Introduzione di Paolo Migone
Anche questo contributo, come i due precedenti (il dibattito sulla IPT e la critica alla definizione di psicoanalisi data da Hautmann), non espone direttamente un approccio psicoterapeutico, ma una discussione critica di esso, in modo tale che possano meglio emergere alcune delle questioni nodali. Si tratta di un contributo su Karl Jaspers, e sulla psicoterapia ad orientamento fenomenologico, di Mauro Fornaro, filosofo e psicologo, docente di Storia della Psicologia presso l'Università Cattolica di Milano. Fornaro si è occupato a fondo della psicoanalisi: ha scritto ad esempio importanti volumi quali Scuole di psicoanalisi. Ricerca storico-epistemologica sul pensiero di Hartmann, Klein e Lacan (Milano: Vita e Pensiero, 1988), Psicoanalisi tra scienza e mistica. L'opera di Wilfred R. Bion (Roma: Studium, 1990), Il soggetto mancato. La psicologia del Sé di Heinz Kohut (Roma: Studium,1996).
La rivisitazione di un momento chiave della storia della psicopatologia riporta a galla una questione di viva attualità: perché la psichiatria e psicoterapia fenomenologica, pur avendo molti punti di contatto con la psicoanalisi, ne prendono anche polemicamente le distanze? E perché la psicoanalisi ha pressoché ignorato l'approccio fenomenologico? Inutile insistere sulle ricadute anche cliniche delle diverse impostazioni riguardo a possibilità e modalità di trattamento delle psicosi. Inoltre mi chiederei, oltre a quanto affronta Fornaro: perché le correnti fenomenologiche si sono fatte ben presto largo nelle istituzioni psichiatriche come alternativa ai modelli organicistici, mentre la psicoanalisi ha stentato a penetrarvi fino a tempi recenti? Infine non dimenticherei che varie tesi della psichiatria fenomenologica, quali quelle esposte da Fornaro riguardo l'opposizione alle classificazioni nosografiche e una certa diffidenza verso le teorizzazioni, sono state in seguito cavalli di battaglia delle correnti di anti-psichiatria (cui dobbiamo non poco, nel bene come nel male). Ben venga dunque anche una rilettura dei fondamenti teorici di questi indirizzi: come argomenta Fornaro nella Seconda parte del suo intervento, la difettosità della psichiatria fenomenologica deriverebbe in ultima analisi da una visione obsoleta del rapporto tra scienze umanistiche e scienze della natura, tra processi mentali e processi somatici.
Questo documento di Mauro Fornaro dunque è la Prima parte di due parti. Nella Seconda parte, nella quale approfondisce meglio le sue argomentazioni contro l'opposizione tra scienza dello spirito e scienza della natura, risponde in parte anche allo stimolante dibattito suscitato in rete, sia all'interno della lista di "Psichiatria" [Psich-ITA] di POL-it coordinata da Francesco Bollorino, che della lista di "Psicoterapia" [PM-PT] di Psychomedia coordinata da Marco Longo, Salvatore Manai e Paolo Migone. Più precisamente, dopo la originaria pubblicazione della Prima parte come terzo documento dell'area di "Psicoterapia" nel numero di Dicembre 1997 (3, 12) di POL-it, vi sono stati gli interventi critici di Andrea Angelozzi e Salvatore Manai che hanno suscitato una risposta di Fornaro stesso al quale hanno fatto seguito altri interventi di Manai e Angelozzi: questo scambio di lettere viene pubblicato come quarto documento dell'area di "Psicoterapia", e quindi tenuto separato da questo contributo di Fornaro che vuole avere un carattere più organico.
1. Un incontro tangenziale
E' scontata l'importanza straordinaria dell'opera di Karl Jaspers – con il capolavoro del 1913, Allgemeine Psychopathologie e la sua "resistenza" tra i manuali di psichiatria più adottati (sette edizioni dal 1913al 1959). Considero qui Jaspers come campione dell'orientamento di psicoterapia ad orientamento fenomenologico per il carattere pionieristico della sua impostazione, tanto da diventare, notoriamente, punto di riferimento ineludibile anche per quegli sviluppi della fenomenologia indipendenti da lui o da lui divaricanti.
Non si può ignorare che Jaspers sarà severamente critico verso le psicologie fenomenologico-esistenziali: da un lato sarebbero indebite generalizzazioni di esperienze psicologiche nell'intento di costruire un'ontologia; dall'altro lato "quest'ontologia induce in errore, quando si crede di aver ottenuto con essa una conoscenza fondamentale per intendere l'uomo e tutti i fatti psicologici" (Jaspers, 1959, p. 827); Jaspers dal canto suo non fa scuola e disprezza anzi il fatto che una dottrina possa prevalere in forza del numero e dell'organizzazione dei seguaci, più che non del suo intrinseco valore (cfr. la polemica in merito con la psicoanalisi in Jaspers, 1959, pp. 822ss.).
Ciò che colpisce è che mentre Jaspers elabora nella prima decade del secolo la fortunata nozione di psicologia comprendente o comprensiva (verstehende Psychologie) – originale se non proprio nei concetti che la sottendono, però nell'applicazione alla psicopatologia -, negli stessi anni matura la prima fase del pensiero psicoanalitico. Ebbene, è dato assistere a un'insanabile divaricazione tra due linee di pensiero che pur hanno in comune: a) l'opposizione al riduzionismo biologistico del disturbo mentale, prevalso nel clima positivistico di fine '800; b) il rifiuto di rigide classificazioni nosografiche, quali appaiono in Kraepelin e nella psichiatria costituzionalista; c) infine un approccio alla psichicità e al malato, che in senso lato può dirsi fenomenologico.
Insisterei sull'approccio fenomenologico, per il quale è dato peso di realtà, sia pure realtà psichica, a ciò che il malato soggettivamente vive e dice di sé, in polemica con gli indirizzi psichiatrici che riducono il vissuto, il discorso e poi le fantasie, i deliri, ecc., a epifenomeno di un soggiacente stato morboso. Tanto i due indirizzi lo abbracciano, quanto poi si distanziano nel ruolo ad esso riservato. Jaspers si ferma a ciò che è immediatamente esperito, essendo inteso il fenomeno come termine primo ed ultimo della psicologia comprendente; per Freud invece il fenomeno, cioè il vissuto cosciente (rappresentazioni, affetti),è trampolino per interpretazioni che vanno oltre, hinter das Bewusstsein, dietro la coscienza, scrive già nel 1898 all'amico Fliess. Ed è altresì trampolino per passare a un approccio che, oltre a trovare un senso al sintomo, vuole "spiegare", introducendo una concettualizzazione non direttamente riconducibile al fenomeno qual è vissuto, bensì prossima alle impostazioni invalse in seno alle scienze della natura. In effetti la psicoanalisi si caratterizza, specie a partire dal 1915 coi lavori freudiani dedicati alla metapsicologia, come l'impresa di coniugare "rappresentazione" (fenomeno) e "apparato psichico" (teoresi), clinica e sistema, descrizione e spiegazione, senso e causa.
Come ciò è possibile? E' la psicoanalisi, come pensa Jaspers, una sorta dimostro – se il mostro è l'animale dell'impossibile giustapposizione di organi eterogenei -, dal momento che pretende di coniugare approcci incompatibili (quali appunto descrizione e spiegazione, causa e senso, psicologia e biologia, ecc.). O invece, si potrebbe ribattere, non è forse vero che essa addita orizzonti più ampi di conoscenza, per quanto possano poi comportare non pochi problemi metodologici? In questo dilemma è possibile intravedere le premesse della divaricazione e per lo meno della ricusazione jaspersiana della psicoanalisi. Secondaria e comunque più soggetta ad opzioni metafisiche appare invece l'altro elemento di divaricazione – per altro ricorrente un po' in tutte le correnti di psichiatria fenomenologica -: la critica alla psicoanalisi di avere una concezione naturalistica, quando non materialistica e pansessualistica dell'uomo.
Per poter cogliere appieno la divaricazione, occorre collocarla nel suo contesto. Sono infatti all'opera due diversi paradigmi di psichicità: una netta separazione tra l'approccio biologico e quello psicologico in Jaspers, una più duttile e problematica dialettica in Freud. Inoltre due diversi paradigmi di scienza: una rigida separazione tra Geistes-e Naturwissenschaften (scienze dello spirito e scienze della natura)in Jaspers, includendo la sua psicologia comprendente senz'altro tra le prime e opponendosi ad introdurre in psicologia metodi propri delle seconde; un'intima vocazione alla compenetrazione tra i due modelli di scienza in Freud – nonostante la tardiva affermazione del 1933, doversi includere la psicoanalisi tra le scienze della natura.
2. Il fenomeno: dato primo, e ultimo
Ai fini qui esposti, tra i testi jaspersiani occorre tener presente oltre la Psicopatologia generale gli articoli a carattere metodologico che paiono ad essa preparatori,Die phänomenologische Forschungsrichtung in der Psychiatrie (1912) [La direzione di ricerca fenomenologica in psichiatria] e soprattutto Kausale und "verständliche" Zusammenhänge (1913) [Rapporti di tipo causale e rapporti di tipo "comprensivo"]. Vi si trovano raccolte in stringente sintesi quelle idee metodologiche, che nella successive edizioni della Psicopatologia goderanno di qualche aggiunta solo in funzione della visione filosofica nel frattempo maturata.
Jaspers organizza l'intera Psicopatologia secondo una linea che definirei "metodologistica". "Noi riusciamo a possedere il dato di fatto – afferma Jaspers (1959, trad. it., p. 46) – solo attraverso il metodo (…). Perciò una strutturazione metodologica è anche analisi obiettiva di ciò che è, come è per noi". Di più occorre, con accenti kantiani, "sviluppare e ordinare le conoscenze sul filo dei metodi coi quali si acquisiscono; conoscere il conoscimento e con ciò chiarire le cose" (1957,trad. it., p. 33).
Ebbene, vari punti di vista coesistono in psichiatria, tutti plausibili nell'ambito che ciascuno delimita, ma da tenere ben distinti; il punto di vista biologico è più che legittimo a livello dei processi cerebrali, dove ovvie e necessarie sono le spiegazioni causali; così come all'approccio statistico è necessario l'intervento dello strumento matematico; ecc. Quanto alla psicologia comprendente, essa fa un passo oltre la fenomenologia in senso stretto, la quale si limiterebbe a descrivere gli stati psichici (seelische Zustände) per come si manifestano alla coscienza – a prescindere cioè dalla corrispondenza o meno con la realtà fisica (parte I della Psicopatologia) -: il dato percettivo, quello rappresentativo, quello mnestico, quello allucinato, quello delirante, ecc.(Jaspers, 1913, pp. 160, 166; 1959, trad. it., p. 58s). La psicologia comprendente mira, di più, a descrivere le relazioni, i nessi (Zusammenhänge) che si istituiscono tra quegli stati, specie come derivazione dell'uno(rappresentazione, immagine, affetto, ecc.) dall'altro. Ne risulta una comprensione essenzialmente genetica (genetische Verstehen): le relazioni comprensibili focalizzano come un vissuto proceda dall'altro.
Si direbbe che tali relazioni insistano sulla medesima area su cui i rapporti "dinamici" freudiani tra rappresentazioni. Ma non vi sono per Jaspers rapporti dinamici, perché il collegamento tra un vissuto e l'altro non è del tipo di una relazione causale, come vuole Freud, tanto meno se supportata da forze o energie, bensì del tipo di una affinità tematica, di una inerenza o complicazione di significato dell'un vissuto con l'altro (Zusammenhang dei vissuti, cioè alla lettera "pendenza assieme"). Ad esempio, il rapporto comprensibile tra vissuto depressivo e atmosfera autunnale consiste nel fatto che l'autunno significa un calo, metaforicamente una depressione, dell'attività della natura, una perdita (di luce, di foglie ecc.), e non nel fatto che i fenomeni autunnali citati, o meglio la loro rappresentazione soggettiva, causino lo stato depressivo. C'è una "pendenza assieme" di senso tra autunno e depressione, della quale l'autunno è prototipo.
Il senso è dunque da cercarsi nella connessione di significato (analogie, metafore, metonimie) tra un'immagine, un vissuto e un altro, quali si presentano nel soggetto. La ricerca del senso incontra pertanto, e Jaspers non ha difficoltà ad ammetterlo, dei forti limiti: non va oltre il vissuto dato, immediato, e al più focalizza qualcosa di non ancora notato (Unbemerkte). Inoltre nulla possiamo dire di vissuti estranei alla nostra esperienza: così la psicosi, con i suoi vissuti di allucinazione e di disintegrazione, resta "incomprensibile" (unverständlich) per il medico, che il più delle volte non può averne fatto esperienza. Questi limiti certo costituiscono un handicap in ordine alle possibilità terapeutiche e forse un pregiudizio all'operatività dell'approccio fenomenologico. Lo handicap è confermato dal carattere meramente descrittivo che tale approccio vuol avere: la rinuncia alle cause compromette le possibilità fornite da un approccio eziopatologico a pieno campo, per il quale togliendo la causa si toglie il disturbo. Si mira piuttosto a che il paziente comprenda il "senso" della sua malattia e ristrutturi di conseguenza il senso del suo vivere. Così naturalmente lo psichiatra fenomenologo si approssima al filosofo dell'esistenza e la seduta terapeutica a un colloquio filosofico. Il che si illustra pure con quanto accaduto in seguito: la rinuncia a penetrare più a fondo nelle dinamiche psichiche non immediatamente evidenti della malattia psichica grave, il demandare alla biologia (al cervello) la causa favoriscono che lo psichiatra di orientamento fenomenologico finisca, malgré lui, coll'adottare la terapia farmacologica come trattamento primario, se non elettivo nei disturbi gravi.
La proibizione ad andare oltre al fenomeno, cioè oltre al vissuto immediato, se è un'autolimitazione, comporta altresì la ricusazione dell'idea di uno psichismo inconscio. In effetti l'inconscio contemplato da Jasperssi qualifica da un lato come extraconscio (Ausserbewusste), che consiste nelle componenti biologiche, ambientali; dall'altro come l'inosservato, il non ancora notato (Unbemerkte) appunto. Se l'extraconscio esula dai rapporti di comprensione perché non è psiche, l'inosservato, ma già vissuto, è quanto la psicologia comprendente ha da evidenziare. E poiché questa forma di psichicità non gode certo di autonomia rispetto alla coscienza, essa è solo coscienza oscura, vissuto non messo a tema. Ne consegue che la "comprensione" jaspersiana è fermamente legata alla centralità della coscienza: lo psichico vale in quanto coscienza, altrimenti si è ricondotti al soma o all'ambiente.
3. L'attaccoalla psicoanalisi: un comprendere "come se"
L'inconscio freudiano, è facile intuire, consistendo in una forma di psichicità diversa e autonoma dalla coscienza, è impensabile entro questo schema. Se qualcosa se ne può salvare, dovrebbe stare dalla parte dell'extraconscio, che andrebbe studiato con altro metodo, quello della psicofisiologia. Mala psicologia comprendente è tosto ricambiata dallo psicoanalista con una ricusazione che si direbbe preliminare, per via appunto dell'identificazione dello psichismo col conscio (ritengo che questa sia la ragione per cui Freud non citi pressoché mai Jaspers). Al contrario il fenomeno, si diceva, in quanto vissuto conscio è ciò che va oltrepassato, essendo il senso di un comportamento patologico per lo più inconscio. E mirare a processi inconsci non è un salto indebito dallo psichico al somatico, come insinua lo psichiatra fenomenologico. Certo, l'inconscio nella sincronia è per definizione inconoscibile, ma nella diacronia – cioè attraverso un processo di associazioni più o meno lungo – si dà a conoscere al pari di qualunque vissuto cosciente, nella forma di immagini (rappresentazioni) e affetti presenti alla coscienza. Se vogliamo è "fenomeno" in potenza.
Il motivo del confronto con Freud in sede metodologica, già presente nell'articolo del 1913, ritorna coi medesimi termini nella Psicopatologia, per restare sostanzialmente immutato nelle successive edizioni. L'apprezzamento complessivo del pensiero freudiano, dapprima improntato a cauta apertura, diventa in seguito piuttosto freddo. Jaspers riconosce il valore dell'impresa psicoanalitica, quando essa fornisce conoscenze nel senso dei rapporti di comprensione, benché Freud le ritenesse spiegazioni causali (come si vede, la tesi di Habermas, che Freud sarebbe stato vittima di un autofraintendimento quando reputa la psicoanalisi scienza della natura, è in sostanza già jaspersiana). Ma l'impresa freudiana certo erra, quando pretende di ricavare dalle relazioni comprensibili inferenze circa entità soggiacenti alla realtà immediatamente data. In questo tentativo della psicoanalisi, di utilizzare le relazioni comprensibili come mezzi per pervenire a relazioni causali o peggio per attestare l'esistenza di certi elementi come entità causanti, consisterebbe una forma ibrida di conoscenza: il comprendere "come se" (Verstehen "alsob"). Come se, cioè, gli elementi supposti fossero comprensibili, ovvero dei vissuti (Jaspers, 1913, pp. 166, 170; 1959, trad. it., pp. 332,552s.)
Se questa è in sostanza la critica all'impostazione del "come se", essa a ben vedere riguarda non solo la psicoanalisi, ma pure l'ampia gamma di autori, che sono ricorsi a termini teorici, per dar ragione di connessioni psichiche effettivamente vissute. E' utile ricordarli a ulteriore chiarimento della nozione di comprensione "come se". Il pur grande Eugen Bleuler – secondo Jaspers (1913, p. 170) – farebbe considerazioni azzardate, quando suppone un vissuto di scissione (Abspaltung) nel soggetto, onde render conto dei nessi presenti nella fenomenologia della dementia praecox; in generale susciterebbe perplessità la gran serie di relazioni comprensibili individuate nelle psicosi dalla scuola di Zurigo, Jung in testa. Non meno discutibile appare la tesi di Charcot, quando rintracciava una correlazione tra le paralisi, le anestesie delle isteriche e le loro grossolane rappresentazioni anatomo-fisiologiche d el corpo, come se la correlazione fosse comprensibile, quando in realtà non si sa se quelle rappresentazioni siano punto d'avvio del disturbo.
In altri termini, Freud confonderebbe concetti metodologici di pertinenza di una scienza della natura con concetti pertinenti una scienza dello spirito: lo psichico può scaturire solo dallo psichico, ribadisce Jaspers, e la connessione, sia essa attualmente cosciente o non ancora osservata, può essere solo tra stati che si danno fenomenicamente. Altrimenti si ricade nello schema naturalistico della spiegazione, dove l'un termine è estrinseco all'altro e l'effetto può anche essere psichico, ma la causa è comunque extrapsichica. In particolare le ricostruzioni "archeologi che "freudiane sarebbero inattendibili, perché l'archeologo ha gli strumenti per mostrare che esistette il pezzo mancante, non altrettanto lo psicoanalista nella ricostruzione dei vissuti dell'infanzia, quando si avvale dei rapporti di comprensione.
Infine la psicoanalisi, nella misura in cui vuole raccogliere la psichicità in una teoria unificante – mirando a spiegare alcunché con pochi concetti, al limite con uno solo, quello di sessualità – contravviene al carattere sempre singolare, infinitamente multiforme delle espressioni dello psichico (Jaspers, 1959, trad. it., p. 581). Questa opposizione alle teorie generali per altro è motivo ricorrente tra gli psichiatri fenomenologi ed è sfociata poi, notoriamente, nei movimenti di anti-psichiatria. In questi ultimi torna inoltre il motivo già jaspersiano della ricusazione della teoria perché lontana dal vissuto. In effetti per Jaspers pare non possa esservi una logica propria del vissuto, un darsi cioè del vissuto stesso in leggi, regolarità, uniformità. Una teoria che tenti di organizzare il vissuto, fornendone un'assiomatica e una definizione in concetti, esula dalla comprensione; piuttosto rinvia ad altro metodo, nel quale inevitabilmente il vissuto è eluso. Donde si inferisce il sogno segreto di ogni metodo imperniato sulla comprensione e l'intima ragione della diffidenza per ogni forma di mediazione teoretica: il sogno di un dire che sia ad un tempo il medesimo vivere di cui si dice e di un vivere che sia il medesimo dire che si vive.
4. Fallacia dell'opposizione scienza dello spirito, scienza della natura
Si potrebbe ribattere all'impianto jaspersiano sul piano clinico, mostrando ad esempio la possibilità, oltre alla necessità, di superare il muro dell'"incomprensibile" nella clinica della psicosi. Altri l'ha fatto. Piuttosto il passo ulteriore che vorrei proporre è di andare a fondo nel paradigma epistemologico attraverso cui Jaspers si oppone alla psicoanalisi, saggiandone la consistenza. Infatti, se Jaspers attaccala psicoanalisi quale ibrida disciplina del comprendere "come se", in definitiva è perché si aggancia a una discutibile opposizione tra spiegazione e comprensione, tra scienza della natura e scienza dello spirito e inoltre il suo approccio metodologistico lo conduce a una rigida separazione di ambiti. In lui i diversi metodi solo coesistono, mentre paiono esclusi pregiudizialmente momenti di integrazione tra le categorie epistemologiche di rispettiva competenza. Ed è da sottolineare chele medesime opposizioni di categorie epistemologiche continuano per lo più a valere tra gli psichiatri di matrice fenomenologica. Nonostante tutto, poi, esse sono nella sostanza riproposte anche fuori della psichiatria fenomenologica: si ricordi il cosiddetto Methodenstreit (lotta attorno al metodo), che contrappose negli anni `60 Popper a Habermas. Inoltre lo stesso Grünbaum (1984), mentre mette in guardia la psicoanalisi dalla sirena dell'ermeneutica se scienza (della natura) vuol essere, rifiuta di cogliere le istanze provenienti dall'altro versante.
E' punto comune alla maggior parte degli orientamenti fenomenologici appoggiarsi alla consistente tradizione di ricerca fiorita tra storici, filosofi, sociologi economisti tedeschi a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, per la quale le scienze in generale sono ripartite entro e maglie della distinzione tra Geistes- e Naturwissenschaften. Ora vorrei mostrare come quella distinzione si sia rivelata una camicia di forza per lo sviluppo della psicopatologia e come del resto non corrisponda oggi né agli sviluppi delle scienze né trovi conforto nelle riflessioni epistemologiche. E' da chiedersi se la psicopatologia non esiga, assieme ad altre discipline quali la linguistica, la cibernetica, la sociologia, di ridisegnare la mappa di quelle stesse categorie epistemologiche. Le categorie epistemologiche, già in parte anticipate, possono trovare espressione schematica, al fine di facilitare il confronto, nel quadro sinottico qui sotto proposto, e composto a partire dagli stessi riferimenti jaspersiani.
A. SPIEGAZIONE ————————————–B. COMPRENSIONE/DESCRIZIONE
(scienze della natura) ——————————(scienze dello spirito)
1. Rapporti causali ————————————–Rapporti (genetici) di senso
2. Fisico, Sensibile, Esterno ————————Psichico, Fenomenico, Interno
3. Conoscenza mediata, per induzione ———-Conoscenza immediata, per intuizione
4. Legalità, Universalità ——————————–Particolarità, singolarità
5. Ragione, Logica ————————————–Empatia, Affetto
6. Sussunzione del termine da spiegare
nell'universale di una classe -> Deduzione——Idealtipo -> Interpretazione
7. Conclusioni esaustive, necessarie ————-Conclusioniincomplete
8. Teorie —————————————————–Aforismi (Aphorismen)
9. Extraconscio ——————————————-Inosservato (Unbemerktes)
10. Estensione illimitata della spiegazione —–Estensione limitata d. comprensione
11. Psicologia sperimentale ————————–Psicologia comprendente
Le coppie dalla 1 alla 6 recepiscono le classiche dicotomie avanzate nel contesto dello storicismo tedesco (Dilthey, Simmel, Rickert, Weber).La coppia 9 vale nell'ambito della psicologia ed è la soluzione jaspersiana della questione dell'inconscio: il senso che attualmente mi sfugge, si diceva, è solo un che di inosservato. La coppia 10 dipende dalla tesi tipicamente jaspersiana della limitatezza (Beschränktheit) del comprendere: v'è dell'incomprensibile (Unverständliches), perché non in tutti posso immedesimarmi empaticamente. Al contrario la conoscenza che spiega dall'esterno (extraconscia), non conosce limiti di principio (Unbeschränktheit des Erklärens), come appunto accade nelle scienze naturali, che non prevedono la immedesimazione del soggetto con l'oggetto di conoscenza.
Ciò che colpisce nella distinzione metodologica jaspersiana è la rigida attribuzione dell'un termine di ciascuna coppia alla spiegazione e del suo complementare alla comprensione, di modo che spiegazione e comprensione sono definite da due classi di concetti tra loro disgiunte. Pertanto gli elementi appartengono ciascuno necessariamente alla propria classe, nel senso che la sostituzione col proprio complementare creerebbe contraddizione entro la classe data. Appare così inconcepibile che, ad esempio, la causalità possa esser compatibile con la comprensione (entro le scienze dello spirito) o che la particolarità del caso singolo possa entrare nella spiegazione, che dal canto suo è formulata in termini di leggi, di universali. La rigida distinzione tra le due classi si direbbe un retaggio culturale di Dilthey (1894), attraverso il quale Jaspers dapprima si accosta al metodo delle scienze dello spirito; ma essa non può non suscitare sorpresa, venendo riproposta da parte di chi si richiama in più luoghi all'insegnamento di Weber, che anzi ritiene suo maestro.
Nel saggio del 1932 (trad. it., pp. 57 ss.) a lui dedicato, Jaspers non ignora le tesi metodologiche di Weber; nell'Autobiografia (1957) gli ribadisce la sua ammirazione. Ipotizzerei allora che Jaspers ritenesse di poter ricondurre i concetti epistemologici weberiani, segnatamente quello di idealtipo di cui più sotto, interamente al quadro epistemologico del comprendere, trascurandone gli impliciti caratteri esplicativi e di legalità; che inoltre deliberatamente ignorasse, nel presente contesto, la tesi weberiana sulla compatibilità di causalità e "possibilità oggettiva" con la descrizione o comprensione dell'evento storico singolo, perché contraddittoria colle proprie tesi.
Infatti proprio Weber è colui che in certo modo "rimescola le carte" delle due classi di concetti, non escludendo le nozioni di causalità, legalità, universalità dalla ricerca storiografica e dunque dalle discipline che lavorano col comprendere, della quale nozione tiene fermi tra l'altro l'interpretazione, il carattere singolare dell'evento storico. Sfortunatamente, per quel che ne so, il discorso non risulta sviluppato nel senso weberiano da altri psichiatri di orientamento fenomenologico.
Occorre tornare a dar voce a Jaspers, per appurare il significato che attribuisce ai concetti salienti tra quelli elencati. Il concetto di causa è certo emblematico, tanto da essere sinonimo di spiegazione, come appare nel titolo del citato articolo del 1913, dove a comprensibile (verständlich) viene senz'altro contrapposto causale (kausal). Ai rapporti causali, che vedono l'estrinsecità tra causa ed effetto, si contrappongono i rapporti di comprensione o genetici (coppia 1 sopra), che mirano ad individuare lo psichico in quanto scaturisce dallo psichico medesimo. Ma perch� la causalità si dà solo dal lato della spiegazione, ovvero della scienza naturale? Si nota che in Jaspers causalità vale nel senso della causa efficiente prevalente in fisica, per cui la causa suppone una forza: pur rendendosi conto che già la biologia esige forme di causalità non lineari ma come insiemi di rapporti "circolari", come meccanismi a feed back diremmo oggi, tuttavia opta per la riconduzione di ogni forma di causa alla causalità fisico-meccanica, alla quale, a suo dire, "non si aggiunge nessun'altra causalità biologica nuova. Ogni causalità riconosciuta ha carattere meccanico"(Jaspers, 1959, trad. it., p. 487).
Di contro sia consentita la parentesi di notare come in seno alla biologia stessa si faccia nuovamente valere la nozione di causa finale, sia pure nel senso di una finalità preterintenzionale o "teleonomica", per stare all'espressione del grande biologo Mayr. Questo altro tipo di causa dice anche del senso di un fenomeno, come nell'esempio fatto dallo stesso Mayr (1981) della riproduzione sessuata: il senso del suo esserci, ovvero il suo fine, è di permettere una ricombinazione genetica più favorevole alla propagazione della specie.
Inoltre in psicologia per Jaspers, se c'è una causa (Ursache) di cui un certo stato o processo mentale è effetto, essa è soma: "… è concetto fondamentale che tutti i rapporti causali, tutto il substrato inconscio dello psichico abbiano la loro base in processi fisici" (Jaspers, 1959, trad. it., p. 491). Può essere questione di parole chiamare o no causa altri tipi di rapporto, tali che la presenza/assenza di A o la variazione di A abbia conseguenze su B (causa come ragion d'essere, causa come fine, causa come forma, causa come conseguenza logica); ma va rilevato il carattere limitativo dell'opzione meccanico-somatica di Jaspers nell'intendere la causalità. Fuori di tale opzione non si vede perché debba valere l'interdizione a parlare di causa nella correlazione tra una rappresentazione e l'altra ecc., nella motivazione o nell'intenzione che promuove un certo comportamento, senza dover di necessità supporre forze, o dover risalire alle basi somatiche. Un esempio, fuori della psicoanalisi e della psichiatria, è dato dalle correlazioni gestaltiche nella percezione, dove il nuovo elemento opportunamente collocato dà luogo alla ristrutturazione dell'insieme, ovvero appare alterato in funzione dell'insieme in cui è dato: ciò accade senza dover ricorrere, ma per via di semplici rapporti spaziali. Del resto la tesi jaspersiana della "genesi" di una datità psichica da un'altra pare comportare l'idea di una progettualità, che è qualcosa di più di una mera associazione. E perché allora respingere l'idea – come fa espressamente Jaspers – che la trasgressione, date certe condizioni, sia "causa" (sufficiente) del senso di colpa, l'amore tradito della gelosia, ecc.? Se dunque Jaspers non ha torto di rifiutare allo psichico una nozione di causa invalsa in fisica (limitata cioè alla causa efficiente e concepita come indissolubilmente legata a forze, a energie), è però vero che l'ampliamento della nozione, anzi la sua radicalizzazione nel senso di causa come motivazione e in generale causa come ragion d'essere di qualcosa, non ne esclude l'uso nell'area dello psichico.
La contrapposizione di induzione e intuizione (coppia 3) suppone una concezione positivistica circa il modo con cui si formulano le leggi e si costruiscono le spiegazioni nelle scienze naturali. Ancorché con una certa finezza Jaspers (1913, p. 162) osservi che il concetto di causa non è empirico, ma precede ogni esperienza dovendola spiegare, egli concorda tuttavia con l'epistemologia positivistica, nel ritenere il rapporto causale tra due fatti inferito dalla percezione sensibile esterna. E poiché diversa è l'esperienza dello psichico in quanto interno – Jaspers conclude – per cogliere lo psichico occorre adire a un altro tipo di conoscenza, alla "intuitiva rappresentazione dal vivo (anschauliche Vergegenwärtigung)" (Japers, 1913, p. 160). Ma la contrapposizione non regge: la rappresentazione intuitiva interviene anche nella psicologia della scoperta e della creazione di teorie nelle scienze naturali. In effetti l'induzione dai fatti obiettivi, assunta a canone anzi a dogma per la costruzione di leggi scientifiche in area positivistica, è cosa smentita dalla storia della scienza, prima che dalle acquisizioni epistemologi che successive al neopositivismo: è manifesto per quali e bizzarre vie oltre all'intuizione – fino alla rivelazione nel sogno – gli scienziati siano spesso pervenuti a formulare anche teorie di grande successo. Insomma, qui Jaspers attacca l'immagine positivistica della scienza, egemone al tempo della sua formazione culturale, come se fosse la scienza (naturale) tout court – cosa allora comprensibile, oggi non più perdonabile.
Tralasciando le riserve che si possono fare sulle saldature jaspersiane tra psiche-interno-fenomenico, fisico-esterno-sensoriale (coppia 2) – quasi che la psichicità non consistesse anzitutto in un protendersi, un rapportarsi a qualcosa d'altro e la distinzione tra interno ed esterno non fosse invece un guadagno successivo -, è ora opportuno soffermarsi sul tipo di convalida delle affermazione conseguite rispettivamente coi due metodi.
E poi interno o esterno rispetto a che cosa? Sappiamo che nello schema corporeo, nelle varie forme di identificazione con l'altro individuo, nel mondo di cui si dice "questo è il mio mondo", l'io si protende su di un'area' che non si può dire solo interna, né solo esterna.
Al contrario del fenomeno fisico, la cui oggettività (cioè non immanenza alla coscienza) obbliga ad inferenze logiche, a mediazioni, il fenomeno psichico sollecita nell'ottica jaspersiana un procedimento immediato, qual è appunto l'intuizione. Nel primo caso, la convalida di un'affermazione sarebbe principalmente data dalla prova sperimentale; nel secondo caso, il carattere immediato con cui si perviene ad un'affermazione, farebbe della medesima alcunché di evidente, e quest'evidenza "hatihre Überzeugungskraft in sich selbst" (Jaspers, 1913, p.162), cioè, alla lettera, "ha la sua forza di convinzione in se stessa" (cfr. anche Jaspers, 1959, trad. it., p. 326). Evidenza dunque versus verifica empirica.
A me pare che in Jaspers, e in ragionamenti analoghi ai suoi ricorrenti in area fenomenologica, si confonda il procedimento logico con cui si intende convalidare qualcosa, col procedimento psicologico o logico con cui si perviene a formulare quel qualcosa. Così la costruzione stessa di una spiegazione scientifico-naturale, si accennava poc'anzi, può esser frutto di intuizione, può risultare psicologicamente di folgorante evidenza, come l'eureka! di Archimede, ma non per questo la si ritiene ipso facto valida. Si deve certo riconoscere l'evidenza dell'esperienza vissuta, in quanto è quel che io immediatamente vivo: ma non per questo la descrizione di essa, e a maggior ragione le asserzioni che si fanno quando si trovano relazioni tra dei vissuti, sono di per sé valide. In altri termini, l'evidenza del vissuto non coincide con la validità della descrizione – e a maggior ragione della spiegazione – che se ne può dare.
A proposito Weber appare avvertito, quando in un'interessante escursione nel campo della psicopatologia afferma: "Non solo la 'psicoanalisi simpatetica (einfühlende Psychoanalyse)' di una psiche malata rimane proprietà incomunicabile dello specialista, ma per giunta i suoi risultati rimangono del tutto indimostrabili e perciò di validità assolutamente problematica, se non si riesce a collegare la connessione simpateticamente riprodotta nell'esperienza con i concetti ricavati dall'esperienza psichiatrica generale. I suoi risultati sono 'intuizioni' dello specialista 'su' di un oggetto, ma fino a che punto hanno oggettivamente valore, resta in via di principio incontrollabile" (Weber, 1903-06,trad. it., p. 106).
Ancora: l'evidenza dell'intuizione non è la validità evidente della conoscenza, quale si esprime in proposizioni – se è vero come è vero che pure la conoscenza "comprendente", quando è comunicata, non può non passare per il linguaggio. In effetti, il linguaggio comporta l'uso di predicati, dunque di concetti, le cui connotazioni sono sempre relative a una lingua storicamente data: anche le semplici parole della descrizione non sono etichette di cose, a loro volta ben delimitate, ma segmentano per così dire il fluire dell'esperienza e la segmentazione varia da una lingua all'altra. Ciò vale a maggior ragione quando ciascuno parla delle proprie emozioni, dove più evidente è la curvatura idiolettale, anche perché il referente nel caso di un'emozione non è una cosa esterna che tutti possono constatare(siamo certi che quando uno ci dice: "Sono depresso", oppure "Sono ansioso" sta usando le stesse parole che userei io, se avessi lo stesso sentimento?) E' poi lunga tradizione ritenere la parola giammai coincidente con la cosa di cui dice, sia pure un vissuto: il vissuto è una cosa, la parola che lo descrive è altra cosa – e insistere sulla coincidenza di descrizione e di vissuto è comunque fare una teoria! Insomma, la parola è per nulla trasparente rispetto al fenomeno che descrive e del linguaggio non si può fare epoché, al fine (illusorio) di una presa diretta e senza presupposti delle cose. Forse quanto vi è di incomprensibile in un vissuto dipende da questa struttura del linguaggio, che lo manca inevitabilmente quando vuol descriverlo, piuttosto che dal fatto che ci siano dei vissuti non suscettibili di comprensione empatica, come vuole Jaspers.
Ma anche qui occorre seguire Jaspers con pazienza, per non correre il rischio di forzarlo in una posizione schematica di facile bersaglio. In verità egli si dibatte tra concessioni all'evidenzialismo proprio del comprendere e la consapevolezza della complessità del caso singolo, non esauribile nella stessa comprensione. E' a questo punto che interviene il concetto weberiano di idealtipo (coppia 6 sopra): accolto da Jaspers, esso assume il significato di un nesso intuitivo, evidente, ma separato rispetto al composito materiale di una situazione concreta. "Tutta la psicologia comprensiva […] si basa su sentimenti di evidenza nei confronti di relazioni comprensibili, distaccate, completamente impersonali. Tale evidenza viene acquisita in occasione dell'esperienza concreta di fronte a personalità umane, ma non induttivamente dimostrata" (Jaspers, 1959, trad. it., p. 328). La conoscenza come verità evidente, in altri termini, varrebbe a livello di idealtipo, mentre a livello del singolo evento la comprensione resta incompleta (in gewissem Masse unvollständig).L'idealtipo interviene come connessione "ideale", la cui tenuta cioè è indipendente dal reale caso particolare: nell'idealtipo la connessione è evidente, non di necessità è reale. Pertanto il rapporto che si instaura tra idealtipo e caso singolo è quello di un'"interpretazione (Deutung)". L'evidenza idealtipica, anche se guadagnata in occasione di un caso particolare, è guida per la comprensione di quel caso e di altri casi particolari (Jaspers,1913, p. 163; 1959, trad. it., p. 329).
In linea di principio il caso singolo è suscettibile di ulteriore interpretazione, mentre la comprensione dell'idealtipo, resta nella sua idealità, esaustiva. E' l'esatto inverso di quanto accade, per Jaspers, nella spiegazione naturalistica, secondo la quale il caso singolo sarebbe dedotto nella legge generale. Qui l'universalità della legge (della teoria, del concetto), in quanto guadagnata per via induttiva, non gode di validità evidente (non è in sich überzeugend), come invece l'idealtipo, ma una volta che il caso particolare sia stato sussunto nell'universale della teoria, esso è colto in maniera necessaria, esaurito senza residui (coppia 7 sopra). Conclusione coerente è allora che la scienza naturale lavora attraverso la teoria (schemi astratti, universali); la psicologia comprendente invece lavora (interpreta, approda a conclusioni parziali, verosimili) attraverso quel tanto di generalità guadagnata nell'intuizione, folgorante per quanto frammentaria, offerta dall'"aforisma" (coppia 8 sopra). E infatti i maggiori "psicologi" comprendenti, osserva Jaspers, sono stati letterati e filosofi come Montaigne, Pascal, e, massimi, Kierkegaard e Nietzsche (Jaspers, 1913, p. 168; 1959, trad. it., p. 341, passim).
Sulla tesi che l'interpretare sia appannaggio del comprendere e delle scienze umane (con quel che consegue di incompletezza della descrizione e di non esaustione del caso singolo nel concetto universale), Jaspers va smentito. Il rapporto dell'interpretare collo spiegare nelle scienze naturali non è poi così diverso da quello col comprendere nella psicologia: quando mancano le condizioni sufficienti per poter spiegare il caso singolo si apre comunque il processo dell'interpretazione. In altri termini, un problema di interpretazione appare nelle scienze naturali, quando un fatto strano, originale, non è deducibile dalle leggi fin qui note, cioè quando mancano, per dirla con Hempel (1953) le "leggi di copertura" (e tanti sono i casi in cui si dispone solo di condizioni necessarie, ma non sufficienti a spiegare l'evento singolo).Si formulano allora una serie di congetture contestuali, in una aperta dialettica tra quel caso e qualche legge generale, nota o da ipotizzare. Anche nei più classici esperimenti di fisica, poi, vi è sempre un margine di interpretazione quando il risultato si discosta da quanto previsto dalla legge: bisogna ipotizzare ulteriori variabili intervenienti. Il fatto che in psicologia come in ogni scienza umana il soggetto interpretante sia lui stesso in gioco nell'oggetto da interpretare, è certo elemento specifico, ma non stravolge lo schema del rapporto spiegazione-interpretazione (anzi, se diamo retta alle posizioni epistemologiche di Kuhn, nel paradigma attraverso cui lo scienziato legge il mondo stesso della natura, è compreso lui stesso, con una concezione di sé e dei suoi scopi come uomo e come scienziato).
5. Comprendere "e" spiegare: il caso della psicoanalisi
Oltre agli aspetti non più sostenibili alla luce della recente epistemologia e storiografia delle scienze, le tesi jaspersiane mostrano difficoltà anche solo alla luce di un'analisi interna. Ad esempio, coerenza impone a Jaspers di giungere a conclusioni francamente paradossali. Se l'evidenza e l'intrinseca validità dell'idealtipo stanno su un piano diverso dal problematico e mai esaurito caso particolare; se in generale i dati sensibili, ma a rigore anche i fenomeni psichici, non dicono nulla a conferma o a smentita di un rapporto comprensibile a livello di idealtipo, occorre allora accettare (Jaspers, 1959, trad. it., p. 329) che il rapporto intuitivo tra stagione autunnale e accresciuto tasso di suicidi sia di per sé vero, ancorché la statistica mostri la verità empirica del contrario (ci sono più suicidi nella bella stagione). La paradossalità consistente in una sorta di doppia verità, quella fattuale e quella idealtipica, paga lo scotto di un certo modo di intendere l'idealtipo. Mentre lo scarto tra idealtipo ed interpretazione del caso reale va tenuto fermo – per lasciar aperta una via di uscita dalle secche della coincidenza tra evidenza dell'intuizione e verità per evidenza -, occorre rivedere lo statuto epistemologico dell'idealtipo, specie quanto alle condizioni della sua veridicità. L'idealtipo potrebbe diventare, per una certa universalità di cui gode ma in un rapporto interattivo col caso singolo, ad un tempo guida all'interpretazione e concetto chiave sulla via del superamento della dicotomia spiegare/comprendere.
Una sollecitazione a tale superamento viene proprio dalla psicoanalisi e dalla problematica compresenza in essa di due paradigmi epistemologici. Si suole infatti differenziare in essa la metapsicologia, che tratta del funzionamento dell'apparato psichico secondo un approccio naturalistico debitore a modelli fisico-energetistici, e la clinica, che lavora sull'interpretazione, sulla ricerca del significato proprio delle manifestazioni psichiche (sintomi, sogni, ecc.). La distinzione è grosso modo sovrapponibile alla giustapposizione di forza e senso in Freud, denunciata a partire da Ricoeur. Ma quanto regge la distinzione forza senso, se intesa come contrapposizione? Il tema è scottante, perché è come dire che la scissione scienza della natura-scienza dello spirito attraversa la stessa psicoanalisi, e se ci fosse un'effettiva alternativa tra forza e senso, avrebbe infine ragione Jaspers a denunciare un'eterogeneità di approcci in Freud (qui trascuro il carattere obsoleto, denunciato da più parti, del modello energetistico freudiano alla luce della recente neurofisiologia: chi sostiene la metapsicologia può ipotizzarne la sostituzione con altro modello). Ecco allora che la psicoanalisi diventa terreno cruciale proprio per il dibattito epistemologico. Ebbene, si potrebbe rispondere al quesito, affermando che non c'è senso senza forza, che è anzi specifica idea psicoanalitica proprio la concomitanza dei due, giacché il gioco, la connessione delle rappresentazioni (Vorstellungen), attraverso cui si esprimono i rapporti di senso, è comunque supportato da desideri, da bisogni, cioè da fattori "dinamici". Inoltre la pulsione, ben lungi dall'essere mera vis a tergo indifferente alla rappresentazione investita, è strutturalmente composta pure dell'oggetto (rappresentazione)attraverso cui può soddisfarsi (stando almeno a Freud, 1915). E' questa un'interessante linea di ricerca, che può avvalersi di una tradizione che parte già da Spinoza (XVII sec.), quando genialmente connette nell'affetto indissolubilmente la forza (conatus) con l'idea (idea). Questa via imporrebbe di entrare nel merito della psichicità e del nesso colla corporeità, cosa che tralascio volendo qui percorrere la via epistemologica; l'ho ugualmente additata, perché anche per questa via risulta inaccettabile una concezione dicotomica del rapporto forza/senso, pulsione/rappresentazione, che finisce poi coll'espungere il primo termine.
Piuttosto, a risposta del medesimo quesito, è da rilevare che nella psicoanalisi sono presenti una vasta gamma di teorie intermedie, che clinica non sono più, perché comportano ampie generalizzazioni esplicative, e metapsicologia non sono ancora, perché non di necessità dipendenti dalla modellistica biologico-energetica, o comunque da un'univoca concezione dell'apparato psichico. Tra di esse è da ricordare la teoria delle fasi di sviluppo infantili, con le relazioni oggettuali proprie di ciascuna; i processi di identificazione attraverso cui si plasma la personalità; connessioni tipiche tra aggressività e senso di colpa, ecc.; le modalità narcisistiche delle stesse relazioni oggettuali (su cui oggi tanto si insiste); e poi soprattutto quelle strutturazioni tipiche, quei canovacci potremmo dire, che plasmano il modo con cui il oggetto si rapporta al mondo, cioè i complessi d'Edipo, di castrazione, i fantasmi di seduzione, della scena primaria ecc. Sono nozioni che stanno a monte delle interpretazioni offerte nella clinica e che in certo modo le orientano, ma sono compatibili, ripetiamo, con più modelli di spiegazione a livello di apparato psichico. In quanto si tratta di schemi, di costrutti esse non sono fenomeniche e quindi non sono accettabili entro il modello del comprendere inteso in senso stretto. Ma neppure sono riducibili al modello naturalistico della psiche, perché non esigono l'armamentario fisico-energetico della metapsicologia freudiana, né al modello dello spiegare, perché non valgono come "leggi di copertura" da cui dedurre il caso, bensì come leggi o segmenti di spiegazione, che intervengono nella descrizione clinica di un dato soggetto. Insomma sono schemi tipici (processi psicologici tipici, strutturazioni tipiche)che fungono da strumenti euristici, per spiegare o comprendere, che dirsi voglia, i processi mentali di un certo soggetto. Non v'è pertanto contrapposizione tra l'universalità della legge e la particolarità del caso singolo.
Introdurrei altri esempi, essendo un punto cruciale per la saldatura tra teorie specificamente psicoanalitiche e questioni epistemologiche. Oltre ai già menzionati schemi o strutturazioni tipiche legati all'Edipo, le cosiddette "posizioni" della Klein (schizo-paranoide e depressiva); la relazione winnicottiana del soggetto con l'oggetto transizionale; quella kohutiana del Sé con l'oggetto-Sé; l'oscillazione bioniana D<–>PS e la funzione alfa; la strutturazione lacaniana del soggetto attraverso il Nome del padre; ecc.: ancorché queste organizzazioni di per sé non siano date come vissuti o fenomeni al soggetto (il soggetto semmai ne è già "preso dentro", cioè diventa tale proprio attraverso esse), esse non sono tuttavia concetti o realtà esterne, che suppongono cioè entità diverse da quanto è da comprendere, ovvero di natura diversa da ciò che è vissuto; né suppongono cause estranee a ciò che è vissuto. Potremmo dire che si tratta di organizzazioni immanenti al vissuto stesso. Il loro carattere dal punto di vista conoscitivo è pertanto quello di schemi concettuali entro cui si organizza il materiale in relazioni esplicative, ma anche in relazioni di senso – la differenza ormai si fa sfumata -, se è vero come è vero, che orientano l'interpretazione clinica e conferiscono una significatività alle formazioni in apparenza "insensate" (sintomi, sogni, ecc).
6. Sull'idealtipo
Si può cogliere a questo punto come la nozione di idealtipo, in un'accezione più vicina a Weber che non a Jaspers, torni opportuna: compone la singolarità con la regolarità della legge, rendendo in particolare necessaria l'introduzione di costrutti teorici per la stessa interpretazione del caso singolo o anche l'introduzione di "segmenti" di spiegazione nella descrizione di una storia (in Weber elettivamente si tratta di eventi "macrostorici", qui della "microstoria" di un individuo, segnatamente nella relazione terapeutica). Che sono infatti le nozioni o teorie psicoanalitiche sopra ricordate, se non collegamenti tipici di afferenze, di rappresentazioni, di "significanti"(nel gergo lacaniano) che pertanto fungono da schemi di lettura? Idealtipici, perché da una parte sono schemi ricorrenti, dall'altra nel caso reale sono mai presenti nella purezza, se non come casi limite. Così è dato vedere nel caso concreto elementi non riconducibili alla forma standard, talora anzi la giustapposizione di più forme standard: l'Edipo "normale" è caso limite di una realtà in cui sono sempre compresenti forme invertite, con tutte le sfumature intermedie. E poiché sono strutturazioni ricorrenti, ma non esauriscono la straordinaria complessità di una storia individuale, non valgono come meri universali da cui dedurre ed esaurire i caratteri del caso particolare, secondo il ricordato modello nomotetico-deduttivo, invalso nelle scienze naturali (del resto nel caso di una storia personale tante sono le variabili, che ben difficile sarebbe esibire tutte le leggi i copertura sufficienti.)
Quale più determinatamente lo statuto epistemologico di siffatti idealtipi? Quanto alla loro genesi, certo essa non è induttivo-statistica: la psicoanalisi freudiana si è costruita su un piccolo numero dicasi esemplari; altrettanto è da dirsi di quella kleiniana, kohutiana, ecc. Si tratta piuttosto di intuizioni – nel senso etimologico di "vedo dentro" – entro casi singoli, le quali colgono schemi relativamente generali.
Qui in accordo con Jaspers; ma è sintomatico che questi parli piuttosto del darsi del rapporto idealtipico "in occasione di (aus Anlass der)" un caso singolo, quasi che, platonicamente, se non intendo male, l'idealtipo esistesse di per sé. Preferirei piuttosto vederlo come un nostro costrutto immanente al caso medesimo: lo si conosce, o meglio lo si elabora a partire da quel caso, come la struttura propria di quel caso, ma anche astraibile dal quel caso.
Questi schemi sono organizzazioni di elementi che eccedono la mera sommatoria delle datità fenomeniche, mentre permettono di leggere in certa unità significativa, nel senso che le datità sono ben correlate tra di esse all'interno dello schema. Una volta guadagnati, questi schemi valgono in tanto in quanto fungono, cioè sono euristicamente efficaci in casi simili a quello iniziale. La loro validità conoscitiva è data non già dal fatto di essere intuitivamente evidenti; piuttosto le intuizioni attraverso cui si formulano hanno validità nella misura in cui sono confermate da una prassi più o meno lunga, nel senso che si sono mostrate euristicamente feconde nel dar ragione di un vasto materiale, nonché nell'interpretare molti casi singoli. La validità conoscitiva si salda dunque con la funzione assolta: la convalida pertanto è mai definitiva, bensì aperta e rivedibile in linea di principio, anzi la multiformità del caso singolo può portare ulteriori connotazioni all'idealtipo. Accogliendo queste tesi, si scioglie tra l'altro il paradosso jaspersiano dell'evidenza intuitiva dell'aumento di suicidi in autunno e della realtà fattuale inversa. L'infecondità di quella relazione comprensibile – che suppone una sintonia tra umore del soggetto e "umore" atmosferico – esige di correggere il nesso idealtipico: sì correlazione coll'"umore" della stagione, ma di dissonanza. Allora il rapporto "comprensibile" si potrebbe riformulare previa introduzione di un segmento esplicativo e comunque non immediatamente evidente: le componenti invidiose ed etero-distruttive che si ritrovano spesso nella dinamica psichica (inconscia) del soggetto depresso. Ciò concesso, si inferisce allora che il depresso inverte il "normale" rapporto colla bella stagione, la quale dovrebbe donare un sollievo dell'umore: la vitalità della bella stagione è sentita da (certi) soggetti depressi come motivo di avversione, dunque di ulteriore auto-esclusione. L'idealtipo insomma, come prima intuitiva ipotesi di lavoro, si dialettizza con il caso o con classi di casi particolari, congiungendosi a segmenti esplicativi.
Da quanto appena detto si evince altresì che, se la connessione idealtipica si coglie con un atto di intuizione, facendo invece un'analisi retrospettiva dei passaggi logici impliciti, appare l'intervento di tacite presupposizioni, che starebbero a rigore sul versante della spiegazione (nell'esempio Jaspers suppone, erroneamente, che ci sia una regola generale di sintonia tra umore psichico e "umore" meteorologico). Insomma, dei taciti segmenti esplicativi sembrano inevitabili pure nella costituzione logica di un idealtipo. Il che appare manifesto nell'asserzione di Nietzsche: "Dalla coscienza della debolezza, della meschinità e della sofferenza scaturiscono esigenze morali e religioni di redenzione", per come Jaspers la propone a modello di relazione comprensibile: vi aggiunge lui stesso un "perché" – perché comunque l'uomo "vuole soddisfare la propria volontà di potenza" (Jaspers,1959, trad. it., p. 328). Ebbene, che è quest'ultima asserzione(giusta o sbagliata è altra questione) se non un universale, che logicamente funge da premessa per giustificare – a rigore dovremmo dire "per spiegare" – quel nesso intuitivo?
Inoltre, giusto collegandosi alla nozione di idealtipo, la nozione di causa può tornare opportuna sotto nuova veste. Essa interviene neld e scrivere come si rapportano gli eventi psichici, così da dar luogo alle connessioni espresse dall'idealtipo. In effetti l'idealtipo, se è concetto almeno verosimile e non solo nostro costrutto arbitrario, va inteso come struttura di organizzazione immanente al materiale, e un processo causale è quello che interviene appunto nell'organizzarsi in modi tipici delle varie esperienze, delle varie afferenze percettive. Così il rapporto percettivo ed emotivo con la madre andrà ad organizzarsi entro quei determinati schemi previsti dall'Edipo; e una volta che un certo schema edipico si sarà consolidato, esso plasmerà le successive modalità di rapportarsi al mondo; le esperienze dei primi mesi di vita, i rapporti col seno materno – ammessa la validità idealtipica delle cosiddette "posizioni" di cui parla la Klein – andranno ad organizzarsi secondo la struttura della posizione schizo-paranoide, e questa determinerà un modo schizo-paranoideo di vedere il mondo, ecc.; le afferenze percettive potranno produrre effetti retroattivi in funzione del nuovo quadro organizzativo in cui sono inserite (nel caso dell'Uomo dei lupi di Freud talune percezioni traumatiche afferite in fase pre-edipica vengono in fase edipica ad essere riorganizzate nel nuovo contesto, causando per altro a loro volta una particolare curvatura all'assetto edipico). In altri termini, la struttura idealtipica, ideale e immanente al reale, è causativa del modo di disporsi del materiale percettivo, un po' come accade nelle già citate figure studiate dalla psicologia della forma, dove l'organizzazione d'insieme è causativa del modo di darsi della parte. Si tratta in ambo i casi di cause per così dire formali, nel senso quanto meno che i meccanismi di causazione efficienti si dispiegano secondo la "logica" del sistema che si viene costituendo.
Se da tutto ciò non derivano previsioni (o post-visioni) deterministiche e tanto meno algoritmi dell'interpretazione, epperò è da dirsi che inferenze predittive, di tipo probabilistico qualitativo, sono possibili: si può definire a priori, noto l'idealtipo dominante, un ventaglio di possibilità oggettive immanenti al soggetto considerato, anche se solo a posteriori si potrà sapere quale s'è realizzata e cercare di ciò le cause sufficienti (da una certa strutturazione dell'Edipo ci aspetteremmo che…, da un soggetto isterico ci aspetteremmo che… e se poi manifesta il comportamento X anziché Y, allora è successo che…).
Ho cercato fin qui di mostrare l'eccedenza epistemologica dell'idealtipo rispetto al metodo jaspersiano della comprensione – che in sostanza resta a mio avviso povero, se non riconosce ed integra segmenti di spiegazione -; ma non per questo l'idealtipo ricade negli schemi positivistici della spiegazione. Non solo perché l'idealtipo, come qui inteso, non è riducibile alla lettura che ne hanno dato i neo-positivisti (come caso limite di una serie di elementi che vi si avvicinano asintoticamente, quali i concetti di gas perfetto, punto massa, molla perfettamente elastica);non solo perché, come più volte ribadito, esso di principio non esaurisce la complessità della storia singola, ma soprattutto perché il suo statuto più che di legge universale data senz'altro per vera, è quello di una configurazione verosimile, utile pragmaticamente quale strumento euristico. Detto altrimenti, la conclusione tratta comprendendo/spiegando il caso singolo è probabile, ma non nel senso della probabilità statistica con cui operano le spiegazioni e previsioni nelle scienze naturali. In queste l'asserto statistico probabilistico, che funge da premessa maggiore, ha forma comunque universale e vuol essere sempre vero (ad esempio: è legge generale che ci sia una probabilità su sei che lanciando un dado…); in psicoanalisi e in genere nelle discipline umanistiche conformemente all'idealtipo, è l'asserto stesso probabile, o meglio verosimile, anche se il suo contenuto si presenta non in forma probabilistica .
Per chiarire, è legge (di Mendel) universale, e sempre vera alle condizioni standard, che appaia una volta su quattro un carattere recessivo alla seconda generazione dato l'incrocio iniziale di u n dominante con un recessivo: l'individuo di seconda generazione può o non può presentare detto carattere, ma ciò è comunque sempre previsto entro una proposizione di forma universale. Qui è ovvio cercare la misura della probabilità dell'evento rispetto alla totalità degli eventi possibili. Non pare sensato invece cercare la misura della probabilità o della verità della legge di Mendel stessa: o è vera o è falsa. Nel caso dell'idealtipo è invece in gioco la probabilità, o meglio la plausibilità, la verosimiglianza della legge stessa.
Ad esempio, non ha senso chiedere alla psicoanalisi la frequenza statistica della presenza del complesso d'Edipo, per convalidarne il relativo asserto, guadagnato com'è in una sorta di intuizione "indiziaria" dell'universale nei casi singoli esemplari. Si tratta di un universale ipotetico – è verosimile che in tutti sia presente una qualche strutturazione edipica – : esso orienta la ricerca e vale se e finché permette una buona organizzazione (comprensione-spiegazione) del materiale clinico, se e finché è suffragato dagli indizi offerti dai casi reali(non è certo a seguito di considerazioni statistiche sulla universalità o meno dell'Edipo, che un autore come Kohut ne ha messo in dubbio il peso eziopatologico).
Da ultimo vorrei notare ulteriori punti di contatto tra quanto appena detto e taluni sviluppi delle scienze naturali. Il carattere di post-visione cui sopra accennavo – per cui non si può prevedere lo sviluppo di un comportamento, ma solo a posteriori si dà ragione dell'accaduto – è una limitazione che trova stringenti corrispettivi nelle scienze naturali. Abbandonato il sogno meccanicistico laplaciano di poter prevedere qualunque stato successivo di un sistema, essendo noto lo stato in un certo istante, a priori si può prevedere solo un ventaglio di possibilità, a posteriori si può trovare la causa sufficiente, per cui proprio quell'evento si è verificato – e non sempre per altro è rintracciabile. Il pensiero, come al solito, va alla fisica indeterministica, ma si può pensare anche ad eventi singolari come l'evoluzione biologica di una data specie animale: nessuno, allo stato attuale delle conoscenze, avrebbe potuto prevedere milioni di anni fa, che il piccolo eohippus si sarebbe evoluto nel nostro cavallo, anziché in una animale della taglia del topo. Solo a posteriori sappiamo e possiamo cercare di spiegare. E' un caso in cui mancano le leggi di copertura e le leggi darwiniane e mendeliane fungono solo da condizioni necessarie, non sufficienti per spiegare; da esse non si deduce esaustivamente la storia di quella specie, ma esse intervengono quali sorte di segmenti esplicativi di quella storia. Non diversamente per la storia naturale di quel vulcano, ecc., e dire della "vita" di un vulcano non è metafora peregrina. Dal che si rileva un altro elemento che avvicina le scienze umane alle scienze naturali: dalle seconde non è affatto esclusa la presenza e lo studio di eventi singolari, irripetibili, a dispetto di quanti li vorrebbero di esclusiva pertinenza delle scienze umane.
7. Riassunto finale
In una prospettiva prevalentemente epistemologica ho posto l'attenzione al pensiero dello Jaspers psichiatra, al fine di evidenziare le ragioni della divaricazione rispetto alla psicoanalisi, nonostante taluni rilevanti punti in comune, specie al cospetto delle mai tramontate posizioni organicistiche. Sostengo anzitutto la tesi che le critiche di Jaspers a Freud di aver costruito un'ibrida disciplina del "come se" – prendendo cioè le relazioni di senso come se fossero relazioni causali – , dipendono in definitiva dal fatto che Jaspers lavora entro discutibili categorie epistemologiche. Esse si inquadrano in una rigida separazione, se non opposizione, tra il metodo delle scienze della natura e quello delle scienze dello spirito: alle seconde Jaspers iscrive senz'altro la sua "psicologia comprendente" in opposizione alla psicologia sperimentale.
E' mia impressione che questa separazione, specie come la intende Jaspers, sia una camicia di forza per lo sviluppo della teoria psicopatologica e della psicoterapia. Ho pertanto cercato di rivedere a mia volta criticamente le categorie appartenenti rispettivamente alle scienze della natura e alle scienze dello spirito (ricostruendo in un quadro sinottico le classificazioni jaspersiane), per mostrare come esse vadano invece integrate in una più duttile concezione dei rispettivi rapporti. Alternative tra causa e senso, tra spiegazione e descrizione, tra spiegazione/deduzione e interpretazione, tra universalità della legge e particolarità/inesauribilità del caso singolo, per dire delle più note, appaiono non più proponibili. Per questa via ho scoperto significative anticipazioni nelle intuizioni di Max Weber relative alla nozione di idealtipo, ma altresì ho trovato delle convergenze con taluni sviluppi dell'epistemologia oltre che della storiografia delle scienze naturali.
La psicoanalisi in merito a questo dibattito si pone su un terreno cruciale, perché è essa stessa attraversata da una duplicità paradigmatica, tra forza e senso, ovvero tra approccio naturalistico (vedila metapsicologia freudiana) e approccio "umanistico" (vedi la clinica e l'interpretazione). Ebbene, più che sospingerla dall'una o dall'una parte entro la camicia di forza della divisione scienza della natura-scienza dello spirito (come fanno Habermas e Grünbaum con soluzioni diametralmente opposte, ma sempre sullo stesso piano), è il caso di chiedersi, facendo leva sulla peculiarità di taluni suoi concetti e teorizzazioni, se proprio essa non additi l'esigenza di superare quella camicia di forza. Taluni concetti psicoanalitici qualificanti (che dicono di strutturazioni tipiche della mente come il complesso d'Edipo, le "posizioni" della Klein, ecc.) divengono di per sé spunto di riflessione epistemologica. Infatti valgono non già come leggi universali sotto cui dedurre esaustivamente il caso singolo, piuttosto come idealtipi guadagnati nell'esemplarità di casi singoli, ma tali da fungere come strumenti euristici in un gran numero di storie individuali, nonché come segmenti esplicativi intervenienti nelle stesse interpretazioni.
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