra la verità pubblica e la verità privata bisogna cogliere l'opportunità di far emergere la verità ermeneutica. Secondo Barison essa non è né dimostrabile né confutabile. Non è una verità scientifica, così come le altre due.
E' compito della filosofia rendere conto in modo esaustivo della realtà, sia attuale che intenzionale. L'esercizio fenomenologico cerca di illuminare la realtà mediante un'approssimazione mimetica. Procedendo per successive riduzioni il fenomenologo rispetta la formatività complessa, ambigua e labile del mondo e soffre l'angoscia nell'affrontarla. Il fenomenologo mette in luce gli slittamenti di piano resi possibili dal succedersi non rigido delle riduzioni, le confusioni tra il metaforico e il letterale: tutte fuoriuscite dal solco, che possono verificarsi sempre, ma che prendono piede quando fragilità e lacune biologiche sono pronte ad accoglierle.
Il pomeriggio è proseguito con il Prof. Casacchia che ha presentato una relazione dal titolo: Golden Beauty e psicopatologia.
In principio erano i deficit cognitivi: Deficit cognitivi, “core” sintomatologico della schizofrenia
I deficit cognitivi sono un aspetto centrale della schizofrenia e non sono causati da altre caratteristiche del disturbo (“Understanding and Treating Cognition in schizophrenia” Harvey, 2002).I deficit neurocognitivi sembrano rappresentare un elemento molto importante che giustifica la predisposizione a sviluppare tale malattia. Il deficit neurocognitivo sembra essere una caratteristica geneticamente connessa alla schizofrenia Il ponte più importante tra cognizione e il rapporto della persona col suo mondo è rappresentato dalla presenza di una attività cognitiva, definita cognizione sociale.
Ma che cos'è la cognizione sociale? La cognizione sociale rappresenta una funzione mentale necessaria per rapportarsi con gli altri e promuovere lo scambio intersoggettivo che matura col tempo; Tale funzione infatti è presente nell'uomo tra il 4° e il 6° anno di vita.
La social cognition viene definita come quell'insieme di processi che permettono al soggetto di comprendere il mondo interpersonale e trarne benefici. Questa facoltà consiste in 4 abilità fondamentali: capire cosa pensano gli altri, capire cosa provano gli altri; riconoscere i ruoli e le regole che dettano le relazioni sociali; condividere quello che provano gli altri!
Passiamo ora a parlare di Cognizione sociale e schizofrenia : I deficit di cognizione sociale compromettono il funzionamento sociale e lavorativo di soggetti affetti da schizofrenia .
La cognizione sociale è un endofenotipo infatti i deficit di cognizione sociale possono essere presenti, seppur in misura minore, anche nei familiari dei soggetti affetti, aprendo un fronte di ricerca di grande interesse. un contributo importante alla comprensione e alla localizzazione neuronale della cognizione sociale è stato dato da studi relativi al confronto tra soggetti con schizofrenia e soggetti con lesione cerebrale
Vi è stata una recente rivoluzione pubblicata nell'articolo: A unifying view of the basis of social cognition Vittorio Gallese, Christian Keysers and Giacomo Rizzolatti TRENDS in Cognitive Sciences Vol.8 No.9 September 2004: secondo tale teoria, la comprensione delle azioni e delle emozioni altrui dipende dall'attivazione del sistema Neuroni Mirror (area F5 nella corteccia frontale inferiore); esiste nel nostro cervello un meccanismo neuronale che ci permette di comprendere il significato delle azioni e delle emozioni altrui attraverso il meccanismo di replicazione ('simulazione') senza nessuna riflessione esplicita di tipo consapevole.
La scoperta dei Neuroni Mirror ha permesso di passare dallo studio della cognizione sociale all'empatia e recentemente i processi mentali legati alla cognizione sociale sono stati rivisitati in ottica dissociativa Siamo certi infatti che esista una Teoria della Mente :i primi studi sulla Teoria della Mente (Wimmer e Perner, 1983) dimostrano che bambini di età compresa tra 3 e 5 anni sono in grado di risolvere un compito di “falsa credenza”.Siamo anche certi che esista un empatia cognitiva .
L'empatia tra gli esseri umani molto più che puro contagio emozionale richiede numerose capacita cognitive incluse la capacita di mettersi sia in prospettiva dell'altro.
Il termine empatia cognitiva si può spiegare nel seguente modo”io comprendo quello che tu senti”
Siamo sicuri che esiste un contagio emozionale? Si pensa che il contagio emozionale sia fondamentale da un punto di vista evolutivo: “Io sento ciò che senti anche tu”.Sembra essere presente anche negli animali e molto vantaggioso per la specie.
Passiamo ora a parlare della cognizione sociale e la comprensione dei bisogni dell'altro: lo studio della cognizione sociale nelle sue articolazioni permette di cogliere le difficoltà relazionali della persona, gli ostacoli a mettere in atto un rapporto autentico intersoggettivo, il suo isolamento, la sua solitudine, presente anche nei primati non umani. Ciò comporta un cambiamento dei Paradigmi Sperimentali: I paradigmi sperimentali di cognizione sociale si sono evoluti da compiti carta e matita a compiti computerizzati per apprezzare più facilmente le difficoltà nell'empatia (condivisione delle emozioni); Tale cambiamento permette di utilizzare tali paradigmi sia nell'ambito della registrazione mediante Potenziali Evento-Correlati sia nella Risonanza Magnetica Funzionale.
La cognizione sociale è stata valutata attraverso le seguenti procedure: Riconoscimento di emozioni e correlati neurofisiologici; Meccanismi neuronali del gusto e del disgusto; Stimoli piacevoli e spiacevoli e neuroimmaging; Studio sulle mutilazioni; “Piacersi”; Golden beauty
Analizziamo alcuni di questi punti:
Il disgusto: Il disgusto è un'emozione di base con una forte valenza comunicativa ed è un'emozione di base facile da indagare.L'insula sembra mediare sia il riconoscimento che l'esperienza del disgusto e tale dato è supportato da studi clinici che dimostrano che in seguito a lesioni dell'insula i soggetti presentano gravi deficit nella comprensione del disgusto quando è mostrato dagli altri.
Il nostro “senso empatico” guida anche le nostre preferenze: Studi recenti dimostrano che la conoscenza e la valutazione dei rapporti intersoggettivi non dipendono solo da un processo di ragionamento in base al quale capiamo quello che l'altro pensa o sente, ma anche in base alle affinità con il prossimo; Quando ci immedesimiamo in qualcuno che percepiamo per qualche motivo a noi affine, si attiva la stessa area cerebrale che utilizziamo per riferirci a noi stessi. Ci appassioniamo verso persone che sono affini a noi per questioni, per esempio, ideologiche, politiche o religiose. Tale fenomeno non si verifica se abbiamo a che fare con persone distanti da noi per questioni, per esempio, ideologiche, politiche o religiose. A dimostrarlo è lo studio di Adrianna Jenkins, studente di Psicologia presso l'Università di Harvard, condotto tramite risonanza magnetica funzionale (fMri), e pubblicato su Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences). Capiamo di più chi ci piace perchè lo percepiamo più simile a noi stessi Studi recenti hanno evidenziato come le persone sviluppano un senso estetico, inteso come armonia delle forme e del bello, inteso come proporzione. Si parla del Golden beauty: valutazione della neuroestetica. Vediamo in dettaglio l'esperimento: E' stato costruito un compito composto da 44 immagini, raffiguranti rispettivamente 22 statue originali e 22 statue con proporzioni modificate. Le immagini vengono somministrate attraverso il programma Super Lab con un tempo di latenza di 4000 ms. Nella schermata compare prima una x per focalizzare l'attenzione dell'osservatore sullo schermo (CUE), poi l'immagine, e poi un punto interrogativo. Nell'esperimento comportamentale i soggetti non appena vedono il punto interrogativo devono valutare con un punteggio su una scala da 1 a 7 (1 molto bello e proporzionato; 7molto brutto e sproporzionato; 2-3-4-5-6 votazioni intermedie) la piacevolezza o la spiacevolezza dell'immagine che hanno appena visionato. Lo studio dimostra che esiste un parametro specifico che i soggetti sani posseggono che permette loro di riconoscere ciò che è oggettivamente “bello” da ciò che non lo è.Quando un soggetto osserva uno “stimolo” in cui tale parametro è alterato, ciò produce una mancata attivazione di una specifica popolazione di neuroni dell'insula anteriore che si attivano solo quando vi è il riconoscimento di stimoli che rispondono ai canoni del bello . I soggetti con schizofrenia evidenziano una differenza significativa (p<0,000) nel giudizio estetico rispetto agli ai soggetti sani confrontati per età e scolarità . I soggetti sani impiegano piu tempo nel individuare i difetti nella proporzione e sembrano aver bisogno di più tempo per analizzare lo stimolo rispetto ai soggetti schizofrenici. I dati sono da considerarsi tuttavia preliminari a causa del basso numero di soggetti.
Arriviamo alle conclusioni:
1) la cognizione sociale è fondamentale per buoni rapporti intersoggettivi;
2) l'empatia modello biologico delle emozioni si fonda sui neuroni specchi,
3) le neuroscienze aiutano a cogliere gli aspetti nascosti delle nostre emozioni e delle risposte emotive agli stimoli ambientali(gusto/disgusto, piacevole /spiacevole, bello/brutto);
4) il modello della Golden Beauty insegna che esiste una bellezza soggettiva e oggettiva;
5) la sensibilità alla armonia potrebbe essere un fattore diagnostico per alcuni pazienti con sintomi psicotici;
6) sarà utile studiare l'eventuale correlazione tra appannamento delle emozioni nei riguardi della realtà e sintomi negativi;
7) il training per migliorare la sensibilità a cogliere gli aspetti armonici e disarmonici può servire a migliorare le scelte;
8) l'osservazione da parte del paziente di movimenti armonici e la loro imitazione può risultare utile per sentirsi più adeguati e soddisfatti del proprio nello spazio
ANTONELLO CORREALE
Il linguaggio copre l'emozione o qualcosa resta fuori?
Il tema del linguaggio e della sua possibilità di coprire la realtà esterna ed interna è un tema antichissimo.
La tesi sostenuta è che il linguaggio non riuscirà mai a coprire la spinta vitale che contiene. Questo è il grande problema della vita psichica: come mettere insieme la dimensione simbolica e quella energetica. Come si può colmare questo inevitabile iato?
La domanda da cui parto per introdurre il resto del discorso è: cosa avviene alla persona che nella vita infantile subisce una relazione traumatica? Per trauma si intende un'emozione così potente da trasmettere una profonda solitudine, da creare una lacerazione delle coordinate spazio-temporali, da introdurre una discontinuità radicale, un senso di infinitezza, un sentimento di possibile morte. Si tratta di un'esperienza che si può raccontare ma che il soggetto continuerà a sentire dentro di sé, sulle sue spalle.
A seguito di tali esperienze le emozioni possono essere rimosse, dissociate, non integrate. Emozioni primitive come la paura e la disperazione possono essere trasformate in rabbia. Saltano fuori immagini come demoni e il paziente utilizza espressioni come: “è stato più forte di me” oppure “non so come mi sia accaduto”.
Tutto questo non ha nulla a che fare con l'extraterritorialità che caratterizza le esperienze psicotiche. Se il border delira il suo potremmo a grandi linee dire che sarà un delirio laico a differenza di quello mistico dello psicotico.
Il linguaggio si rivela insufficiente per descrivere le emozioni conosciute ma non pensate. Si vuole attribuire al linguaggio una funzione catartica, ma non sempre è scontato pensare che parlare aiuti.
Tutte queste notazioni hanno lo scopo di evitare di riporre una fiducia illimitata nel linguaggio. Il narrare può solo indicare e rendere un'esperienza attutita, ma non potrà eliminarla. Freud ad esempio sosteneva che la sessualità ci trascenderà sempre.
In seduta quale modalità ci consentirà di colmare questo gap , questa separatezza tra oggetto e vita interiore?
A questo proposito è utile riappropriarsi dell'invenzione winnicottiana degli oggetti transazionali. Winnicot sostiene che oltre alla dicotomia assenza /presenza esiste una terza via, quella di un oggetto che prende il posto di una persona. L'aspetto interessante è che il bambino non si accontenta di un orsacchiotto qualsiasi ma vuole proprio quell'orsacchiotto. Questo a testimoniare che gli oggetti sono emozioni incarnate dentro di noi. La vita è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti gli oggetti transazionali. Attraverso oggetti transazionali comunichiamo emozioni. Senza oggetti che diano carne e sostanza alle nostre emozioni rimarremmo senza ancore. Per questo nel lavoro psicoterapico con il paziente borderline è molto confortante soffermarsi su ciò che il paziente porta al fine di rendere vivi gli oggetti della sua vita. Si condividono intense emozioni mettendo in comune oggetti.
Accanto alla ricostruzione del trauma antico, accanto alla dimensione cognitiva è importante costruire con questi pazienti un archivio di oggetti transazionali condivisi perché non basta la conoscenza dello schema, occorre creare intorno allo schema un mondo vivo.
La linguistica veicola l'esperienza sensoriale ma alcune emozioni le possiamo vivere solo attraverso oggetti reali.
FILIPPO MARIA FERRO
PSICOPATOLOGIA E CRITICA D'ARTE A PARAGONE
Fortunato Duranti è uno straordinario artista di Montefortino poco noto per certi versi e notissimo per altri poiché di lui si sono occupati molti illustri critici: da Roberto Longhi a Federico Zeri a Stefano Papetti.
A sorprendere è la serie di notazioni, di pensieri, di commenti che accompagnano molte immagini, come se invenzione grafica e scrittura fossero qualcosa che strettamente inerisce e si compenetra a livello della struttura. Un abbinamento stupefacente, volto a legare in mod indissolubile espressione e scrittura in un unico percorso di linguaggio, rendendone evidenti confusioni, accelerazioni, slittamenti e mettendone in luce dissoluzioni e enigmatici blocchi. Federico Zeri è rimasto impressionato “dalle insensate scritte che egli stesso appose in calce a molti dei suoi disegni…prive di ogni costrutto, esse non hanno altro significato che quello di improvise quanto irrazionali sortite di una mente che al filo della conseguenza logica ha sostituito l'incessante spezzarsi e riprendersi casuale di frammenti eterogenei, estratti e mescolati dal fondo dei sentimenti della memoria da emozioni improvvise, da esperienze personalissime, incomunicabili”.
Ad esmpio in due casi compare in Duranti il termine “sdegni”. Una volta è associato a psiche e posto a commento di una figura in volo di ambigua identità di genere: “DI QUELL PSICHE/ DI QUEL SDEGNO/ e di Mercurio un ambo manda”. In un altro foglio, con creature alate ispirate a Raffaello ma divenute angeli sterminatori, “sdegnio” è abbinato a gioventù e a vento. La parola vento ha a che fare con il vento della rivoluzione francese e con la vicenda biografica di passaggio dal neoclassicismo al romanticismo ma anche con qualcosa di più profondo scavato nell'animo. L'artista sembra alludere ad un risentimento che si è scavato lentamente nel profondo, dentro le trame della storia antica, incubando a lungo, per poi esplodere di fronte al precipitare degli eventi, esterni e interni. Già in altra occasione, mi è occorso di imbattermi in un fenomeno analogo, ed è stato allora a colpirmi il taccuino di un pittore della scapigliatura lombarda, Daniele Ranzoni, il qual esplicitamente, sono parole sue, voleva dar forma a “pezzi di buio”.
Si assiste, per Duranti come per il ricordato Ranzoni, a quel fenomeno che J. Lacan ha identificato quale peculiare elemento della struttura psicotica: lo slittamento dl significante e il rivelarsi così, l'aprirsi di una scena dove le aree traumatiche (nel senso di Antonello Correale) affiorano, ora con bruciante passione ora quale sommesso mormorio.
Duranti porta ad un confronto tra due saperi che hanno punti in comune ma anche una loro specificità: il sapere psicopatologico e il sapere della critica dell'arte. Entrambi i saperi procedono con il metodo del paradigma indiziario. Per il connoisseur è molto stimolante ricostruire il percorso di un artista quando quando non se ne conosce il nome e sono note solo alcune tappe. Questa ricostruzione non porta mai a delle etichette di patologia/non patologia. Ciò che è importante è entrare in relazione con. Ciò che possiamo fare è metterci in relazione con una visione del mondo. Sono i dettagli che vanno valorizzati perché marcano la visione del mondo. Freud per primo ci ha insegnato che un dettaglio può essere illuminante per noi e per il paziente.
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