Quando esistevano ancora le differenze tra cose differenti, e gli accoppiamenti, una netta differenza veniva posta tra teoria e tecnica. E poi tra fatti e teorie. E ancora tra osservazioni di fatti e costruzioni teoriche. E infine tra mezzi e scopi. Salvo poi ad accoppiare spesso gli elementi opposti di ogni polarità. Il concubinaggio era tollerato. Comunque, le teorie erano interpretazioni funzionali o spiegazioni causali di qualcosa. Erano fatte di proposizioni descrittive, delle quali si sarebbe potuto, almeno in principio, stabilire se erano vere o false. Riguardavano il campo del conoscere. Le tecniche invece erano fatte di procedimenti, o di proposizioni su procedimenti, prescrittivi. Riguardavano il campo del fare. Per le tecniche non era pertinente il criterio del vero e del falso. Era invece pertinente il criterio del giusto e dello sbagliato. Siccome le poteva essere rivolta l'accusa di essere sbagliata, una tecnica aveva bisogno di una giustificazione. La giustificazione alla tecnica veniva fornita dalla teoria. La teoria invece, almeno in quanto teoria, non aveva bisogno di giustificazioni. Alla teoria si addicevano i concetti di dimostrazione e di verificazione (o falsificazione). Nei loro rapporti reciproci, quando le cose andavano per il verso buono, una tecnica, nei suoi singoli passaggi, dimostrava la verità di una teoria, o verificava la teoria stessa. Reciprocamente, la teoria giustificava i passaggi della tecnica: questi erano giusti quando dimostravano più adeguatamente, più rapidamente, più compiutamente di altri, la verità della teoria.
Prendiamo ad esempio l'accoppiata: teoria della rimozione e tecnica dell'interpretazione. La teoria della rimozione considerava l'esistenza di un sintomo, di una inibizione, di un comportamento in genere, come il risultato di un processo, la rimozione appunto, in seguito al quale un desiderio inaccettabile dalla coscienza è reso più o meno inconscio. La tecnica dell'interpretazione, mediante la quale l'analista decostruiva il processo della rimozione, spiegando al paziente il collegamento funzionale e genetico di un suo contenuto manifesto correlato con un contenuto latente, rimosso, e in tal modo otteneva la parallela decostruzione del sintomo o dell'inibizione o dell'angoscia, dimostrava la verità della teoria della rimozione, la verificava.
Il qualcosa di cui le teorie fornivano interpretazioni funzionali o spiegazioni causali, erano i fatti, considerati esistenti indipendentemente dall'osservazione e dalle teorie di eventuali osservatori. Le teorie invece erano creazioni della mente che spiegavano e interpretavano i fatti delle osservazioni, descrivendo altri fatti, non osservabili questi o non osservati. Le creazioni teoriche – un evento sessuale infantile, un processo di rimozione, un evento filogenetico, ecc. – davano un senso ai fatti osservati e ne stabilivano il fondamento. La teoria poi sarebbe risultata falsa qualora si fosse trovato che le sue descrizioni parlavano di fatti esistenti solo nella mente di chi l'aveva creata. La teoria era invece vera quando si riusciva, in qualche modo, a stabilire una corrispondenza tra le creazioni teoriche della mente e i fatti osservabili di cui parlava, ovvero quando si poteva verificare che le cose, nel mondo dei fatti osservati, erano andate proprio così, o quasi, come la descrizione della teoria aveva affermato sotto forma di predizione o di postdizione.
Accanto alla polarità della teoria e della tecnica, si dava un'altra polarità importante. La polarità dei fini e dei mezzi poneva, da una parte, i due fini caratterizzanti la psicoanalisi – la conoscenza del paziente e la sua cura – e poneva dall'altra parte i due mezzi – la teoria e la tecnica – attraverso i quali si doveva, si poteva, giungere alla conoscenza e alla cura (dove conoscenza e cura erano, a volte, non sempre, proprio no, trattate come aspetti differenti di uno stesso processo).
Erano queste le coordinate etiche e logiche della cultura dominante a cavallo del 1960 nel ristretto ambito della Svizzera, anzi, della Svizzera Romanda, dove mi trovavo ad apprendere i rudimenti teorici e tecnici della pratica psicoanalitica. Così com'erano mi andavano a pennello. Definivano in maniera semplice e pulita il luogo dell'attività che mi interessa: la cura dei pazienti con disturbi psichici, preferibilmente psicotici. Da allora sono passati tanti anni. Per tutti. E anche tante cose sono cambiate. Non per tutti. E' vero, se avessi avuto la mente più aperta e più sveglia, avrei trovato già all'inizio a disposizione in abbondanza elementi per rendermi conto di relazioni che solo molto più tardi sarei riuscito a formularmi esplicitamente. Ma le cose erano quel che erano, come talvolta accade.
Si è fatto un gran parlare, in anni non troppi lontani, soprattutto tra i filosofi della scienza, sui criteri che indirizzerebbero uno scienziato a scegliere nel gran mazzo di teorie concorrenti, e più in particolare che convincerebbero alcuni appartenenti di una comunità scientifica ad abbandonare la teoria riconosciuta dalla tradizione a favore di una teoria concorrente da poco o tanto apparsa alla ribalta o da essi medesimi presentata. Si sono invocati criteri soggettivi, situazionali e psicologici (quando gli psicoanalisti intervengono nel dibattito a questo proposito, li chiamano naturalmente psicopatologici), e criteri oggettivi, che dovrebbero dipendere dalle caratteristiche canoniche della teoria – accuratezza, coerenza, prospettiva, semplicità, redditività – Ma che, secondo alcuni storici, più semplicemente sarebbero sempre gli stessi criteri soggettivi, condivisi però dalla comunità scientifica a un dato periodo.
Probabilmente non mi sono avvicinato alle teorie psicoanalitiche nel modo corretto. Certo, le consideravo anche una rappresentazione creativa d'insieme di come stanno le cose, di come devono stare le cose, perché la teoria sia vera. Ma mi veniva più spesso di trattarle come congegni predittivi di ciò che sarebbe successo in un incontro con una persona, se avessi fatto una cosa piuttosto che un'altra. Che sia per questo che i libri, diciamo, di un Hartmann mi lasciavano piuttosto freddino, mentre gli scritti, che so, di una Klein sugli psicotici per un po' mi accalappiavano? La domanda in fondo che mi premeva non era tanto: "Che cos'è, che cosa vuol dire, com'è fatto, come funziona?", quanto l'altra: "Sì, d'accordo, ma come si fa?". Che è un po' la logica, vituperata, delle interazioni con il computer. Non occorre capire o conoscere. Basta dare delle informazioni e provare a chiederne, stare a vedere quello che succede, ricordando poi in che sequenza procedurale è successo.
Nella ricerca di risposte sempre più semplici sul "come si fa?", da Ferenczi, mediato dalle supervisioni di Racamier a Müller, ho imparato "la tecnica attiva". Attiva nel senso di una partecipazione attiva dell'analista al dialogo col suo interlocutore, in uno scambio personale emotivo "caldo", dove le "fredde" interpretazioni non trovavano molto spazio. Ho cioè imparato a darmi daffare per produrre, per provare a produrre, nelle sedute, quei cambiamenti della "tensione emotiva" che, di volta in volta, la situazione mi sembrava richiedere.
Sia nel senso di un innalzamento della tensione, secondo la versione originale di Ferenczi che tendeva, a quel che racconta, esaltare la tensione emotiva fino ai toni più drammatici, sia nel senso di uno smorzamento della stessa tensione, quando mi sembrava il caso.
Da Greenson poi ho imparato "l'alleanza di lavoro", cioè a considerare il mio interlocutore come un compagno di cordata, o un rematore sulla stessa barca, assieme al quale mi sarebbe toccato passare un tempo più o meno lungo per svolgere in due un lavoro, fino a un certo punto, comune. E mi conveniva quindi cercare di raggiungere un accordo di minima su alcuni termini almeno, lasciando pure aperto il dissenso su tutti gli altri, senza di che mi sarebbe sembrato difficile poter fare molta strada insieme, o in ogni caso poco allettante. Più tardi lo stesso insegnamento mi è stato ribadito da Morgenthaler col suo precetto di rendere disteso il clima di una seduta.
Da Rogers ho imparato a considerare "clienti" i miei pazienti, e a registrare su nastro i nostri colloqui. Lo stesso insegnamento, di registrare i colloqui di lavoro, mi era venuto, non saprei dire se prima o dopo, dai terapeuti della famiglia di Palo Alto.
Da Kohut ho imparato che si può benissimo stare assieme a qualcuno senza interpretare ciò che fa e non fa; che si può benissimo, in particolare, accettare di essere amati, e perché no, adorati, senza necessariamente sentirsi in obbligo di andare a cercare il "gatta ci cova" o il "se non me l'ha fatta sta per farmela".
A chi ancora, tra i tanti che ho frequentato, direttamente o mediante i loro scritti, penso con la riconoscenza che provo, non sempre ma spesso, verso le persone dalle quali mi sembra di aver imparato qualcosa che utilizzo attualmente nella mia tecnica senza teoria? Ma, se mi ci mettessi, finirei per redigere un elenco telefonico, pur avendo scelto qui, forse ingiustamente, di parlare solo dei miei debiti con gli addetti ai lavori. Il fatto è che, da quando mi ricordo, ho cercato di rubare con l'occhio, come si dice, ogni volta che mi accadeva e mi accade, di ascoltare qualcuno parlare di "come fa" nelle sue occasioni di vita pratica, non necessariamente professionali.
Quando si parla di tecnica all'interno della comunità scientifica degli psicoanalisti, si possono individuare, o una sola e unica tecnica, o due tecniche, o molteplici tecniche. Dipende dai criteri che si scelgono e dalla prospettiva argomentativa in cui si pone. Dire che ciascun analista usa una sua propria tecnica, personalizzata e diversa da quella di tutti gli altri, è forse vero secondo certi criteri larghi, ma non sembra essere di grande aiuto in una discussione interessata a seguire e precisare, diciamo, i cambiamenti che si sono prodotti, se si sono prodotti, nello spazio di dieci anni in Italia, nella tecnica standard della tradizione, se ce n'è una. D'altra parte, dire che c'è una sola tecnica per tutti, è forse vero secondo altri criteri stretti, ma rischia di precludere la ricerca sulle ragioni e sui vantaggi e gli svantaggi delle differenze introdotte, se e quando vengono introdotte, nella tecnica condivisa dalla cultura dominante della comunità psicoanalitica, a un dato momento, in una data geografia. Personalmente mi trovo più a mio agio nelle discussioni dove le tecniche kleiniana, junghiana, lacaniana vengono considerate differenti l'una dall'altra. E dove, nonostante i tratti comuni che consentirebbero di parlare di un'unica tecnica, le tecniche di Ferenczi e di Greenson, di Morgenthaler e di Kohut, di Rank e di Alexander, vengono invece trattate come tecniche differenti, suscettibili ciascuna di luoghi di applicazione preferenziali e anche di risultati differenti.
Ma non è questo, della dissoluzione o della comparsa delle differenze tra le tecniche, il punto centrale. Piuttosto un altro mi interessa, oltre al rapporto tra teoria e tecnica. Ed è una strana asimmetria di due tipi di rapporto; da una parte il rapporto in cui possono trovarsi tra di loro tecniche differenti, e dall'altra il rapporto in cui si trovano tra di loro teorie differenti. Le teorie mediante le quali ogni singolo maestro della comunità psicoanalitica giustifica la propria tecnica, risultano logicamente incompatibili con quelle di tutti gli altri, come per fare un esempio, la teoria liberista e la teoria protezionistica in economia, la teoria politeistica e la teoria monoteistica in religione. Non mi sembra facile far andare assieme la teoria del trauma infantile, non necessariamente sessuale, di Ferenczi sulla scia del primo Freud, e la teoria della fantasia sessuale di desiderio di Greenson sulla scia del secondo Freud. E mi sembra ancor più difficile rendere compatibili, cioè presenti nello stesso tempo in uno stesso analista, la teoria di Lacan con quella di Rangell, la teoria di Schafer con quella di Eissler, la teoria di Kohut con quella di Melania Klein.
D'altra parte io riuscivo, riesco, mi sembra almeno, a far coesistere nel mio lavoro, nella mia tecnica, le tecniche differenti dei maestri più differenti, o forse meglio, differenti aspetti delle loro tecniche differenti. Ancora attualmente, nelle mie conversazioni, prendo a piene mani ora da una sorgente ora dall'altra, do perfino interpretazioni di transfert, sguazzo nelle interpretazioni ricostruttive, racconto fatti miei, faccio lo specchio, taccio, mi arrabbio e non lo nascondo, mi innamoro, mi dispero, aumento la tensione, la smorzo fino a livello del mare. E le teorie? che costituiscono la giustificazione e il fondamento delle tecniche, a sentire i maestri dai quali prendo in prestito uno spicchio di tecnica qua, uno spicchio d tecnica là? Ho inventato miracoli di equilibrismo per renderle compatibili, per farle coesistere? Direi proprio di no. Non ce n'è bisogno. Perché le teorie non c'entrano con le tecniche. O meglio, c'entrano, ma come uno slogan pubblicitario con un detersivo, così almeno mi è sembrato. A un certo punto comunque mi sono convinto, non importa poi tanto se a ragione o a torto, che le tecniche stanno benissimo in piedi anche senza il fondamento delle teorie. E sono così arrivato alla tecnica senza teoria.
Prendiamo due azioni della mia tecnica senza teoria, le risposte di straniamento e le risposte di immedesimazione. Ci sono diverse forme di risposte di immedesimazione. Una di queste è analoga alla forma delle interpretazioni ricostruttive. Ci sono anche diversi modi in cui si possono dare risposte di straniamento. Uno di questi prende la forma delle interpretazioni transferali. Ma per parlare di tecnica non basta elencare delle azioni. Le azioni diventano tecnica quando sono inserite in un procedimento la cui sequenza caratteristica è data dalla rilevazione di uno stato attuale, dalla predizione di uno stato futuro, e, in mezzo tra i due stati, dall'azione che contribuisce, aspettandoselo, al salto dallo stato attuale allo stato futuro. Ora, dalle mie risposte di straniamento o di immedesimazione non mi aspetto, partendo da una teoria della rimozione, o dalla teoria di un trauma infantile, sessuale o no, di svelare una verità nascosta, o di riprodurre onde esplorarlo e così disinnescarlo, il trauma originario, sempre in funzione della cura del paziente. Dalle risposte di immedesimazione mi aspetto che il mio interlocutore, o la mia interlocutrice, comincino o continuino a immedesimarsi, magari in crescendo, nel loro discorso e nella storia del loro discorso. Dalle risposte di straniamento mi aspetto invece che il mio interlocutore, o la mia interlocutrice, si stacchino, si allontanino, dalla immedesimazione che stavano mostrando verso il loro discorso, verso la storia del loro discorso. Ma perché do queste risposte, se non è per la conoscenza o la cura del paziente? Perché mi trovo in uno stato di infelicità, dal quale mi andrebbe bene uscire, e allora faccio quelle azioni dalle quali mi aspetto di saltare a uno stato un po' più felice o un po' meno infelice di prima. Secondo la formula della felicità:
p (sO, e, a, sl) =
che ci dice qual'è la probabilità, nel senso di aspettativa soggettiva, che dopo aver misurato un mio stato infelice -sO- in presenza di un dire o di un fare -e = evento- del mio interlocutore, se eseguo un'azione -a- che mi viene in mente dalla quale mi aspetto una misura di felicità -sl-, io rilevi, al momento successivo l'esecuzione dell'azione medesima appunto una misura di felicità di un mio stato -sl-.
L'obiezione più frequente che mi viene rivolta è che, escludendo dal proprio campo il progetto di conoscere e di curare il paziente, la tecnica senza teoria, comunque la sia possa valutare, non è un'analisi, si situa al di fuori della tradizione psicoanalitica legittima sul piano epistemologico dalla conoscenza della mente del paziente, e sul piano etico dalla cura o modificante della mente conosciuta. Naturalmente non sta a me stabilire la mia posizione nei confronti della comunità psicoanalitica. Personalmente, non mi sento un dissidente. Non perché la posizione di consenziente mi sia più congeniale, anzi. Ma perché mi sembra di riprendere il discorso della tradizione psicoanalitica laddove Freud l'ha lasciato. Alla conoscenza della mente del paziente, prerogativa della psicoanalisi classica e moderna, Freud aveva rinunciato, senza possibilità di equivoci, in Costruzioni nell'analisi. Alla soglia della morte aveva concluso che ciò di cui andava in cerca l'analista non era più, come ai tempi dei ricordi celati dietro la rimozione, la ricostruzione di una verità corrispondente ai fatti di cui parlava, bensì la costruzione di una forma argomentativa sufficientemente convincente da suscitare il consenso condiviso del terapeuta e del paziente. Qualche mese prima, Freud aveva pubblicamente abbandonato anche l'altra prerogativa della psicoanalisi classica e moderna, la prerogativa terapeutica. In Analisi terminabile e interminabile, dalla prima all'ultima pagina, insistentemente, cupamente (anche se gli editori inglese e italiano tentano di appiattire e mimetizzare, per parlar del ben che vi trovarono) aveva elencato i limiti, le difficoltà, gli ostacoli dell'analisi, ribadendo i suoi dubbi, il suo scetticismo, il suo pessimismo nei confronti dell'efficacia dell'analisi stessa.
I due buchi rimasti dopo il viraggio di Freud, ignorati peraltro dall'accademia psicoanalitica, hanno cercato di riempirli, in modo originale, due delle correnti più interessanti della psicoanalisi successiva. La corrente ermeneutica si è occupata del buco lasciato dalla demolizione del pilastro terapeutico, sostituendo alla terapia la rilettura del testo in un circolo infinito. Del buco lasciato dal crollo del fondamento conoscitivo si è occupata la corrente neokleiniana, rimpiazzando la conoscenza transitiva mediante la dissoluzione delle differenze tra soggetto e oggetto, tra immagine e cosa, tra prima e dopo, tra cause e effetti, nel concetto di identificazione proiettiva. Morgenthaler, che non appartiene né all'una né all'altra corrente, facendo piuttosto parte per se stesso, mi è sembrato lasciar vuoto il buco del fondamento terapeutico, quando ha ribadito i limiti dell'efficacia terapeutica dell'analisi, il ridursi a ben poco ciò che, con l'analisi, è modificabile, nel precisare il suo precetto di relativizzare le cose mediante nuove formulazioni che fanno apparire al paziente, sotto nuova luce, i suoi antichi problemi.
Non so se non c'è gran che da fare nel versante terapeutico dell'analisi. Non saprei dire se il nostro lavoro si limita a una rilettura di un testo sempre quello, a una riformulazione dei vecchi problemi relativizzati a nuovi punti di vista. A volte, spesso direi, mi accade di osservare, nel mio universo conversazionale, cose che assomigliano molto a quelle alle quali nei tempi andati, quando si poteva parlare senza rischi col linguaggio ordinario delle persone comuni, ci si riferiva nei termini ora desueti di scomparsa di un sintomo invalidante, di effetto terapeutico, espressioni notoriamente guardate con sospetto, e con snobismo pure sospetto, dall'accademia psicoanalitica. Bisognerà pure, mi dico, rendere conto di queste osservazioni, anche se per ora sono troppo occupato ad applicare la formula della felicità nella tecnica senza teoria.
Comunque, se la psicoanalisi che poggiava sui due fondamenti della conoscenza e della cura del paziente da parte dell'analista si situa, come giustamente viene situata, nell'era moderna, si potrebbe dire che la tecnica senza teoria, assieme alle altre espressioni della psicoanalisi contemporanea che rinunciano all'uno o all'altra o a entrambi questi fondamenti tradizionali, si situa nell'era postmoderna? Si potrebbe dire che siamo entrati nell'era post-analitica? Freud, mi sembra, c'era già entrato, pubblicamente, nel 1937, e dopo di lui ci sono entrati molti maestri, forse senza accorgersene o magari solamente senza dire di essersene accorti. Perché non dirlo, ora?
Una tecnica senza teoria
Una tecnica senza teoria esiste da millenni. L’ha inventata Ippocrate di Coo. Si chiama medicina. Ha effetti terapeutici.
Si tratta di un contributo
Si tratta di un contributo magistrale, sia per la chiarezza dell’esposizione che per la rara onestà dei contenuti.