1. I fondamenti del paradigma psichiatrico.
All’alba del XIX secolo, l'affermazione del sapere alienistico, con il suo corollario pratico rappresentato dal sistema di internamento manicomiale, ha certamente cambiato le connotazioni di fondo della follia ed ha profondamente trasformato la percezione collettiva di normalità e di disagio psichico. L’inserimento di taluni comportamenti e di certe manifestazioni fisiche e verbali all’interno di precisi schemi nosografici e di puntuali modelli teorici, la trasformazione cioè di determinati segni in sintomi psichiatrici, è stato un processo denso di profondi significati culturali. Queste importanti trasformazioni hanno preso l’avvio, all'indomani della Rivoluzione francese, in seguito alle elaborazioni di Philippe Pinel, alienista francese del gruppo degli idéologues. Pinel approfondisce la dimensione sensitiva, affettiva ed emozionale dell'essere umano e concentra la sua attenzione sui difetti delle funzioni intellettive. L'innovazione di maggior rilievo consiste proprio nello spazio che Pinel dedica allo studio della formazione delle idee, delle passioni e delle emozioni, ossia alle funzioni affettive ed intellettive: a suo avviso, la malattia mentale deriva da un'esaltazione abnorme della sensibilità; essa è infatti il risultato di una forza emotiva troppo sviluppata, delle passioni non governate o di un’immaginazione altrettanto smodata. Il progetto terapeutico consiste pertanto nel saper moderare, contenere e ri-orientare questi eccessi e queste disarmonie. L'alienazione mentale si configura, quindi, come uno stato di alterazione di un equilibrio normalmente esistente tra tutti gli elementi che intervengono sui processi intellettivi dell'uomo. L'essere alienato risulta pertanto smarrito, ma non separato, né essenzialmente altro rispetto alla normale condizione umana; da qui ha origine la principale novità sulla quale si è legittimato il progetto manicomiale: lo stato di alienazione diviene modificabile ed è pertanto possibile curare e guarire dalla malattia mentale.
Il processo di medicalizzazione della follia, l’ingresso cioè di quest’ultima nell’ambito della medicina, è stato proposto dagli stessi promotori del progetto in termini di netta e profonda cesura rispetto alle visioni precedenti, che facevano della follia un campo afferente all’area semantica della povertà, della miseria, ma anche dell’eccezionalità e della genialità. (2) Tuttavia, la definizione di un nuovo modello di interpretazione della follia, all’interno del quale convivono utopistiche aspettative di guarigione, attitudini paternalistiche verso i "poveri infelici", ma anche disprezzo e discriminazione verso una umanità comunque considerata minore, sono, con tutta evidenza, operazioni dense di significati culturali. Al centro della mia attenzione sarà l’analisi e la scomposizione dei diversi sistemi di senso inerenti la classificazione di malattia mentale attraverso lo studio di un caso specifico: i ricoverati presso il manicomio romano di Santa Maria della Pietà nel periodo compreso tra la seconda metà dell’Ottocento ed il primo Novecento. L’opzione interpretativa di fondo è netta: l’attribuzione dell’etichetta di malato di mente ad un soggetto è il risultato di un’operazione culturale in cui confluiscono elementi diversi; il sapere medico, infatti, riprende e si interseca con taluni aspetti delle tradizioni popolari sulla malattia mentale e, più in generale, con le eredità culturali e religiose, componenti che lungi dall’essere sic et simpliciter sepolti con l’adozione degli stessi modelli medico-psichiatrici, costituiscono la struttura portante dei moderni sistemi di classificazione della malattia mentale. In questa direzione, cercherò di esplicitare il quadro epistemico di fondo che ha permesso alla psichiatria di definirsi tale e quindi di evidenziare i punti di confluenza tra saperi diversi e l'edificazione di precise categorie nosografiche. In questo senso, parlerò di costruzione medica e sociale della malattia mentale e in questo senso parlerò di storicità della malattia mentale(4) non credo infatti possibile separare i segni di una qualsiasi malattia dall’idea che medici e pazienti si fanno di essa; non credo possibile, cioè, separare le manifestazioni del disagio psichico dalla cultura di riferimento.(5)
Una fonte assolutamente straordinaria per cogliere tempi e modalità del processo di medicalizzazione della follia e, soprattutto, per individuare gli elementi culturali che andavano a costituire i tratti distintivi del soggetto malato è senza dubbio rappresentata dalla cartella clinica. Simbolo stesso della medicalizzazione, la sua comparsa è legata al nome di Pierre Cabanis, altro esponente di spicco del circolo degli idéologues, per il quale nel Journal d'hôpital il medico doveva raccogliere i dati sui pazienti, descrivere ogni mattina la malattia con la massima esattezza e dipingerne l'intero decorso.(6) Le annotazioni in essa contenute avrebbero dovuto riguardare sia lo stato di salute e gli effetti delle terapie applicate, sia le condizioni di vita generale, i costumi, le abitudini e i gusti dei pazienti; in una parola, la vita dei ricoverati.
Le cartelle cliniche in genere vengono introdotte in concomitanza con l’istituzione delle Direzioni mediche nei vari manicomi, quindi, sia pur con molte eccezioni, grosso modo a partire dalla seconda metà del XIX secolo e attestano una novità rilevante rispetto ai più antichi reclusori privi di specifici trattamenti per la follia (7) il soggetto veniva osservato, interrogato, classificato, inserito in uno spazio ad hoc.(8) L’osservazione clinica è insieme parola (cioè interrogazione e ascolto del paziente) e sguardo, o meglio ispezione dei tratti fisici e dei comportamenti; elementi che vengono sistematicamente ricondotti ad una precisa categoria nosografica.(9) Esemplari sono al riguardo le note contenute nella cartella clinica di Caterina F., una vedova sessantenne "avente un modo di vivere sregolare", il cui insieme di tratti somatici, pensieri e parole legittimano l’etichetta di maniaca:
"Polsi duri, alterazioni nelle facoltà intellettuali non essendo ferma nelle sue idee e nei suoi giudizi, alternativo pallore, e rossore nella faccia, occhi scintillanti, dilatazione protratta ed immobilità delle pupille, vaniloqui periodici irregolari, veglie notturne continuate con ripetute contrazioni muscolari. Ciò quanto si è osservato per lo spazio di pochi giorni" (10).
Il precetto di Cabanis non venne sempre pedissequamente seguito; tuttavia nelle cartelle cliniche spesso sono annotate i sintomi e le evoluzioni della malattia, i deliri, le fantasie, le storie di vita dei ricoverati, talvolta persino i loro sogni. Ma soprattutto, ed è questo a mio avviso l’aspetto più interessante, la cartella clinica si è rivelata una fonte del tutto eccezionale per un aspetto peculiare: essa racconta l’incontro tra il medico e il paziente; il primo con il suo apparato teorico, pronto ad inserire le manifestazioni del malato all’interno di una precisa categoria nosografica; il secondo con il suo linguaggio, le sue metafore per esprimere la sofferenza e il suo modello di spiegazione della malattia stessa. La cartella, quindi, da un lato resta fortemente ancorata al sapere medico e ne riproduce più o meno fedelmente tutte le evoluzioni; dall’altro, a differenza dei trattati teorici e delle riviste specializzate, attesta il divenire dello stesso sapere medico meccanismo e pratica di reclusione e di emarginazione sociale. La parte amministrativa e l’intero incartamento, inoltre, aprono la prospettiva sulle pratiche di internamento e dunque ci danno traccia dei soggetti istituzionali protagonisti delle reclusioni, testimoniano le resistenze e le diffidenze manifestate dai pazienti e dai loro familiari verso il progetto manicomiale e così via.
In relazione alla costruzione culturale della categoria di malato/a di mente prenderò in considerazione essenzialmente un aspetto: cercherò di dimostrare come nei pensieri dei pazienti che gli psichiatri definiscono "deliri" e "disturbi psico-sensoriali" e su cui soprattutto sul finire del secolo essi concentrano la loro attenzione, riemerga prepotentemente la dimensione religiosa e il mondo fantastico proprio della cultura folklorica; questi racconti ripropongono, infatti, luoghi importanti della morfologia della fiaba e delle agiografie che, sia pur irrigiditi in stereotipi reiterati, rivelano da un lato l’appartenenza e le radici della psichiatria a strutture culturali profonde, spesso inconsapevolmente condivise; dall’altro essi attestano la profonda diffusione di questo universo simbolico nella sensibilità degli uomini e delle donne del tempo; tale universo si è rivelato così intimo e radicato da essere rivissuto ed espresso nella forma del delirio.(11) Tuttavia, non è certo la profonda diffusione dell’universo folklorico nelle strutture emotive e psichiche dei ceti subalterni l’elemento sorprendente, quanto il significato complessivo dell’attribuzione a questi elementi del carattere di sintomi del disagio psichico operata dagli psichiatri del XIX secolo.
Accogliendo implicitamente quanto dichiarato dagli stessi psichiatri, in genere la storiografia ha letto tali operazioni come aspetti interni al processo di secolarizzazione e modernizzazione: gli psichiatri in questo contesto hanno cioè voluto contribuire al superamento della superstizione e dell’oscurantismo, al disciplinamento del sentimento religioso e dell’universo fantastico, battendosi per l’affermazione di una cultura laica e di impronta razionalista. Tutto ciò rappresenta, a mio avviso, solo un aspetto della costruzione del confine tra normalità e alterità tracciato dagli psichiatri proprio sulla base dello spostamento di significato attribuito all’universo fantastico e religioso. L’ipotesi che vorrei sviluppare si basa, invece, su un assunto diverso: piuttosto che leggere l’ambito culturale dei pazienti ricoverati e quello degli psichiatri come universi distinti (l’uno basato sulla superstizione, l’altro sulle ragioni della scienza), credo che l’emergere di determinati quadri nosografici si basi su un contesto culturale unitario all’interno del quale confluiscono e si mescolano un certo numero di variabili e di contraddizioni (12).
Il quadro epistemico che ha sorretto l’emergere di talune etichette psichiatriche attraverso la riproposizione di espressioni tipiche del mondo folklorico, presentate come deliri, è incentrato su un preciso paradigma sociale condiviso: da un lato gli psichiatri erano interessati al giusto funzionamento delle facoltà volitive e sensibili e pertanto, sulla base delle loro indagini, volevano riorganizzare l’intera sfera morale degli esseri umani, dall’altro i parametri di comportamento dell’uomo ideale erano fondati sulla capacità di conformarsi ai precetti imposti. La società del XIX secolo ha assunto come norma prioritaria di comportamento l’adesione e l’assoggettamento ai codici imposti innanzi tutto dalle istituzioni e dalla cultura religiosa, quindi anche dallo stato e dal diritto. Il disagio psichico, pertanto, non poteva che derivare dal sentimento di colpa per una mancata disciplina interiore e per la trasgressione alle norme imposte. Da punti di vista differenti, psichiatri e pazienti partecipano alla stessa rappresentazione e alle stesse implicazioni che sottintende il modello di patologia mentale in questo specifico contesto: gli uni si preoccupavano di regolare dal punto di vista fisiologico ed organico il corretto funzionamento delle capacità volitive e sensibili affinché l’individuo potesse perseguire il comportamento prescritto, gli altri esprimevano dissidi, conflitti interiori e sensi di colpa per una eventuale inosservanza del conformismo sociale; per tutti, il paradigma culturale prevalente si fondava sull’idea che il valore della persona derivava dalla capacità di autoregolarsi e soprattutto di rispettare precise prescrizioni morali e di conformasi alle regole convenute. (13)
Come cercherò di dimostrare, quindi, attorno alla riflessione sui disturbi psico-sensoriali, alle espressioni del mondo onirico e fiabesco e alla lettura di queste fantasie in termini di sintomi psichiatrici, emergono temi di grande rilevanza nella cultura del XIX secolo: la regolazione dell’essere morale, il continuo ripensamento sul senso delle proibizioni, le aspettative di fughe verso la libertà individuale, la permanenza di modelli comportamentali molto coercitivi.
In questa prospettiva interpretativa viene trascurata la lettura di gender, che reputo ovviamente fondamentale sia in relazione alle concettualizzazioni psichiatriche, sia alle pratiche di internamento, ma sulla quale non mi sono soffermata allo stadio attuale della mia riflessione.
2. I deliri e il mondo folklorico.
Ho sottolineato l’importanza che le storie di vita, gli eventi traumatici e le emozioni ricoprivano nell’eziologia della malattia mentale per la prima generazione di alienisti. Per gli psichiatri delle generazioni successive, nonostante si affermi un approccio di tipo organicista, volto cioè a cercare nelle disfunzioni organiche le cause dell’alienazione, non viene meno l’attenzione agli eventi biografici per contestualizzare l’emergere della malattia.
In genere, nell’espressione dei deliri, dei turbamenti e delle paure dei ricoverati, sono sistematicamente presenti entità ed animali tipici del mondo folklorico. Più in particolare, la costruzione delle storie di vita dei malati riproduce taluni elementi portanti della morfologia della fiaba. Il rapporto tra l’universo della malattia mentale e il mondo della fiaba presenta a mio avviso due diversi livelli di implicazione: in senso stretto, la struttura dei racconti di vita dei ricoverati ripropone uno schema analogo a quello contenuto negli intrecci della fiaba; in senso lato, nell’universo della malattia mentale rivive il mondo folklorico, quello della religiosità popolare, il mondo magico dei subalterni e, in questo senso, quindi anche quello dei luoghi e dei personaggi fiabeschi (14).
Come è noto, Vladimir Ja. Propp ha incentrato la sua analisi sulle funzioni dei personaggi delle fiabe di magia; (15) egli ha cioè evidenziato, nella struttura narrativa delle fiabe appartenenti a tradizioni culturali molto diverse, la presenza degli stessi motivi di fondo ed ha sottolineato come, nonostante fossero molteplici i personaggi o le varianti esistenti, questi svolgessero le stesse funzioni da lui individuate come fondamentali. In genere, l’incipit della favola vede il protagonista-eroe subire un torto da parte della figura antagonista, il quale gli crea un danno di somma gravità: turba la sua quiete familiare attraverso un sortilegio, provoca una sciagura, un malessere fisico o infinite altre varianti del genere. L’antagonista, che può presentarsi sotto le sembianze del diavolo, di un drago, di una strega, di un bandito, tormenta il protagonista, che da quel momento soggiace al suo potere e ai suoi capricci. L’eroe, pertanto, è costretto a sopportare terribili sofferenze, può essere trasformato in animale, perde la sua identità originaria, è interrogato, aggredito, sottoposto ad una o più verifiche. Egli deve sostanzialmente espiare una colpa, resistere ad infinite tentazioni, superare delle prove, sconfiggere fisicamentente il nemico finché, magari giunto in possesso di un mezzo magico o della formula esatta di uno scongiuro, riesce a liberarsi dall’incantesimo; la fiaba si avvia, così, alla conclusione con la tradizionale vittoria del bene sul male.
Nei racconti di vita di molti ricoverati, racconti indirizzati a cogliere le ragioni della malattia, è possibile, a mio avviso, intravedere taluni motivi indicati come i capisaldi della struttura fiabesca: la figura del malato corrisponde a quella del protagonista della vicenda, che resta vittima di malefici effettuati da esseri malvagi; fungono da antagonisti, in genere, parenti affini, vicini di casa, datori di lavoro; il malato-eroe cade in uno stato di assoluta prostrazione, perde la sua originaria identità, crede, a sua volta, di cagionar danno agli altri; in preda a profonde sofferenze, può essere sottoposto ad una serie di prove, può percepirsi come trasformato in animale, chiede sempre una pratica rituale per ottenere la liberazione dal sortilegio che lo ha imprigionato. Nella struttura narrativa, però, vi è una significativa mancanza: non troviamo la funzione conclusiva che tradizionalmente risolve in modo positivo l’intreccio, perché, ovviamente, lo stato di sofferenza psichica, su cui maggiormente si soffermano medici ed infermieri che hanno redatto le cartelle cliniche, corrisponde ad una fase precisa dello sviluppo della narrazione: quella in cui il protagonista soggiace alle malvagità altrui e tenta di risollevarsi, salvo poi auspicare insistentemente la guarigione come ovvio esito felice della vicenda.
Alcuni stralci dai racconti di vita di alcuni ricoverati mi sono sembrati alquanto rappresentativi della presenza di tracce narrative assimilabili alle funzioni contenute nelle strutture fiabesche. Maddalena B., di cui non sono noti i dati anagrafici, si trova in uno stato di continua ansia, così descritto:
"ha il respiro affannoso, accusa senso di stringimento al petto che l'obbliga continuamente a bagnarsi. Va dicendo: ah! che disgrazia, ma che avrò fatto io? E’ possibile che sia stata una maledizione che l'abbia ridotta in così tristi condizioni. Narra che due mesi or sono si sentì un giorno tirarsi per i capelli ed incominciò a strillare e dopo non è più stata bene, non ha più forza, è deperita assai essa che era un folletto, sempre di buon umore. Essa ha sempre voluto bene a tutti, ma le sue cognate le volevano male e senza dubbio le hanno fatto una fattura, l'han fatto andare in podere del diavolo. Dorme abbastanza".
In questo racconto di malattia, del tutto paradigmatico, è possibile individuare i seguenti motivi: la caduta della protagonista nello stato di malattia a causa di magie effettuate da alcune figure antagoniste, in questo caso le cognate; la possessione da parte della potenza diabolica, quindi l’estraniazione dalla propria persona; la lotta ingaggiata contro le forze del male: nelle note conclusive della cartella è infatti annotato che "ha tentato il suicidio allo scopo di sfuggire al diavolo" ed ancora che è "ansiosa, irrequieta, si bagna continuamente". Queste ultime annotazioni corrispondono nella morfologia della fiaba ad un topos preciso: il protagonista soffre, rasenta la caduta irreversibile nelle forze del male, sfiora la morte prima di cominciare il suo percorso positivo. Maddalena rischia di morire pur di sottrarsi al diavolo e placa le sue ansie con un atto dal forte valore simbolico quale il contatto con l’acqua. (16) Naturalmente, la cartella contiene anche dati più caratteristici del sapere medico come quelli antropometrici, quelli relativi alle pulsazioni e alle cure praticate, in questo caso costituite da dosi di cloralio, potassio e cloridi di morfina. (17)
Analoga è la struttura narrativa della storia di vita e di malattia di Immacolata G., una donna di 29 anni originaria dalla provincia dell’Aquila, giunta a Roma per fare la domestica e destinata ad una lunga reclusione:
"Narra che la signora dove lavorava voleva darle per marito il figlio, e quando lei non volle per vendicarsi le fece la fattura. Cominciò a sentire un malessere generale, tremori, agitazione, la notte le comparivano le streghe che entravano come fiammelle e si trasformavano in gatti, papere, galline, e brutte facce che le facevano le boccacce. Sentiva delle voci che le dicevano che si fosse liberata, altre la insultavano. Il giorno andando per strada vedeva grande confusione, tanta gente che le andava intorno, la deridevano e la guardavano come fosse una ladra. Anche in Chiesa la urtavano, due la strinsero in mezzo a loro, un'altra persona la batteva sulla spalla dicendole: ricordati che sei segnata. Andò in Questura per il rimpatrio poi non volle più partire e quindi tentò di gettarsi sotto un tram. Fu condotta all’ospedale.
In manicomio ha tenuto un contegno stravagante: sta con una coperta in testa. E' sempre sospettosa e diffidente, ha allucinazioni: sentiva la voce della madre che le diceva: salvati, liberati. Anche al manicomio essa è stata perseguita da tutti, dalle infermiere che le hanno gettato nel letto delle serpi viventi, dalle suore che le hanno fatto la fattura, ai medici che sono cattivi. Essa è destinata a soffrire quaggiù, ma essa farà penitenza, deve mangiare solo pane e acqua, ma non sa perché è così perseguitata. Vivaci i sentimenti religiosi.
Vede un'ombra nera che le balla davanti, sente muoversi il letto, non può trovare la pace della sua vita. Ha veduto parecchie volte la figura di un giovane che ella ama e che le ha parlato. Parla di questa sua affezione verso questo giovane che però ora non ama più, questa persona è forse il diavolo che l'ha affatturata. Talora parla di fatture che le hanno fatto, di spiritismo, essa tentò di combattere queste fatture pregando, ma non vi riesce. Le allucinazioni sono quasi tutte visive. Dice di voler morire" (18).
Anche in questo caso all’origine della malattia vi è un elemento magico, ossia un maleficio messo a punto dalla datrice di lavoro (antagonista) che fa cadere Immacolata in uno stato di profondo malessere. Quest’ultimo si sviluppa anche attraverso la comparsa di figure classiche del mondo folklorico: streghe, gatti, serpenti, diavoli che terrorizzano la protagonista, la quale rischia persino la morte (tentativo di gettarsi sotto il tram). Al tempo stesso, Immacolata cerca di resistere e di lottare contro la caduta nelle forze del male, anela alla guarigione (sente la madre che le parla della salvezza), si sottopone ad un duro regime di prove: vive un amore contrariato, deve far penitenza, pregare e mangiare solo pane e acqua. Come è consuetudine, anche in questa cartella, mancano le funzioni conclusive della struttura fiabesca, corrispondenti al raggiungimento della guarigione.
Se, dunque, la trama narrativa delle biografie di molti ricoverati sembra, in modo del tutto essenziale, minimalista e ripetitivo, appartenere alla struttura narrativa delle favole per la presenza di alcuni equivalenti morfologici, l’esistenza di altri motivi, talvolta isolati e spesso anch’essi poco elaborati, precisa i legami tra l’universo della follia e quello fiabesco.
Il danno arrecato dall’antagonista all’attore principale della fiaba è, nell’analisi di Propp, una funzione di straordinaria importanza in quanto ne costituisce l’esordio e si articola in un’eccezionale varietà di forme; analogamente, nella struttura narrativa delle biografie dei ricoverati, questa funzione è assolutamente centrale ed altrettanto variegata. Come si sarà notato, tra i mali effettuati ai danni dei malati, domina in modo del tutto incontrastato la fattura, elemento capace al tempo stesso di esprime un conflitto familiare o sociale e di spiegare la caduta negli abissi della follia. La fattura è infatti ricordata come la causa più ricorrente di malattia, prodotta o da figure sociali conflittuali, tra le quali spesso sono presenti le matrigne, o persone estranee e competenti che fungono da figure antagoniste: alle "mali arti di una fattucchiera" e alla sua "matrigna", la giovane Marianna M., reclusa in manicomio sino alla prematura morta e classificata come deficiente "con stati deliranti transitori da alcool", attribuisce la causa della sua malattia. (19)
Fungono da equivalenti morfologici ancora altri due motivi costantemente presenti nelle due strutture narrative prese in esame: la mutilazione ed il tormento, specialmente notturno, del protagonista. Le fiabe sono popolate di eroi a cui sono stati strappati membra, occhi, cuore; lo stesso immaginario relativo alla mutilazione corporea compare nelle cartelle cliniche: attraverso espressioni di smembramenti e mutilazioni fisiche, infatti, i pazienti comunicano e danno corporeità alla loro sofferenza psichica. Teresa B. in F., una casalinga di 37 anni, alcolista "è agitatissima, non risponde alle domande, dice che il cervello le manca, urla che non ha cuore e che andrà all'inferno. (20) Ed ancora Albina D. A., una sarta di 60 anni affetta da psicosi maniacale, così racconta la sua sofferenza:
"si presenta con aspetto addolorato, abbattuto, è accasciata sotto il dolore della grave malattia che l'ambascia. Per lei tutto è finito perché è malata al cervello, esso è fradicio, anzi è stato tutto mangiato da una cimicia che le è entrata in un orecchio. Non sente più la testa, non sente più il terreno dove cammina: ha sempre smania. E quando ad alta voce dice queste cose, la accompagna con una mimica passionale" (21).
Il motivo della mutilazione fisica come conseguenza della magia effettuata ai danni del malato è tra i temi più ricorrenti nelle cartelle cliniche: oltre al cervello, dominano le sensazioni di mancanza del ventre o di sostituzione dei propri organi interni o ancora il sentore che il proprio sangue sia stato alterato (22). Il tema della mutilazione fisica è presente, inoltre, attraverso la cruenta immagine degli occhi strappati: Geltrude K. in S., una casalinga tedesca, classificata come melanconica, al suo ingresso in manicomio si presenta triste, depressa, con il capo chino sul petto, lo sguardo volto in basso, le mani incrociate sul seno; da oltre un anno beveva smodatamente alcolici e faceva
"sogni terrifici di animali, sognava di stare all’inferno, fra i pazzi, in mezzo ai leoni, serpenti ed altre bestie feroci. Diceva di essere stata stregata. Sentiva voci che le dicevano che non era più Geltrude, ma una strega; sentiva dire: ammazzatela, fatela a pezzi. Era il demonio che le aveva messo nella testa l'idea di togliersi gli occhi. Diceva che i suoi visceri sono tutti putrefatti e che è ridotta ad un cadavere". (23)
La nota contenuta nella cartella clinica in verità contiene più motivi attribuibili alla funzione del "danno" di cui è vittima la protagonista: oltre alla mutilazione ("fatela a pezzi", "togliersi gli occhi" e "i suoi visceri sono tutti putrefatti"), Geltrude crede di essere stata trasformata in strega e che tale trasformazione, come nei momenti più horror delle favole, le aveva permesso di compiere dei reati come quello di aver ucciso la nonna, di aver rubato 5 lire e di aver ucciso tanti bambini. Pertanto, con "il demonio in corpo", Geltrude è condannata a morire, ossia, con le sue parole: "ella doveva essere giustiziata sulla sedia elettrica e delle guardie sarebbero venute ad arrestare lei ed il marito".
In un’altra cartella che sarà più ampiamente esposta di seguito, troviamo lo stesso tema della cruenta mutilazione fisica nella variante "dello spostamento degli occhi dentro il ventre" (24): le parti del corpo interscambiabili, ossia volti umani collocati sul petto, zampe immediatamente legate al capo, esseri con doppia o tripla testa costituiscono un antico motivo, largamente attestato nell’iconografia gotica medioevale fino a quella popolare religiosa del XVIII e XIX secolo, che dà corpo alle rappresentazioni del bizzarro, del grottesco, del maligno. Attraverso le metamorfosi e lo sconvolgimento delle forme classiche si dà sfogo alla fantasia e all’immaginazione, prende corpo il senso del mostruoso, dell’alterità, della bestialità. Lo spostamento degli occhi o della testa sul ventre, in particolare, ha il significato del capovolgimento dei valori umani: la subalternità dell’intelligenza e della spiritualità agli appetiti umani più bassi e corporei; si tratta, quindi, di un’immagine atta ad indicare il precipitare dell’uomo allo stadio animale, tema ovviamente consono alle rappresentazioni culturali della follia.(25)
Le cartelle descrivono, inoltre, con dovizia di particolari, pazienti in preda ad incessanti tormenti notturni, esseri che trascorrono notti insonni passate in preghiera, in pose estatiche e in lamenti ininterrotti.
Altro luogo cruciale, che corrisponde alla fase forse più acuta della sofferenza vissuta dal malato di mente, nonché snodo ricco di aspettativa nell’intreccio fiabesco, è costituito dalla trasformazione del protagonista in animale e la conseguente perdita della propria identità. Il tema, di antichissima tradizione, assume significati molto diversi a seconda del contesto di riferimento: se nell’Antichità, attraverso le frequenti immagini di metamorfosi animalesche, si esprime una precisa cosmologia all’interno della quale l’uomo non si percepiva molto distante dal mondo animale, l’affermarsi dell’antropocentrismo, anche in seguito alla diffusione della dottrina cristiana, promuove una diversa attitudine dell’uomo verso il mondo animale: l’uomo deve dominare e sottomettere gli animali e molti di essi rappresentano e diventano simboli del male, della ferocia, dell’aggressività; essi diventano dunque le figure che più di altre sono in grado di scatenare i sentimenti di paura negli uomini.(26) Nell’universo fiabesco, la capacità di trasformarsi in animale, motivo altrettanto dominante, rende conto della caducità umana, incute terrore, ma rappresenta anche la possibilità di salvezza: spesso, infatti, gli eroi proprio perché temporaneamente trasformati in animali possono volare e pertanto sfuggire al malefico che li incalza. (27) Il motivo della trasformazione in animale, elemento tra i più diffusi nei racconti dei disturbi sensoriali dei malati, nelle cartelle cliniche rimanda, invece, ancora una volta, al sacrificio e dunque alla punizione subita dal protagonista più che ad un escamotage per sfuggire o superare il sortilegio. La trasformazione in animale, la possessione diabolica e le paure conseguenti alle visioni di animali riassumono infatti la punizione maggiore riservata ai folli: la perdita della propria identità originaria, la désagrégation della propria personalità. Angela G. in G., una casalinga di Vetralla di 37 anni, affetta da paranoia allucinatoria acuta, ad esempio,
"si credeva perseguitata dai vicini e fatturata. (…). Era impaurita, non beveva, non mangiava, non dormiva. Disturbi sensoriali allucinatori e illusori a contenuto religioso: visione di Madonna, santi, Cristo, ma anche di natura terrifica: serpenti, fuoco, si graffiava il petto dicendo che vi avevano messo dentro i serpenti. La fattura ha alterato il suo corpo, ha il sangue cambiato e così via. (28)
Ancora più precisa è l’appartenenza del tema della metamorfosi animalesca alla funzione di tormento nel caso di Benedetto D., un giovane contadino ricoverato per ben sei volte, sempre per periodi relativamente brevi. Dopo la consueta presentazione del protagonista, con i dati relativi all’età anagrafica, alle condizioni di vita, alla composizione e alle abitudini familiari, così prosegue la sua storia clinica:
"Dieci anni or sono e un'altra volta qualche tempo dopo ebbe a subire un grave spavento, vedendosi inseguito da un contadino a cui egli aveva danneggiato le ulive. L'attuale forma morbosa è cominciata dallo scorso inverno: andò a confessarsi da un gesuita, il quale trovando assai disposto ai sentimenti religiosi, lo incoraggiò a proseguire nella buona via e col andare spesso a confessarsi da lui, che lo avrebbe fortificato contro ogni sorta di tentazioni, le quali lo avrebbero potuto far diventare un serpente, una vipera o altro animale. Per tema di ciò il giovane esagerò le sue pratiche religiose e in questi ultimi tempi trascurava il suo lavoro passando le sue giornate in tutte le chiese di Tivoli ed in tutti i santuari dei dintorni, occupato in preghiere e in penitenza. (…). Dormiva pochissimo e mangiava anche poco, in modo che l'infermo si era anche consumato". (29)
Si sarà notato, e non solo in questo ultimo stralcio di cartella clinica, la centralità del riferimento religioso nell’universo simbolico e nel patrimonio culturale dei ricoverati. Si tratta certamente di una tradizione che emerge prepotentemente nei deliri dei malati e che resta fortemente armonica ed intrecciata con molti temi della cultura squisitamente folklorica. Tutti gli studiosi della fiaba, non a caso, hanno sottolineato l’importanza del nesso, senza tuttavia esplicitarne le implicazioni, tra culture religiose popolari e tradizioni folkloriche. (30) La teologia cristiano-cattolica nell’esplicitare le simbologie del maligno e la lotta tra il bene e il male riprende molte delle componenti magiche, meravigliose e fantastiche della cultura folklorica: a mio avviso, tale intreccio costituisce il substrato di fondo che tiene insieme la struttura fiabesca, la tradizione religiosa e il mondo onirico e fantastico che rivive nei deliri dei pazienti. In modo ancora più preciso, credo che le vite dei santi, fortemente debitrici ed intrise di elementi e funzioni del mondo folklorico, nonché straordinariamente note nella cultura delle classi popolari ottocentesche, costituisca il vero trait d’union tra ambito religioso e cultura folklorica. (31)
La "trasformazione in animale" (o la paura di poter essere trasformati in animale), che costituisce il momento centrale della fase negativa dell’intreccio fiabesco e nel racconto di malattia, nella declinazione femminile acquista il senso preciso del possesso del corpo e dell’anima della protagonista. Tale luogo, in assoluto tra i più diffusi nelle cartelle delle ricoverate, è un’azione che si colloca a metà strada tra una funzione tipica della fiaba, il rapimento, e la conquista dell’anima operata dal diavolo, elemento altrettanto fondamentale della simbologia religiosa.
La funzione di trasformazione in animale e di possessione diabolica si chiude con un’ulteriore specificazione costituita da una serie di traversie e di difficoltà, delle vere e proprie prove che gli attori devono superare per tentare la reintegrazione dalle sofferenze. Successivamente, infatti, sia nelle fiabe, sia nei racconti di malattia, i protagonisti esprimono fermamente e costantemente il desiderio di liberarsi dagli incantesimi di cui si percepiscono vittima per raggiungere lo stato di salvezza/guarigione.
Il protagonista/malato, dopo la prima fase in cui cade vittima del sortilegio, è quindi sottoposto ad un secondo turno di ostilità. Ovviamente sono infinite le varianti che indicano una qualsiasi forma di crudeltà a lui riservata; nelle fiabe, la prova del cibo e delle bevande è tra i motivi più ricorrenti: i protagonisti devono cioè riuscire a mangiare quantitativi smisurati di alimenti oppure devono affrontare uno scontro diretto con l’essere che rappresenta il male (il diavolo, il drago, ma anche topi, serpenti), prima di avviarsi felicemente alla fine della vicenda.
Nei racconti di sofferenza psichica, la prova, ancora una volta con una fortissima accentuazione in senso religioso, è spesso esplicitata attraverso la capacità di resistere e superare le tentazioni del male; spesso, come nell’esempio che segue, le prove di contenuto più squisitamente religioso si intrecciano con quelle più tradizionalmente presenti nelle fiabe, quale per l’appunto la prova del cibo contaminato. Pietro S., già ricoverato presso l’ospedale Santo Spirito e deceduto dopo un mese di internamento in manicomio, esprime il suo conflitto interiore e il desiderio di raggiungere lo stato di buon cristiano resistendo al cibo infestato per l’altrui perfidia:
"Ha delle persone che gli vogliono male e che non gli fanno prendere cibo, e gli mettono tra gli alimenti dei sorci e dei cattivi sapori". (…)."L'infermo non è stato più bene da un paio di anni (…). La gente del paese si allontanava da esso per la puzza che emanava, sentiva ripetersi continuamente che puzza! che puzza! (…) per esso non c'è più speranza di salvezza in questo mondo e nell'altro; la sua anima dovrà bruciare nel fuoco dell'inferno per sempre, per sempre. Le cause di questa sofferenza sono riferite ai peccati che egli ha fatto; si sarebbe appropriato circa 4 anni fa di denari di una persona (…); non è andato a messa ultimamente nel giorno di S. Filippo. La nota predominante dell'animo è la depressione: tutto gli apparisce funesto, di colore oscuro, evita la compagnia, domanda di uscire dal manicomio, si commuove al pensiero dei figli. Desidera morire. Rifiuta i cibi per scontare i peccati". (32)
Nella prova del cibo viene in genere chiesto al protagonista di rispettare i relativi tabù alimentari, tra cui ovviamente l’antropogafia (33) : Settimia V., un’anziana vedova che vive in preda ad un grave forma di allucinazione, "ricorda le voci che le dicevano: "la carne che stai mangiando è quella dei tuoi figli" (34). Il motivo rappresenta una prova di resistenza verso l’istinto del cibarsi, il cui atto avrebbe un significato di contaminazione e di impurità irreversibile; anche questa funzione rende evidente il pericolo di caduta nel male percorso dall’eroe/malato di mente.
La funzione della prova presenta anch’essa una vasta gamma di varianti, tra cui, di una certa diffusione, anche per le ovvie assonanze religiose, risulta quella del fuoco: nelle fiabe di magia, la formula prevalente è quella che vede l’eroe lavarsi in un bagno di ghisa arroventata o bagnarsi nell’acqua bollente (35). Lo stesso motivo è presente in molte cartelle cliniche, ancora una volta nella versione che condensa un forte legame tra rappresentazioni culturali religiose e tradizione folklorica. La giovane Vittoria P., convulsiva sin dall’età di cinque anni, è classificata come affetta da lipemania con tendenze suicide e resta in manicomio per cinque mesi. Prima del ricovero,
"le parve di essere in un inferno dentro delle caldaie bollenti, tutto il corpo andare in fuoco, temeva di avere corpi estranei dentro il corpo, sentiva punture dentro i globi oculari. Nel momento dell'ingresso, si mise in ginocchio con le mani giunte e gli occhi rivolti al cielo in atteggiamento estatico: diceva di vedere la madonna. Dice che ha i diavoli dentro al corpo. Dice che ha sempre sofferto di "pizzichi dentro". (…) oggi si lamenta di avere un animale che ora le viene nello stomaco, ora le va nei reni, domanda di essere sezionata per vedere se quello che abbia dentro il corpo sia un vero animale (…). Malinconica, piange. Dice che le pareva di avere due corpi". (36)
Come per l’appunto nelle fiabe, inoltre, la prova del cibo e quella del fuoco si presentano spesso collegate: nella struttura favolistica l’eroe deve sfuggire al pericolo di essere bruciato, elemento spesso posto in relazione, come già visto, alla capacità di mangiare quantità smisurate di cibo. Nella descrizione della "confusione allucinatoria" di Gavina S. in T., una casalinga di 35 anni anche lei affetta da lipemania, troviamo precisi riferimenti a questo specifico topos; la paziente oltre a dover sfuggire al pericolo di essere arsa, alterna digiuni a momenti in cui "mangia come un animale", ossia:
"Da tre mesi comincia a fuggire di casa, non riposava, non mangiava ora nulla, cerca di fuggire le persone dicendo che le vogliono dar fuoco. Denutrita, occhi sbarrati, si guarda attorno come se temesse qualche male. Dice che si trova nel fuoco e nelle fiamme, che mangia come un animale, che ha uno spirito in corpo. Non ha coscienza del luogo.
Le minacce sono sempre uguali perché le dicono che sarà bruciata, sarà gettata nel fuoco, sarà arrostita in una graticola (…) si sente in preda a spiriti malefici e si raccomanda al medico perché la salvi.
E’ spaventata ed angosciata, le voci che sente le dicono: sarai arrostita come San Lorenzo. Due mesi dopo, una voce le dice: tu ti salverai, ed è più tranquilla.
Chiede: salvami dottore mio! Non vuole essere toccata, sputa in segno di schifo". (37)
La prova del fuoco ("messa a bollire in una pila") ancora intersecata con quella del cibo, è presente inoltre nella storia clinica di Teresa A. in D. P., una giovane casalinga demente, di cui ecco i passaggi più salienti:
"La madre è un po’ nervosa, il padre fu alcoolista, lei beveva 3-4 bicchieri di vino al giorno, sembra che durante il viaggio di nozze per tre giorni, per l'impressione ricevuta, ha sofferto di vomito, di svenimenti. Dopo dieci mesi dal matrimonio, non ha avuto più le mestruazioni e questa mancarono per 12 mesi, l'inferma si credeva incinta, l'addome era aumentato di volume, ma fattasi visitare da un ostetrico questi le disse che era una falsa gravidanza. Poi ebbe una bambina. Poi era sempre pallida e cominciarono i primi sintomi: non voleva più uscire di casa perché diceva che tutti la guardavano (…). Vedeva i diavoli, Dio, la Madonna, i santi, le fiamme; una volta si inginocchiò di fronte alla sorella pensando che fosse la Madonna. Talvolta diceva di essere messa a bollire in una pila nella quale i parenti apprestavano il cibo, che doveva essere infilzata con le forchette di cui si servivano per mangiare. Ripeteva sovente di aver commesso grossi peccati, che non poteva essere perdonata da Dio e che sarebbe andata all'inferno.
Dice di essere l'Immacolata Concezione, è stata sempre divina e pia. Parla della sua verginità che ha venduto al re Umberto. Accenna a veleni che le hanno somministrato" (38).
Nella struttura del racconto fiabesco, dopo il danno, la persecuzione e il superamento delle prove, il ciclo narrativo può prevedere lo scontro e l’annientamento fisico delle figure che impersonano il male. Tale scontro dà corpo al significato morale più importante della fiaba: la vittoria del bene sul male, che si ottiene per l’appunto anche attraverso una lotta ed uno scontro fisico dal forte impatto emotivo. L’uccisione di un animale (in genere il drago, il serpente e numerose altre varianti del diavolo) che si è impadronito del protagonista acquista una centralità assoluta nelle storie di malattia in quanto funzione chiave nell’avvio del processo di guarigione. Tra le immagini più diffuse nelle cartelle cliniche consultate vi è senza dubbio quella dell’ansia della liberazione dal male resa attraverso l’immagine dell’uccisione del diavolo che si è impadronito delle malate. Anche in questa frangente il nesso tra la sfera religiosa e quella folklorica appare del tutto evidente: Adele F. ha il suo corpo posseduto dal diavolo e pertanto si percepisce come "svuotata della sua anima", inoltre
"4 giorni or sono in seguito ad un gesto inatteso fu colpita da grave cefalea, forse per insolazione. Ha frequenti allucinazioni, aborre la madre, non si cura del suo bambino e si lagna di avere dei carboni accesi sulla testa e nella persona e di avere perduta l'anima.
Stato d'ansia interna, crede che vogliono ucciderla e sinceramente chiede perdono a tutti. Dice che il diavolo le ha preso l'anima e che per questo lo vuole fucilare. Piange si agita, dorme poco, non presta attenzione a ciò che le porgiamo e non risponde. E' allucinata. (39)
La stessa aspettativa di liberazione dalla sofferenza attraverso l’uscita del diavolo dal corpo della posseduta è espressa in un’altra storia di malattia, che contiene molti altri elementi del mondo fiabesco: Filomena R. è una donna di 40 anni, nata a Magliano dei Marsi (Aquila), già ricoverata presso il manicomio abruzzese e considerata affetta da psicosi ipocondriaca. Di grande interesse è "l’esame psichico" contenuto nella cartella:
"Ha atteggiamento fanciullesco, mimica esagerata. Racconta che è priva degli organi addominali e lo spazio è stato riempito da diavoli e serpenti che entrati dall'ano dove ne avverte l'ingresso da sensazioni dolorose, riescono dalla natura anche qui se ne accorge da sensazioni varie. Essa crede di avere tre ventri pieni di questi animali e così si spiega che quantunque essa mangi, pure non acquista in carne. Per il passaggio del suo respiro sente i diavoli che le dicono: tu non ti sei fatta godere dagli altri e ti godremo noi; ti abbiamo vinto, l'anima tua è in nostro possesso e tu non potrai più morire come gli altri. In passato ebbe pure allucinazioni visive, vedeva diavoli con le corna, le labbra rosse e vestiti da donna, che la invitavano a teatro, la vestivano da contessa e la guidavano per la strada.
L'anima sua ora è dannata, né ci sarà rimedio, solo per poter dormire dovrà o gettarsi al Ponte di Ripetta o strangolarsi con un laccio al collo".
La cartella clinica prosegue:
"Si lagna che da circa sei mesi non va di corpo e che nel ventre sono entrati i demoni. Questi demoni le dicono che la vogliono portare all'inferno e lì le manderanno rospi e serpenti. Ha allucinazioni visive a contenuto terrifico vede teschi con gli occhi rossi contornato il tutto da serpenti che le soffiano attorno.
Talvolta ha una coscienza di una doppia personalità, asserisce che si sente la sensazione dell'io identica a quella che provava quando era in salute (…). Sente una voce che le dice: mettiti lunga per terra, chiama i preti che ti benedicono, non saranno buoni a niente perché noi ci siamo impadroniti di te. La paziente chiede che venga sezionata dai medici con la speranza che il diavolo ne esca.
Non si avvertono tremori di sorta. Le allucinazioni consistono nel fatto che si sente trasformata, cambiata dal capo ai piedi: la testa non è più la sua e al suo posto hanno messo una zucchetta, gli occhi sono andati a finire dentro il ventre e sono stati sostituiti con altri. I polmoni glieli hanno bruciati (…) si sente camminare dentro il corpo, bruciare.
Dovrà uccidersi per liberarsi di serpi e diavoli". (40)
La storia presenta una serie di frammenti narrativi che specificano ulteriormente la condivisione di questo genere di produzione letteraria con il mondo folklorico e fiabesco: fucilare o lasciar uscire il diavolo rappresenta l’inizio della riappropriazione della propria unità psico-fisica e la fine del ciclo negativo. Per raggiungere tale obiettivo, è però richiesto l’aiuto del medico, a cui ci si rivolge esplicitamente per essere salvati; tale atto si presenta sia nella variante della richiesta di essere sezionati per permettere la fuoriuscita dell’animale, sia attraverso l’uccisione dell’animale stesso (41). Coerentemente con la struttura magico-favolistica dei racconti di vita e di malattia, i pazienti attribuiscono al medico il potere di guarigione, considerandolo come colui che è in grado di accompagnare il paziente-protagonista nel rito di passaggio che lo porterà alla salvezza. Al medico-psichiatra viene quindi trasferito il ruolo che nella fiaba è indicato come "donatore", ossia colui che può aiutare ed accompagnare l’eroe verso la risoluzione positiva dell’intreccio in quanto possiede i mezzi per realizzarla. Al medico, infatti, i pazienti si rivolgono e chiedono un intervento che a tutti gli effetti rientra nella struttura del pensiero magico.
La presenza, inoltre, di altri elementi rendono ancora più evidente l’appartenenza del mondo dei deliri a quello folklrico. Nell’analisi di Propp, rivestono una grande importanza per lo sviluppo narrativo alcune componenti di raccordo tra le varie funzioni principali: tra queste, di grande rilievo è quella relativa alla triplicazione. Nelle fiabe, come è noto, domina fortemente il motivo della ripetizione; possono triplicarsi sia specifici attributi conferiti a determinati sostantivi (le tre teste del drago), sia la ripetizione di una stessa azione, con la variante del crescendo, ossia di un’azione svolta per tre volte, l’ultima della quale ha un esito positivo (42). La triplicazione, in entrambi i significati indicati, è del tutto presente nei racconti di malattia psichica: nel caso della cartella già citata, relativa a Filomena R., richiamo il passaggio in cui ella "crede di avere tre ventri pieni di questi animali". Ancora una triplicazione nel senso della moltiplicazione di un attributo è presente nella cartella clinica di Nazzareno V.: si tratta di un vetturino di 64 anni, tra i pochi uomini indemoniati, che narra di "avere tre diavoli nel corpo" e che "uno spirito maligno si è impadronito del suo corpo" (43). Lo stesso valore rafforzativo ha l’espressione attribuita a Vittoria P., già citata, in cui la paziente "dice che le pare di avere due corpi".
La triplicazione, oltre che nella dimensione della moltiplicazione di un attributo, è presente nel senso della ripetizione di un evento o di una prova che viene reiterata finché la terza volta l’intreccio non giunge ad un esito positivo. La ripetizione è inoltre un elemento stilistico che conferisce notevole aspettativa all’intreccio, dà speranza di risoluzione degli eventi ed è un’unità, ancora una volta, presente sia nelle fiabe di magia, sia nella tradizione religiosa: Benedetto D. "dice che ogni notte gli comparisce la Madonna, dice di essere simile a Dio, il quale gli vuole bene perché andava tre volte al giorno in Chiesa". Lo stesso motivo è più volte presente nel sogno di Agostino N., classificato come affetto da paranoia allucinatoria acuta, che rivela
"(…) che un bel dì, Iddio sceso in terra lo prese con sé e lo lasciò in una strada molto larga e carrozzabile. Ad un tratto sentì suoni diversi e gli apparvero molti angeli che suonavano diversi strumenti. Egli non sapeva che fare se tornare indietro o rimanere, quando Iddio, che era tornato, gli addita un palazzo con tre porte, una di legno, una d'oro ed una d'argento. Vedeva lui entrare in questo palazzo molta gente che prima però di varcare la soglia si spogliava dei suoi abiti. Presso la porta d'oro vi era un mucchio d'oro, e la gente che vi entrava erano tutte persone per bene. Anzi una di queste benissimo vestita l'invitò ad entrare, dicendogli che ivi si godeva di ogni bene, ma lui si rifiutò, e si rivolse alla Madonna invocandola. Allora apparve la Madonna di Genazzano che preselo per mano lo introdusse per la porta di legno, tutta irta di chiodi, nel palazzo ed ivi lo lasciò. Vistosi solo, preso da spavento, invocò l'aiuto di Dio, che apparve dicendogli: sei un cretino, o Agostino, dove vuoi che ti mandi se per la porta d'oro non hai voluto entrare e qui non vuoi nemmeno rimanere? Voglio andare nel S. Paradiso, risposi io, dice Agostino. Allora Iddio per due notti rispose non esserci il paradiso, e la terza alzando un po' le spalle disse: Agostino, forse vi è, e seguimi. Presolo per mano, lo condusse per una strada stretta, buia ed irta di chiodi che strappavano le carni. Iddio lo fece correre per questa strada per ben tre volte e alla terza intimò a S. Pietro di aprire ad Agostino le porte del paradiso. Infatti si spalancò la porta d'argento e apparvero Angioli che cantavano e suonavano gli strumenti più svariati. (44)
In questi due ultimi stralci di cartelle cliniche tornano molti elementi del mondo fiabesco: in primo luogo, i numeri che vengono ripetutamente citati sono quelli che all’origine possedevano una forza magica, le cui potenzialità sono accresciute anche nella tradizione religiosa; si tratta in genere dei numeri 1, 2, 3, 7 e 12; tra questi è possibile evidenziare una netta prevalenza del numero 3 (45). Il sogno di Agostino, inoltre, al di là dell’immediato contenuto religioso, contiene molti elementi presenti anche nel mondo fiabesco: il viaggio che egli compie contiene una serie di prove, ripetute sempre tre volte, che gli provocano anche una terribile mutilazione fisica (il passaggio attraverso la porta irta di chiodi che gli strappavano le carni) e, soprattutto, troviamo la rappresentazione del mondo dell’al di là attraverso un’immagine tipica della fiaba di magia: il palazzo con una porta d’oro nei cui pressi si trovano ricchezze di varia natura e elementi che simboleggiano l’abbondanza (in questo caso, "un mucchio d’oro") (46).
Nei racconti dei deliri colpisce, inoltre, ancora un altro elemento, particolarmente ricorrente nelle cartelle cliniche anche perché considerato sintomo di una precisa categoria nosografica, il delirio di grandezza. Esso si estrinseca nell’autorappresentazione da parte degli stessi malati come regine o principesse, se donne, oppure come re, generali o grandi condottieri, se uomini.
Tra i tanti casi riscontrati, ricordo quello di Margherita A. una donna di 42 anni affetta da paranoia, che crede di essere la moglie di Umberto I, classificata pertanto come affetta da delirio di grandezza, il cui contenuto è così espresso:
"si aggira sempre sull'idea di essere la regina d'Italia e specifica chiaramente come e dove avvenne il matrimonio con S.M. Umberto I, fu a Roma all'ambasciata di Francia nel 1865, poi al municipio (Mairie nationale), poi andò nella casa (…), in seguito due anni dopo fu maritata con un altro uomo che qualifica per usurpatore del trono di Napoli, ma ella ritiene tal matrimonio nullo. Tutte le principali famiglie regnanti d'Europa sono imparentate con la sua, essa si fa chiamare Marguerite, contessa, moglie legittima di Umberto I che sposandola le assegnò il titolo di contessa di Torino". (47)
Le cartelle descrivono con grande dovizia di particolari giovani donne a servizio di agiate signore raccontarsi come rappresentanti di ricche ed importanti dinastie o di famiglie blasonate, indugiando sui valori dei loro beni (argenterie, gioielli, corredi) e, analogamente, poveri uomini a vario titolo marginali, credere di essere al comando del regio esercito o padroni del mondo. (48) Teresa T., una "spazzaturaia" di Viterbo, morta dopo 5 mesi di ricovero per una polmonite, afferma di essere "ricca e bella" e di dover
"sposare il conte B., il medico è suo zio ed è ricchissimo: quando parla del suo stato, ha molta biancheria, campi, case e buon numero di feudi". (49)
L’aggressività e gli atti violenti verso gli altri, manie di grandezza, un minore coinvolgimento del corpo nelle espressioni patologiche, sono gli elementi più evidenti della rappresentazione del "delirio di grandezza" nella declinazione maschile. Leopoldo V., ad esempio, affetto da paranoia cerebrale
"andò a mangiare da un amico ed allora fu tranquillo. Andò poi dal Questore a lagnarsi che le guardie lo pedinavano mentre egli era buono e credeva che lo facessero perseguitare i compagni d'ufficio. Da qualche giorno si era chiuso in camera ed armato di revolvers e pugnale era pronto a difendersi dai persecutori immaginari.
Stato psichico: L'infermo quest'oggi è agitatissimo; per un po’ di tempo è stato assolutamente muto, alle domande del medico rispondeva con gesti vivacissimi spesso incomprensibili, si comprendeva chiaramente che l'infermo non parlava per qualche allucinazione imperativa. All'improvviso è stato preso da una agitazione violenta ed ha gridato: "io parlo!" Grida elevate, uno stato ansioso manifestavano lo stato grave dell'infermo. Allucinazioni vivissime, visive, è forse anche uditive, erano causa della disperazione, le grida Aiuto! Aiuto! erano frammezzate da elementi di delirio persecutivo e di grandezza. Sul soffitto egli vede un foro rotondo attraverso il quale i nemici lo perseguitano: gli Italiani sono obbligati di difenderlo essendo figlio di casa reale o Savoia o Carmignano oppure di casa imperiale: promette una somma sempre crescente a coloro che lo difenderanno, egli si chiama Emanuele Maria Pio. Dice che è in fin di vita, e che per evitare la morte immediata è pronto ad associarsi alla Associazione loro: questi associati hanno per emblema le lettere M. P. che egli spiega poco dopo come morte perpetua (sono forse le lettere che hanno sul berretto i nostri infermieri e che vengono interpretate in senso delirante). Egli ha veduto il campo della pietra infernale, è pronto a mettersi a capo delle baionette per marciare contro i nemici. (…) Rifiuta da bere credendo che il liquido contenga veleno: si lamenta delle correnti elettriche che lo influenzano. L'esame della sfera affettiva e volitiva non è stato possibile rifiutandosi il malato di rispondere alle domande rivoltegli in proposito". (50)
In questa particolare tipologia di deliri, credo sia presente un elemento importante del mondo fiabesco: quello della trasfigurazione, della ranocchia che si trasforma in principessa, ossia il tema della donna umile e povera che diviene regale, come accade proprio a Cenerentola (51). Tale tema si interseca con un altro profondo orizzonte culturale proprio del mondo folklorico: la rappresentazione del mondo alla rovescia, tipico del carnevalesco, che connota fortemente l’ambito della follia.
L’appartenenza della sfera della rappresentazione culturale della malattia mentale al mondo fantastico delle fiabe è ancora suffragata dalla presenza di altri elementi assolutamente distintivi. Come è noto, un oggetto ricorrente nelle favole è il fazzoletto, che in molti intrecci narrativi assume poteri magici: in genere salva o protegge il protagonista da eventi infausti, spesso viene sottratto e tale evento è creduto all’origine di varie disgrazie, qualche volta ancora è offerto come mezzo magico capace di risolvere una situazione aggrovigliata e comunque negativa. Molto spesso il fazzoletto è un regalo che i fidanzati si scambiano come pegno d’amore, ma tale atto costituisce anche una sorta di incantesimo che lega i due giovani amanti. (52)
Lo stesso motivo è presente nel racconto di malattia di Elisabetta R., una giovane domestica, ricoverata in manicomio per un periodo relativamente breve per "monomania triste o lipemania con allucinazioni di vista e di udito", in corrispondenza della gravidanza della sorella che ha cura di lei. Tra le cause morali della sua malattia, il medico registra:
"viene raccontato l'episodio del fazzoletto colorato, detto scozzese, che l'inferma aveva acquistato e che aveva destato sospetti e invidia tra le amiche anch'esse domestiche. Lei aveva pianto per questo episodio disperatamente per ben otto giorni. Non mangiava, non dormiva e dopo tanti giorni in questo stato, "incominciò a dar segni di vera aberrazione di mente. Diceva con aria enfatica di sentire delle voci che le annunciavano male, che sparlavano di lei e le dicevano: muori. Diceva di vedere delle brutte figure che la spaventavano: mostrava paura di tutti e tutte. Faceva reiterate volte il segno della Croce durante la notte in cui non riposava un istante: recitava preci, piangeva (…). Dice di non avere più sangue, poiché le è stato bevuto tutto da un inglese". (53)
Moltissimi altri frammenti di racconti di malattia contenuti nelle cartelle cliniche costituiscono delle vere e proprie spie che testimoniano l’appartenenza del mondo dei deliri all’orizzonte folklorico: Silvio C. "sognava un mostro come un grande cavallo a tre zampe" (54). In questo caso, il cavallo, in genere figura realistica e positiva delle fiabe, diviene rappresentazione del mostruoso attraverso l’anomalia delle tre zampe e dunque, ancora una volta, immagine di paura e di smarrimento. (55) Il mondo fiabesco rivive ancora nei deliri di Amalia B., una giovane madre affetta da psicosi puerperale ed alcolista, che in seguito alle allucinazioni di cui soffre diviene
"esaltata. Assume atteggiamenti passionali, allarga le braccia, si getta indietro, solleva gli occhi in alto, a volte si mette a piangere. Passa le notti insonni in preda a deliri, cade in genuflessioni, fa delle prediche e predizioni.
Sentiva rumori, grida, il diavolo che diceva che doveva subire una forte pena. Tutti la beffeggiavano (…) esiste un delirio di colpa, peccato e dannazione, si accusava di aver commesso molti e grossi peccati, di aver bestemmiato e offeso Dio con parole e omissioni, di essere essa la figlia di due streghe" (56).
In questo caso, l’essere figlia di due streghe significa appartenere ad una genia maledetta, impersonare lo stadio più misero e spregevole della condizione umana.
Infine, ancora un ultimo esempio: quello di Angelo M., un uomo di 35 anni affetto da "paranoia cerebrale mista", più volte ricoverato che
"dice di essersi allontanato dal padre eterno per tutte le sconcezze che questi faceva e narra il principio della sua malattia. Dice che andò in una chiesa e vide un cane ed uno zoppo che doveva essere il diavolo zoppo. Ritornato a Roma vedeva in tutte le persone uno spirito maligno che le diceva del male. A casa sua dopo qualche giorno ebbe la visione di una gran luce e fu allora che lo spirito vergine entrò in lui. Sono gli spiriti perversi che sono entrati nelle persone. Il suo vero padre è lo spirito di Dio, lo spirito del Cielo. Egli in certi giorni non mangia perché il suo spirito non ha bisogno di nutrimento terrestre (…). Non si deve tormentare il suo spirito si deve lasciare libero". (57)
Nel mondo dei deliri sopravvivono le mutevoli rappresentazioni del diabolico e dell’infernalità: esse si estrinsecano e si rivelano attraverso entità di colore rosso (abiti, occhi, denti), animalità quali cani, rospi, serpenti. Il diavolo zoppo è certamente una delle tante epifanie del maligno: il motivo rientra nel mito, di vastissima diffusione, in base al quale le malformazioni o gli squilibri deambulatori contraddistinguono gli esseri in bilico tra il mondo dei morti e quello dei vivi. La versione del diavolo zoppo, non è che la rielaborazione medioevale del mito della zoppaggine, evidentemente presente nella cultura dei ceti popolari del XIX secolo. (58) Due testimonianze importanti attestano la diffusione della figura del diavolo zoppo: la prima è costituita dal testo omonimo (Le diable boiteax) di Alain-René Lesage del 1707, oggetto di molte rappresentazioni di teatro popolare e ispiratore di relativa iconografia. La seconda riguarda l’ambito più precisamente fiabesco, in quanto la figura del diavolo zoppo compare come protagonista di un’omonima fiaba diffusa nell’area del palermitano ad ulteriore testimonianza della continua contaminazione tra ambito religioso e racconto fiabesco. (59)
3. Il mondo magico e la scienza psichiatrica
I racconti di malattia psichica contenuti nelle collezioni ottocentesche delle cartelle cliniche appartengono al mondo fiabesco nel duplice senso che ho già anticipato: per la presenza di una analoga struttura morfologica nell’intreccio narrativo e per la condivisione dello stesso orizzonte culturale. Ovviamente, i malati di mente, a differenza dei protagonisti delle fiabe, non svolgono esclusivamente le funzioni-cardine degli intrecci, non mimano la vita reale, non sono figure prive di una propria interiorità; essi sono esseri in continuo conflitto di coscienza e, sia pur oggettivati nel racconto comunque ripetitivo e rispettoso di un cliché sempre più definito, presentano una propria profondità psicologica e non sono certo privi di sentimenti.
Credo, tuttavia, che sia importante esplicitare in modo ancora più analitico i nessi che legano il mondo onirico e fiabesco a quello psichiatrico nella specifica forma assunta da questo sapere sul finire del XIX e i primi anni del XX secolo. Certamente le espressioni riportate nelle cartelle cliniche e riproposte in termini di deliri sono frutto di un’operazione culturale promossa dalla nuova classe di medici professionisti. Non credo che essi abbiano del tutto riformulato e riorganizzato in strutture fiabesche l’insieme di espressioni proferite dai pazienti. Piuttosto, a partire da parole, metafore, formule adottate dai malati, gli psichiatri hanno semplificato e reiterato taluni motivi, oggettivando e semplificando i valori squisitamente soggettivi ed intimi della sofferenza interiore. Il patrimonio culturale popolare era certamente costituito ed affollato di vite dei santi, miti, leggende, fiabe che costituiscono quelle "forme semplici" di letteratura capaci di raccontare personaggi che hanno funto da veri e propri modelli comportamentali da imitare. (60) Soprattutto per le agiografie, l’identificazione popolare con le vite dei santi è stato un processo psicologico di grande profondità e radicamento. L’imitatio permetteva che si realizzasse compiutamente un modello di vita morale e che si perseguisse un comportamento virtuoso. Analogamente, l’insieme di divieti ed insegnamenti morali contenuti nei racconti fiabeschi strutturavano ed educavano alla vita morale. Queste manifestazioni culturali esprimono al tempo stesso l’acquisizione profonda di certi precetti, ma anche i conflitti intorno alla morale sessuale, ai tabù, alle relazioni sociali e familiari, ai sentimenti religiosi e alle regole morali tout court.
D’altro canto, resta centrale l’interrogativo sulle motivazioni che spingevano gli psichiatri tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e i primi anni del Novecento a presentare, sia nelle cartelle cliniche che in molti casi clinici riportati nelle riviste scientifiche, formulazioni del mondo folklorico come sintomi di malattia. Qual è, in sostanza, il significato dell’inserimento e della trasformazione in sintomi psichiatrici di talune espressioni proprie dell’universo folklorico?
Come ho già anticipato, in parte i nuovi professionisti della follia ingaggiano una strenua battaglia contro "gli errori e le superstizioni religiose" e partecipano del progetto di relegare al rango di subcultura il variegato patrimonio folklorico. (61) In senso lato, attraverso la medicalizzazione di talune manifestazioni culturali la scienza psichiatrica ha voluto controllare e disciplinare certe espressioni del sentimento religioso dei ceti popolari e, soprattutto, ha voluto sostituire un modello di spiegazione fondato su elementi soprannaturali con un altro basato su argomentazioni di tipo naturale: la possessione diabolica diveniva, ad esempio, una forma di delirio spiegata in termini fisiologici, non già in termini trascendenti; conseguentemente i soggetti non risultavano essere più dei peccatori, ma per l’appunto dei malati. (62)
Tuttavia, credo che il circuito comunicativo e gli elementi culturali profondi che hanno permesso l’emergere di questa specifica rappresentazione della malattia mentale, non strettamente legata peraltro ad una specifica etichetta (i pazienti potevano cioè essere classificati come affetti da mania, demenza, psicosi e presentare una descrizione della malattia sul modello esposto) riguardi in senso più profondo una ricognizione generale sull’essere umano. La psichiatria, fin dalla sua stessa fondazione, pone al centro dei suoi interessi i disturbi della volontà individuale, dell’intelletto, dell’immaginazione. L’ampia riflessione sulla mania di Pinel e di Esquirol ha riguardato i diversi modi in cui in seguito ad eccitazione nervosa si potevano registrare delle lesioni delle facoltà affettive o, nella forma delirante più grave, delle lesioni delle funzioni intellettive, emotive e della coscienza di sé. La maggiore preoccupazione era quindi quella di indagare sulle alterazioni della facoltà pensante e sulla sovversione delle affezioni morali e sensibili. Le due sfere non erano necessariamente collegate: era possibile che un individuo conservasse le proprie facoltà intellettuali integre e che solo quelle morali restassero alterate e pervertite, ossia che si mantenesse un nucleo di coscienza integro, ma che si avessero delle percezioni distorte. (63) Sotto questo profilo, la chiara finalità dell’intervento della psichiatria era volto a conservare l’unità dello spirito umano, quindi della sfera razionale e volitiva, nonché di quella delle percezioni sensoriali (64). Inseguendo i pensieri e le formulazioni dei pazienti, ricchi dei contenuti esaminati, gli psichiatri si pongono come regolatori del senso morale, scrutano e vogliono imporre una direzione alle passioni religiose, vogliono controllare i comportamenti sessuali e i sentimenti affettivi, contenere le fantasie. (65)
In conclusione, mi sembra che il punto di incontro tra tradizioni popolari e discorso scientifico sia rappresentato dalla riflessione sulla morale e sul comportamento da perseguire: in questo contesto, la riflessione sulla follia ha, infatti, riguardato il senso ultimo dell’essenza umana, il mondo morale, i comportamenti, le fantasie dell’uomo e le potenzialità della mente umana. Il mondo fiabesco e folklorico, pieno di insegnamenti morali, ricco di sguardi sui fini ultimi dell’uomo e sul mondo dell’aldilà, investe direttamente i problemi interiori e più squisiti dell’esistenza umana, proponendo giuste e rassicuranti soluzioni alle difficoltà del vivere in società.(66) La riflessione psichiatrica, considerata nei suoi aspetti culturali più profondi, proprio come il mondo incantato delle fiabe e tutto il complesso e variegato universo folklorico, si interroga e vuole offrire uno sguardo sui significati ultimi del senso dell’esistenza, sui comportamenti da perseguire, sui divieti e sui tabù da rispettare per la conservazione del legame sociale. Finisce pertanto col servirsi di questo patrimonio per consolidare i significati ultimi del proprio intervento, nonché degli obiettivi da perseguire.
In questo senso, la morfologia della fiaba ha quindi contribuito a costruire e stabilire i contenuti culturali profondi del disagio psichico nella forma assunta in questo specifico tornante storico. Successivamente, quando diverranno dominanti altri parametri culturali, altri elementi di frizione sociale e altri paradigmi scientifici né i pazienti né gli psichiatri parleranno più sistematicamente di diavoli, serpenti, fazzoletti incantati, metamorfosi animalesche.
NOTE
* Desidero ringraziare Alberto Banti, Alfonso Maurizio Iacono, Bruno Mazzoni e Lisa Roscioni per le utili indicazioni e per gli scambi di idee intercorsi nel corso della stesura del saggio.
- Il testo classico di riferimento è il suo Traité médico-philosophique sur l'aliénation mentale ou la manie, Paris, Richard, 1801 (trad. it. La mania. Trattato medico-filosofico sull'alienazione mentale, a cura di Francesco Fonte Basso e Sergio Moravia, Venezia, Marsilio, 1987); di pari rilievo è l’opera di Etienne Esquirol, allievo di Pinel, il cui contributo più importante è: Des maladies mentales considérées sous les rapports médical, hygiénique et médico-légal, voll. 2, Paris, Baillière, 1838. Sulle novità introdotte in seguito alla diffusione del modello teorico-pratico dell’alienismo, cfr. Francesco De Peri, Le origini dell'istituzione manicomiale e della scienza psichiatrica, "Società e Storia", n. 6, 1979, pp. 683-723; Id., Il medico e il folle: istituzione psichiatrica, sapere scientifico e pensiero medico tra Otto e Novecento, in Franco Della Peruta (a cura di), Storia d'Italia, Annali 7: Malattia e Medicina, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1057-1140; Jan Goldstein, Consoler et classifier. L'essor de la psychiatrie française, Luisant, Synthélabo, 1997 (ed. orig. 1987); Mario Galzigna, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Venezia, Marsilio, 1992.
- Sul concetto di follia in età moderna, cfr. Filippo Maria Ferro, Il Gran teatro della romana pietà, in Franca Fedeli Bernardini (a cura di), L'Ospedale dei pazzi di Roma dai papi al '900. Lineamenti di assistenza e cura a poveri e dementi, vol. II, Bari, Dedalo, 1994, pp. 27-39; Enrico Castelli et alii, L'Umanesimo e la follia, Roma, Ed. Abete, 1971 e Michel Foucault, Storia della follia nell'età classica, Milano, Rizzoli, 1992 (ed. orig. 1961), in particolare il capitolo I: Stultifera navis.
- Sul profilo istituzionale del manicomio di Roma, cfr. A. L. Bonella, Fonti per la storia della follia: S. Maria della Pietà e il suo archivio storico (Secc. XVI-XX), in L'Ospedale dei pazzi di Roma dai papi al '900, vol. I, Bari, Dedalo, 1994; sul profilo sociale rimando al mio Matti, indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale tra Otto e Novecento, Venezia, Marsilio, 2002.
- Sulla categoria di "costruzione sociale", cfr. Simona Cerutti, La construction des catégories sociales, in Jean Boutier-Dominique Julia (a cura di), Passés recomposés. Champs et chantiers de l’histoire, Paris, Autrement, 1995, pp. 224-34.
- In questa prospettiva si è mossa tutta la ricerca etnopsichiatrica; tra i principali contributi: George Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, Roma, Armando, 1978 (ed. orig. 1970); Tobie Nathan, La follia degli altri. Saggi di etnopsichiatria, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990 (ed. orig. 1986); Mario Galzigna (a cura di), La sfida dell’altro. Le scienze psichiatriche in una società multiculturale, Venezia, Marsilio, 1999. In riferimento alla storicità della malattia mentale, rimando ai lavori di Ian Hacking: La riscoperta dell'anima. Personalità multipla e scienze della memoria, Milano, Feltrinelli, 1996 (ed. orig. 1995); I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dada, Roma, Carocci, 2000 (ed. orig. 1998) e Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Torino, Einaudi, 1999 (ed. orig. 1998).
- Pierre J. G. Cabanis, La certezza della medicina, Bari, Laterza, 1974, (ed. orig. 1788). Di grande interesse sull'importanza della cartelle clinica è il contributo di Giuseppe Riefolo-Filippo Maria Ferro, Note sulla fondazione della psichiatria clinica: prassi dell'osservazione e nascita della "cartella", "Giornale storico di psicologia dinamica", XI, n. 22, 1987, pp. 177-202.
- Sulla fondazione degli istituti manicomiali in Italia, cfr. Filippo Maria Ferro, Note per una storia dei manicomi in Italia, "Giornale storico di psicologia dinamica", II, n. 4, 1978, pp. 161-76.
- Rimando alle note e penetranti pagine che Michel Foucault ha dedicato al tema in Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1982 (ed. orig. 1963).
- Cfr. per questi aspetti Annibale Fanali, La "ricostruzione" degli spazi e del pensiero attraverso i percorsi dell’esperienza psichiatrica alternativa, in Vinzia Fiorino (a cura di), Rivoltare il mondo, abolire la miseria. Un itinerario dentro l'utopia di Franco Basaglia (1953-1980), Pisa, ETS, 1994, pp. 55-68.
- Archivio storico Santa Maria della Pietà (d’ora in poi ASMP), Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Caterina F. – 1854.
- Un cenno al rapporto tra la fiaba e la follia è contenuto in Paola Elisabetta Simeoni, Religiosità popolare e sintomi psichiatrici nelle cartelle cliniche di S. Maria della Pietà (1891-1900), in Franca Fedeli Bernardini (a cura di), L'Ospedale dei pazzi … cit., pp. 167-83. Sulle cartelle cliniche come fonti letterarie ha lavorato Ermanno Cavazzoni; oltre alla sua opera letteraria, cfr. sul tema specifico il suo: L’archivio come fonte letteraria, in Danilo di Diodoro, Giuseppe Ferrari, Ferruccio Giacanelli (a cura di), Le carte della follia, Quaderni del Centro di Studi G. F. Minguzzi, Bologna, s. d., pp. 91-97.
- Da questo punto di vista accolgo la tesi di Ian Hacking incentrata sul concetto di "nicchia ecologica": essa è costituita dall’insieme del maggior numero di elementi culturali che sorreggono l’emergere di determinate patologie in un dato contesto e il cui venir meno ne decretano la fine in un momento successivo; i rimandi sono quelli citati alla nota n. 5.
- Analizzando le ragioni e le implicazioni sociali per le quali oggi, invece, la depressione si configura come la sindrome psichiatrica più diffusa, Alain Ehrenberg ha individuato nella nozione di successo e di affermazione personale il criterio decisivo per suggellare il valore della persona. La depressione si configura, pertanto, come il sentimento di insufficenza e di inadeguatezza dell’individuo in relazione a questi valori dominanti; è la tesi contenuta in La fatica di essere se stessi …cit.
- Si troverà l’universo culturale ampiamente e dettagliatamente descritto da Ernesto De Martino in tutta la sua opera (rimando principalmente a Il mondo magico, Introduzione di Cesare Cases, Torino, Boringhieri, 1973 (prima ediz. 1948) e a Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 1959); tuttavia la mia interpretazione si discosta significativamente da quella di De Martino: il mio obiettivo non è quello di insistere sulla specifica e fondamentale funzione rassicurante che questo patrimonio culturale ha svolto, quanto di cogliere la posta in gioco complessiva che ha interessato sia la cultura medica che quella dei ceti subalterni.
- Il testo di riferimento è ovviamente: Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1988 (ed. orig. 1928).
- Ho approfondito il valore simbolico del contatto con l’acqua per i malati di mente in Sedare la nervatura: l’idroterapia per i malati di mente tra scienza e tradizione, in "Parolechiave", n. 27, 2002, pp. 237-255.
- ASMP, Archivio sanitario, Libretti nosografici, Maddalena B. – 1885.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Immacolata G. – 1915.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Marianna M. – 1910.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Teresa B. in F. – 1910.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Albina D. A. – 1915.
- Filomena R. "racconta che è priva degli organi addominali e lo spazio è stato riempito da diavoli e serpenti": ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Filomena R. ved. R. – 1902.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Geltrude K. in S. – 1910.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Filomena R. ved. R. – 1902.
- Su questi temi, cfr. Jurgis Baltrusaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Milano, Adelphi, 1993 (ed. orig. 1972).
- Cfr., tra l’ampia bibliografia sul tema, Robert Delort, L’uomo e gli animali dall’età della pietra a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1987 (ed. orig. 1984).
- Propp, Morfologia della fiaba, cit., pp. 49 e ss.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Angela G. in G. – 1910.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Benedetto D. – 1910.
- In genere la fiaba come fatto folklorico è stata vista come aggregato di motivi e funzioni correlati con la tradizione storica mitica e religiosa: cfr. Max Lüthi, La fiaba popolare europea: forma e natura, Mursia, Milano, 1992 (ed. orig. 1947). Lo stesso Propp, trascurando il tema delle origini storiche della fiaba, in più luoghi non tralascia di auspicare lo studio delle connessioni tra elementi fiabeschi e le rappresentazioni religiose.
- In questa direzione, si colloca l’intera opera di Piero Camporesi; si veda in particolare Cultura popolare e cultura d’élite fra Medioevo ed età moderna, in Storia d’Italia, Annali 4: Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 81-157; cfr. anche Alfonso Maria Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri, 1976 e Elide Casali, Diavolo di fiaba. Il diavolo e l’inferno nella fiabistica italiana, in Adriano Prosperi (a cura di), Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, vol. I, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 219-239.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Pietro S. – 1895.
- Il motivo del divieto alimentare come "prova" è citato in Propp, Morfologia della fiaba, cit., p. 46.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Settimia V. – 1910.
- Propp, Morfologia della fiaba, cit., p. 65.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Vittoria P. – 1895.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Gavina S. in T. – 1895.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Teresa A. in D. P. – 1910.
- ASMP, Archivio sanitario, Libretti nosografici, Adele F. – 1885.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Filomena R. ved. R. – 1902.
- "Salvami – dottore mio", sono le parole di Gavina S. in T. citate a pag.
- Propp, Morfologia della fiaba, cit., p. 79.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Nazzareno V. – 1895.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Agostino N. – 1910.
- Lüthi, La fiaba popolare europea… cit.
- Sulla diffusione dello stereotipo che simboleggia il raggiungimento dello stato di grazia del protagonista del racconto attraverso la conquista di un palazzo, preferibilmente di vetro, al cui interno sono presenti ricchezze di vario genere, cfr. Eleasar M. Meletinskij et alii, La struttura della fiaba, Palermo, Sellerio, 1977 (ed. orig. 1969).
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Margherita A. – 1895.
- Cesare M., demente morto dopo qualche mese di ricovero, pronuncia discorsi in cui "ricorrono frequentemente idee di grandezza, come quelle di avere dei miliardi o di essere padrone del mondo": ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Cesare M. – 1910.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Teresa T. – 1895.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Leopoldo V. – 1895.
- Il tema del delirio di grandezza riferito a importanti filosofi e pensatori oggetto di studio ed intervento clinico da parte di grandi psichiatri francesi del primo Ottocento, è affrontato in Mario Galzigna,La malattia morale, cit., pp. 186 e ss.
- Cfr. Michele Gerardo Pasquarelli, Medicina, magia e classi sociali nella Basilicata degli anni Venti. Scritti di un medico antropologo, Galatina, Congedo edizioni, 1987, vol. 2, in particolare pp. 603 e ss. e Gian Paolo Caprettini et alii, Dizionario della fiaba: simboli, personaggi, storia delle fiabe regionali italiane, Roma, Meltemi, 1998, ad vocem.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Elisabetta R. – 1870.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Silvio C. – 1915.
- Gian Paolo Caprettini et alii, Dizionario della fiaba., cit. ad vocem.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Amalia D. G. in B. – 1910.
- ASMP, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, Angelo M. – 1895.
- Sul tema, rinvio a Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, Einaudi, 1989, in particolare il capitolo Ossa e pelli. Un’incisione del Diavolo zoppo del 1512 è riprodotta tra le illustrazioni (n.19).
- Cit. in Italo Calvino ( a cura di), Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare, Torino Einaudi, 1956, pp. 801-03.
- André Jolles, Forme semplici. Leggenda sacra e profana, mito, enigma, sentenza, caso, memorabile, fiaba, scherzo, Milano, Mursia, 1980 (ed. orig. 1930).
- Tutti i principali trattati di psichiatria insistono sugli effetti psicopatologici delle esagerazioni del sentimento religioso, frutto di fanatismo, nonché delle caricature fantastiche proprie del mondo folklorico; tra i tanti interventi, cfr. Enrico Toselli, Sulla religiosità degli epilettici, in "Archivio italiano per le malattie nervose", a. XVI, 1879, pp. 69-102.
- Questa tesi, a lungo accreditata, è stata recentemente riproposta da Ann Goldberg in un suo studio su un manicomio tedesco: tali forme patologiche furono al centro di un vasto dibattito pubblico in cui la posta in gioco era sconfiggere la diffusione tra le classi popolari del pietismo che si stava configurando come una minaccia al radicamento dei valori liberaldemocratici. La battaglia, quindi, condotta dalla prima generazione di psichiatri riguardava il corretto comportamento del cittadino compartecipe della sovranità popolare e costituì per loro l’occasione per accreditarsi come nuove figure professionali; cfr. il suo: Sex, Religion and the Making of Modern Madness. The Eberbach Asylum and German Society (1815-1849), Oxford, Oxford University Press, 1999, in particolare il cap. 2: Religious Madness in the Vormarz.
- Mario Galzigna, Soggetto di passione, soggetto di follia, saggio introduttivo a Etienne Esquirol, Delle passioni considerate come cause, sintomi e mezzi curativi dell’alienazione mentale, Venezia, Marsilio, 1982 (ed. org. 1805), pp. 7-49.
- Questi temi, del tutto centrali nel dibattito ottocentesco, sono ripresi con particolare efficacia da Carlo Livi, in Delle frenopatie considerate patologicamente in genere e in ispecie, in "Archivio italiano per le malattie nervose", a. I, 1864, pp. 1-22; 129-149 e 317-324.
- Interessante al riguardo il caso esaminato e commentato da Giuseppe Amadei e Silvio Tonnini, La paranoia e le sue forme, Osservazione III: Paranoia degenerativa tardiva semplice di natura superba a contenuto religioso-erotico, in "Archivio italiano per le malattie nervose", a. XXI, 1884, pp. 61-64.
- Su questi aspetti, cfr. l’interpretazione di Bruno Bettelheim in Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 2002 (ed. orig. 1976).
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