Relazione letta al convegno "L'arcipelago delle emozioni: tra vissuto, comprensione e spiegazione scientifica", organizzato dal Dipartimento di Salute Mentale dell'ASL 13 di Ascoli Piceno, 8-10 maggio 2003 (una versione di questo lavoro, scritta in collaborazione con Claudia Rabaiotti e intitolata "Il concetto psicoanalitico di pulsione aggressiva: le posizioni di Freud e alcune proposte di revisione teorica", è uscita in due parti sulla Rivista Sperimentale di Freniatria, 2003, CXXVII, 2 e 3. Si ringrazia Franco Angeli Editore per il permesso di pubblicazione). Indirizzo dell’autore: Paolo Migone, Via Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax 0521-960595, E-Mail migone@unipr.it
Riassunto. Viene ripercorso sinteticamente lo sviluppo delle ipotesi psicoanalitiche sulla genesi della emozione aggressiva in Sigmund Freud e in alcuni autori successivi che hanno affrontato questo tema in psicoanalisi. Seguendo in parte la traccia contenuta in un saggio del 1981 di Gian Vittorio Caprara, vengono presi in rassegna in ordine cronologico alcuni dei principali scritti di Freud per esaminare la evoluzione del suo pensiero sulla pulsione aggressiva, che culmina con il saggio del 1920 Al di là del principio di piacere. Vengono poi brevemente presentate le posizioni dei seguenti autori, che spaziano dai primi anni del secolo fino ai giorni nostri: Alfred Adler, Anna Freud, Melanie Klein, Wilhelm Reich, Otto Fenichel, Heinz Hartmann, Erich Fromm, Heinz Kohut, Otto Kernberg, Joseph Lichtenberg, Drew Westen, e Peter Fonagy. Schematicamente, la pulsione aggressiva (chiamata anche, secondo le diverse formulazioni, istinto di morte,thanatos, mortido, ecc.) è stata spiegata con due ipotesi di base: come causata da un fattore interno (aggressività innata o istintuale) o da un fattore esterno (aggressività come reazione alla frustrazione). Viene suggerito un superamento di questa dicotomia, anche perché in parte legata a concezioni dello sviluppo della mente non aggiornate alle più recenti acquisizioni in campo neurobiologico che prevedono un intergioco continuo, fin dalle prime ore di vita, tra sviluppo del cervello e stimoli ambientali.
Parole chiave: aggressività, psicoanalisi, istinto di morte, thanatos, pulsione aggressiva
Summary. The history of the psychoanalytic hypotheses on the genesis of aggressive affect is briefly reviewed. Firstly, Sigmund Freud's thought is examined, following a 1981 essay by Gian Vittorio Caprara where Freud' papers are examined in chronological order, including the pivotal paper "Beyond the pleasure principle" of 1920. The positions of the following psychoanalysts are then briefly reviewed: Alfred Adler, Anna Freud, Melanie Klein, Wilhelm Reich, Otto Fenichel, Heinz Hartmann, Erich Fromm, Heinz Kohut, Otto Kernberg, Joseph Lichtenberg, Drew Westen, and Peter Fonagy. The aggressive drive (also called death instinct, thanatos, mortido, etc.) has been generally explained according to these two basic hypotheses: as originating from the inside (aggression as instinctual drive) or from the outside (aggression as a reaction to frustration of important needs). An abandonment of this dichotomy is suggested, also because it is considered to be based on an outdated conception of mind development. Current research on neurobiology and philosophy of mind shows a continuous interplay, from birth onward, between the brain and the environment.
Key words: aggression, psychoanalysis, death instinct, thanatos, destructiveness, aggressive drive
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L'aggressività può essere definita una "parola valigia" (Storr, 1968) poiché porta con se significati molto diversi tra loro: una emozione aggressiva ingiustificata oppure anche giustificata, una competizione legittima nel luogo di lavoro, un atteggiamento mentale, un confitto tra nazioni, e così via. Uno dei problemi nasce dal fatto che il termine aggressività può alludere simultaneamente al correlato comportamentale di una emozione (agitazione, tachicardia, rossore in volto, ecc.) e a uno stato psicologico, cioè una qualità astratta, un atteggiamento mentale o una propensione interna che possono anche non manifestarsi a livello comportamentale. Questa differenza tra comportamento e atteggiamento è invece ben specificata nella lingua inglese, dove esistono, rispettivamente per il primo e il secondo significato, i due termini aggression e aggressiveness. Il termine aggressività quindi spesso viene usato in modo equivoco creando confusione nell'abbondante letteratura sull'argomento, poiché può essere applicato indiscriminatamente all'uomo che difende la propria vita in caso di attacco e all'omicida che infierisce sulla sua vittima. Il concetto di emozione aggressiva varia quindi a seconda che questa sia considerata ora un istinto, ora un comportamento, ora una emozione reattiva ad un evento frustrante e/o stressante, e così via. L'etimologia stessa del termine aggressività testimonia in modo efficace la complessità di significati che essa può assumere: dal latino ad = "verso, contro, allo scopo di", e gradior = "vado, procedo, avanzo".
Considerato quindi che l'aggressiva può avere cause, manifestazioni e conseguenze molto varie, non sorprende che esso sia stato oggetto di studio nei più svariati campi di ricerca: biologico, psicologico, psichiatrico, forense, sociale, etico, con attributi e caratteristiche peculiari per ognuno dei vari approcci. In particolare, sono le spiegazioni psicologiche quelle spesso attirano maggiore interesse per tentare di comprendere fenomeni altrimenti di difficile comprensione (è un esempio indicativo il fatto che nella cover story di un recente numero della rivista Newsweek, intitolata "Evil: What Makes People Do Wrong?", ben otto delle nove delle persone intervistate erano professionisti della salute mentale [Bergley, 2001; vedi Gottlieb, 2002]). Tantissimi sono gli studi sulla emozione aggressiva che meriterebbero di essere citati, alcuni dei quali sono i seguenti: Akhtar et al., 1995; Arendt, 1963, 1970; Attili et al., 1996; Bandura, 1973; Bergeret, 1984; Berkowitz, 1962, 1969; Bychowski, 1968; Bonino & Saglione, 1978; Bowlby, 1973; Buss, 1961; Caprara, 1972, 1981, 1995; Costabile, 1996; de Zulueta, 1993; Di Maria & Di Nuovo, 1984; Dollard et al., 1939; Eibl-Eibesfeldt, 1970; Fonagy et al., 1993; Fornari, 1964; Fromm, 1973; Gilligan, 1997; Giraud, 1992; Hinde, 1974; Kernberg, 1992; Kohut, 1972; Lorenz, 1963; May, 1972; Miller, 1980, 1988; Montagu, 1976; Morris, 1967; Parens, 1973, 1979; Salvini, 1988; Scherer et al., 1975; Scott, 1958; Searles, 1956; Singer, 1971; Socarides, 1966; Stepansky, 1977; Storr, 1968; ecc.
In questa sede, sulla base anche di un lavoro precedente (Migone & Rabaiotti, 2003), prenderò in esame solo un'area circoscritta, e precisamente lo sviluppo delle ipotesi psicoanalitiche sull'aggressiva da Freud a oggi, passando in rassegna alcuni autori che si sono occupati dell'argomento fino ad arrivare alla revisione di alcune formulazioni che ormai si possono considerare datate. Naturalmente questo excursus non può fare giustizia di tutti gli autori che hanno affrontato questo argomento, e necessariamente sarà solo una rapida carrellata attraverso alcune idee psicoanalitiche formulate nel corso del XX secolo, che può servire soprattutto come base di partenza per ulteriori approfondimenti (la bibliografia è volutamente approfondita per questo scopo).
Il percorso di Freud
Come è noto, mentre la psicologia comportamentale studia attentamente il comportamento così come si manifesta all'osservatore, la psicoanalisi si propone, più ambiziosamente, di studiare anche gli stati soggettivi e le possibili motivazioni sottostanti, costruendo ipotesi esplicative sulle dinamiche inconsce, soprattutto alla luce dei significati legati alla storia personale dell'individuo. Sono in particolare le forze motivazionali e i significati che il soggetto attribuisce all'esperienza il principale focus di attenzione della psicoanalisi, ed è in questo senso che la psicoanalisi è "psicologia dinamica". Queste forze, queste dinamiche, queste motivazioni o spinte ad agire sono in maggiore o minore equilibrio tra loro, e il loro insieme unitario e relativamente stabile, frutto anche della storia personale, rappresenta la personalità. E' per questo che, come sottolineava Rapaport (1959), la psicoanalisi è anche una psicologia evolutiva, poiché ciascuna esperienza va vista nel suo sviluppo storico.
Una disamina attenta della storia del concetto di emozione aggressiva in Freud è stata compiuta da Caprara (1972, 1981, 1995; Caprara & De Caldas Brito, 1979), ed è soprattutto ad essa che farò continuo riferimento per la sua accuratezza. Caprara (1981, p. 172) fa giustamente notare che le conclusioni che Freud raggiunse a proposito dell'aggressività non gli sembrarono mai soddisfacenti, e non esitò a riconoscerne l'indeterminatezza e la frammentarietà. Ad esempio, come ci ricorda Jones (1953-57, Vol. III, p. 540), Freud ancora nel 1937, quindi due anni prima di morire, scriveva a Marie Bonaparte a proposito dell'aggressività: "L'intero argomento non è stato trattato a fondo, e ciò che ebbi a dire in proposito nei miei scritti precedenti era così prematuro e casuale da meritare scarsa considerazione".
Non potevano esservi dubbi sull'importanza dell'aggressività per una comprensione soddisfacente di tutta una fenomenologia psicopatologica che comprendeva ad esempio la delinquenza, la violenza, il masochismo, il suicidio, ecc. Come è noto, Freud tentava di costruire un modello dell'apparato psichico partendo dalla sua teoria della libido, "rispetto alla quale l'interesse per l'aggressività è stato per lungo tempo, e per certi versi resta, in definitiva, un corollario. Tale interesse matura e si definisce per residuo o per negativo in rapporto a quelle manifestazioni che non sono, o che non sono soltanto, di natura libidica" (Caprara, 1981, p. 172). Sono questi fenomeni che Caprara chiama i "vuoti della teoria della libido" (ibid., p. 173), cioè "al di là del principio di piacere" (prima il sadismo, poi il masochismo, il suicidio, ecc.), quelli che spingono Freud a indagare attorno a una pulsione aggressiva, e mano a mano che la sua ricerca procede e diventa sempre più complessa, non raramente si notano posizioni diverse e a volte contraddittorie, tanto che, a seconda che si consideri un'opera piuttosto che un'altra, o un passaggio piuttosto che un altro, non è impossibile appellarsi a Freud per confermare o per confutare l'una tesi o l'altra.
Si possono comunque notare tre fasi nel percorso di Freud mentre lavorava attorno alla emozione aggressiva: in una prima fase, prima del 1915, l'aggressività viene concepita quasi esclusivamente come un aspetto della libido o comunque come al servizio della libido; in una seconda fase, corrispondente a Pulsioni e i loro destini del 1915, l'aggressività viene concepita come indipendente dalla libido e ascrivibile alle pulsioni dell'Io (o di autoconservazione); e infine in una terza fase, dopo il 1920, l'aggressività non è più considerata una manifestazione delle pulsioni dell'Io, ma come manifestazione di una autonoma pulsione di morte (vedi Caprara, 1981, p. 173; per lo sviluppo della teoria delle pulsioni in Freud, vedi anche Bibring, 1936; Nagera, 1969, pp. 26-38; Migone, 1993, 1995 pp. 167-171). Questo criterio cronologico però non interpreta fedelmente il percorso freudiano, perché il passaggio da una fase all'altra non sempre corrisponde all'abbandono di ipotesi precedenti, ma ad un approfondimento di indagine, a una maggiore complessità e riflessione, dove il mutamento di prospettiva non è sempre reso esplicito. Caprara (1981, p. 174) ha individuato nell'opera freudiana tre ipotesi differenti che coesistono spesso parallelamente tra loro: l'ipotesi di una pulsione originaria eterodistruttiva; l'ipotesi di un'aggressività come reazione alla frustrazione; l'ipotesi che riconduce l'aggressività alla proiezione di un originaria pulsione autodistruttiva o di morte.
In una prima fase di ricerca, non è da escludere che Freud condividesse la diffusa convinzione del suo tempo circa l'esistenza di istinti autonomi di natura aggressiva, anche se non è chiaro se l'aggressività alla quale fa riferimento sia in un qualche modo prodotta da una precedente seduzione subita o sia invece l'espressione di quegli istinti (ibid., p. 175). Potrebbe avvalorare l'ipotesi istintivista l'influenza esercitata su Freud dalla lettura di Darwin (Ellenberger, 1976), come d'altro canto potrebbe avvalorare l'ipotesi ambientalista-reattiva l'importanza da Freud attribuita, in quei tempi, alla realtà esterna (Rapaport, 1960a, 1960b).
Ne L'interpretazione dei sogni, del 1899, Freud racconta molti sogni a contenuto aggressivo, ad esempio sogni di "controdesiderio", di punizione, di morte di persone care, e così via. Caprara (1981, p. 175) osserva che Freud, se è vero che viene colpito da questi sogni, mostra una certa resistenza a riconoscere in alcuni di essi la propria aggressività. Alcuni sogni masochistici vengono spiegati con la trasformazione della componente aggressiva nel suo contrario (Freud, 1899, p. 152).
L'ostilità, l'ambivalenza, la rivalità tra genitori e figli e tra fratelli (tematiche che gettano le basi della successiva elaborazione del complesso edipico) vengono spesso espresse nei sogni, mostrando quindi una lettura dell'aggressività come reattiva, difensiva, principalmente funzionale alla soddisfazione di bisogni (come è noto, saranno Dollard et al. [1939] a sviluppare questa linea di ricerca). Vediamo quindi tutte le varie ipotesi prima accennate, quelle di un'aggressività e di un'autodistruttività originarie (che spiegherebbero rispettivamente il sadismo e il masochismo), e quella reattiva, come risposta alla frustrazione e volta all'allontanamento di ostacoli o pericoli.
Ma è a partire dal 1905, con i Tre saggi sulla teoria sessuale, che il discorso sull'aggressività diventa più sistematizzato. Nel primo dei Tre saggi, quando affronta il problema delle aberrazioni sessuali del sadismo e del masochismo, Freud (1905, p. 470) dice: "Il sadismo corrisponderebbe allora ad una componente aggressiva della pulsione sessuale, resasi indipendente ed esagerata, che usurpa per spostamento la posizione principale". Qui dunque Freud fa rientrare una componente aggressiva all'interno della pulsione sessuale. Ma nel secondo dei Tre saggi subito non esclude l'esistenza di un'aggressività non riducibile a semplice componente della pulsione sessuale, e sottolinea l'importanza di una "pulsione di appropriazione" che può assumere connotazioni aggressive: "Con un'indipendenza ancora maggiore dalle altre attività sessuali legate a zone erogene, si sviluppa nel bambino la componente crudele della pulsione sessuale. E' lecito supporre che il moto crudele derivi dalla pulsione di appropriazione e si presenti nella vita sessuale in un'epoca in cui i genitali non hanno ancora assunto la loro posteriore funzione" (Freud, 1905, p. 501).
Entrambe le ipotesi, quella di una pulsione aggressiva originaria e quella di un'aggressività reattiva (sia alla pulsione sessuale che alla pulsione di appropriazione), sono discusse da Freud nel Caso clinico del piccolo Hans, del 1908: da un lato Freud accenna a "tendenze crudeli e violente della natura umana" (p. 563), che negli stadi infantili sembrano senza freni, e dall'altro accenna alla aggressività come reazione alla frustrazione. Tuttavia, come osserva ancora Caprara (1981, p. 179), la resistenza ad accettare l'ipotesi di una specifica pulsione aggressiva è più marcata che in passato. Scrive ad esempio Freud a proposito delle posizioni che Adler (su cui torneremo) allora proponeva sulla aggressività:
Alfred Adler… ha recentemente esposto l'ipotesi che l'angoscia derivi dalla repressione di ciò che egli chiama "pulsione aggressiva", alla quale assegna, con amplissima sintesi, la responsabilità principale di quanto avviene nella vita e nella nevrosi… Eppure io non posso condividerla, e la ritengo una generalizzazione atta a trarre in inganno. Non posso risolvermi ad ammettere una speciale pulsione aggressiva accanto alle pulsioni di autoconservazione e sessuali che ci sono familiari e allo stesso piano di queste. Mi sembra che Adler abbia a torto eretto a pulsione speciale quello che è un carattere generale e indispensabile di tutte le pulsioni, ossia proprio ciò che vi è in loro di "impulsivo", urgente, quella che potremmo definire la loro capacità di dare avvio alla motilità. (…) preferisco attenermi ancora alla vecchia concezione che lascia ad ogni pulsione la facoltà di divenire aggressiva (Freud, 1908, pp. 583-584)
Qui Freud pare aderire ad una concezione dell'aggressività simile a quella che viene proposta da vari autori contemporanei a cui accenneremo dopo. A parte questo, non è da escludere, come fa notare Stepansky (1977), che nella polemica con Adler riemergessero non solo problemi personali di Freud con colui che fonderà la Psicologia Individuale (e quindi timori per l'unità del movimento psicoanalitico), ma anche problemi irrisolti con Fliess relativamente a diversi aspetti inconsci della personalità e dell'aggressività di Freud (vedi Caprara, 1981, p. 180).
Con Totem e Tabù, del 1913, Freud ritorna sulla questione di una pulsione aggressiva, e ne ipotizza una autonomia su base storico-culturale, attribuendo ad essa una enorme importanza per lo sviluppo dell'organizzazione sociale. Rimane tuttavia discutibile, fa notare Caprara (1981, p. 181), se tali tendenze rinviino ad un'aggressività originaria o, piuttosto, a dei desideri aggressivi rimossi.
Anche in Pulsioni e loro destini, del 1915, è notevole il rilievo che viene assegnato all'aggressività. Più chiaramente che in passato, l'aggressività si configura in questo saggio come una manifestazione delle pulsioni dell'Io tese all'autoconservazione e al controllo della realtà. In particolare l'aggressività viene a configurarsi come l'espressione tipica delle pulsioni dell'Io di fronte alla frustrazione. L'aggressività e l'odio qui scaturiscono non da un originale bisogno e desiderio di arrecare dolore, poiché "l'infliggere dolore non ha niente a che fare con gli originari comportamenti finalizzati della pulsione" (Freud, 1915b, p. 24), quanto piuttosto dal desiderio di allontanare e respingere ciò che è, in qualsiasi forma, occasione di dispiacere:
L'Io odia, aborrisce, perseguita con l'intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui fonte di sensazioni spiacevoli, indipendentemente dal fatto che essi abbiano per lui il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione. Si può addirittura asserire che gli autentici archetipi della relazione di odio non traggano origine dalla vita sessuale ma dalla lotta dell'Io per la propria conservazione e affermazione (Freud, 1915b, p. 33).
In queste ultime parole Freud addirittura pare arrivi a negare alla sessualità un ruolo primario, in favore di altre esigenze di autoconservazione ancor più pressanti, operazione che per certi versi ricorda quella farà un Bowlby (1969, 1973) mezzo secolo dopo, quando affermerà con vigore una motivazione all'attaccamento totalmente indipendente da quella sessuale.
Seguendo questo rapido excursus storico delle posizioni di Freud sulla aggressività, ci avviciniamo alla prima guerra mondiale, che sicuramente influenzò Freud profondamente. Nel saggio Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, del 1915, sembra riprendere vigore l'ipotesi di un'aggressività pulsionale originaria che anticipa i successivi sviluppi teorici. Di fronte alla guerra sembra impossibile rinunciare all'ipotesi di impulsi malvagi originari che soltanto l'educazione e la civiltà, non senza fatica, riescono a tenere a freno: la morte non può più essere negata e con essa non possono essere negati gli impulsi "a sopprimere tutti coloro che ci sbarrano il passo… la prontezza ad uccidere… l'estensione e l'importanza degli inconsci desideri di morte… l'impulso ostile che avvertiamo nel nostro intimo" (Freud, 1915a, pp. 146-147); di fronte alla morte occorre "sopportare la vita: questo è pur sempre il primo dovere di ogni individuo" (p. 148).
Pare che la guerra abbia esercitato una influenza così profonda su Freud, tanto che cinque anni dopo, nel suo fondamentale saggio Al di là del principio di piacere, del 1920, approda alla sua definitiva contestualizzazione dell'istinto di morte, rassegnandosi all'idea di un istinto autonomo, biologico, deputato al dissolvimento della sostanza vivente, di quiete assoluta, "al di là del principio di piacere" o al di là del principio di vita. Ma questo saggio di Freud è tanto affascinante, geniale e ricco di stimoli quanto contraddittorio e "noncurante delle contraddizioni e delle correzioni che vengono introdotte in capitolo successivi lasciando inalterati i capitoli precedenti" (Caprara, 1981, p. 183), alternante tra il biologico e lo psichico, tra osservazioni cliniche e teorizzazioni astratte e filosofiche, e, come hanno più volte osservato Jones (1953-57) e Schur (1972), probabilmente influenzato anche da dolorose tematiche affettive quali la perdita di alcuni suoi familiari e la incombenza sempre più sentita della propria morte. In questo saggio Freud concepisce una polarità vita-morte, che riflette il modo con cui dovremmo affrontare la vita e nel contempo accettare l'idea della sua transitorietà, rappresentante effettivamente la polarità dialettica di ogni lavoro clinico e anche la polarità di ogni tappa evolutiva, intesa come il prevalere dei processi costruttivi e aggregativi rispetto a quelli distruttivi e disgregativi. L'esperienza di tali resistenze alla vita è tuttavia diversa nelle varie tappe evolutive, nelle differenti condizioni di vita in rapporto ai sostegni forniti dal nostro patrimonio biologico e da ciò che il nostro organismo trova nell'ambiente, ed è diversa da individuo a individuo.
Nell'opera L'Io e l'Es, del 1922, viene enunciata la più compiuta formulazione dell'apparato psichico alla quale giunge l'indagine freudiana. Freud, nel proporre il concetto di Super-Io, differenziazione dell'Io ed erede del complesso edipico, coglie questa occasione per riaffermare la dualità delle pulsioni di vita e di morte. A ben vedere però con l'introduzione del concetto di Super-Io fa il suo ingresso anche una precisa teorizzazione del rapporto tra individuo ed ambiente, nel senso che le primitive cure materne, cioè le esperienze infantili e i rapporti coi genitori, vengono poi interiorizzate ed avranno una influenza nel far pendere il piatto della bilancia del conflitto tra le forze costruttive e le forze distruttive all'interno del soggetto. Se un bambino viene amato adeguatamente imparerà ad amare e a crescere, se invece viene maltrattato e abbandonato imparerà ad odiare la vita e gli altri esseri umani. Pare dunque che qui si profilino le tracce di una moderna teoria degli affetti, come autori successivi (ad esempio un Kernberg, 1982, 1984, 1992, 2001) proporranno, a partire dalle primitive esperienze piacevoli o spiacevoli, per revisionare la teoria della motivazione in psicoanalisi sulla base della teoria delle relazioni oggettuali.
La problematica dell'aggressività viene riproposta da Freud ne Il disagio della civiltà, del 1929, rielaborata in termini psico-sociali. Viene proposta una antitesi ineliminabile tra l'uomo e la civiltà, la quale è costruita sulla repressione – e idealmente sulla rimozione, cioè con una stabile difesa inconscia – delle pulsioni, che per loro natura sono disadattive. Su questo tema romantico elaborerà anni dopo, a ponte tra psicoanalisi e marxismo, il Marcuse (1955) di Eros e civiltà, riproponendo uno scontro immanente tra le forze vitali (l'Eros) e la società civile: il conflitto, prima ancora di rivelarsi all'interno del soggetto, apparterrebbe alla vita, al rapporto tra l'uomo e la società in cui vive, se non addirittura tra uomo e natura, in un "disadattamento" perenne (vengono in mente le parole del poeta romantico Alfred Tennyson [1809-1892]: "Natura, rossa nel dente e nell'artiglio"). Ne Il disagio della civiltà il pessimismo di Freud e la sua convinzione che all'interno dell'uomo esista una forza distruttrice di natura pulsionale, che minaccia la società civile, raggiungono il loro apice. In passato Freud sembrava più ambiguo sul ruolo di questa aggressività rispetto ad un tipo di aggressività che invece era determinata dalla frustrazione della libido. Ora l'istinto di morte, chiamato anche mortido o Thanatos, pare irriducibile, porta alla sua necessaria repressione che è poi la causa principale del "disagio della civiltà", sperimentato come sentimento di colpa e come angoscia morale. La civiltà è costruita sulla rinuncia pulsionale proprio perché il Super-Io si forma sulla base dei divieti e delle sanzioni del mondo esterno, interiorizzato appunto come istanza psichica la cui intensità è proporzionale alla forza stessa delle pulsioni (vedi Caprara, 1981, p. 193).
Le posizioni di alcuni autori successivi a Freud
Tanti sono gli autori di matrice psicoanalitica che si sono occupati della emozione aggressiva nell'uomo. Qui accenneremo brevemente ad alcuni di essi, per darne un panorama sintetico, senza la pretesa di completezza e ben consapevoli di ometterne tanti che meriterebbero attenzione. Prenderemo in considerazione Alfred Adler, Anna Freud, Melanie Klein, Wilhelm Reich, Otto Fenichel, Heinz Hartmann, Erich Fromm, Heinz Kohut, Otto Kernberg, Joseph Lichtenberg, Drew Westen, e Peter Fonagy.
Alfred Adler
Tra i primi dissidenti del movimento psicoanalitico (Jung, Adler, Rank, Stekel), fu sicuramente Adler, a cui si è accennato anche prima, quello che fece una riflessione attenta sulla aggressività. Adler (1912, 1956) parte dal concetto di "inferiorità d'organo" per poi arrivare ad una teorizzazione più generale sulla genesi della aggressività come reazione alla frustrazione. La inferiorità d'organo si presenta nel caso di oggettive inferiorità fisiche o handicap, ma dato che la condizione di dipendenza e di immaturità nell'infanzia appartiene a tutti gli individui, i sentimenti d'inferiorità ed insicurezza che ne derivano agirebbero, in termini psicologici, come una motivazione costante che mira a ricercare, nelle parole di Adler, una "compensazione". Adler usa anche i termini di protesta virile, aspirazione alla superiorità, o volontà di potenza, per rappresentare le spinte che premono per un superamento della propria naturale inadeguatezza. Queste spinte dunque non vengono concepite come pulsioni o istinti, ma come reazioni alla frustrazione, vista come una esperienza di privazione che ha un ruolo determinante nel comportamento aggressivo. La compensazione che ne consegue è quindi adattiva, e la Psicologia Individuale di Adler si potrebbe configurare, in un certo senso, come antesignana della Psicologia dell'Io che svilupperà poi Hartmann (1937, 1964; Hartmann, Kris & Loewenstein, 1949, 1964; ecc.).
Anna Freud
Anna Freud (1949a, 1949b, 1972) si è occupata dell'aggressività, aderendo alla concezione duale delle pulsioni proposta dal padre. Qui accenneremo brevemente alle sue intuizioni su una delle modalità di produzione dell'aggressività, la "identificazione con l'aggressore", descritta nel suo noto libro del 1936 L'io e i meccanismi di difesa: in modo per così dire preventivo, quindi per difendersi dal dolore, il soggetto può identificarsi con la persona da cui si aspetta di essere aggredito. Anche nel gioco, osserva Anna Freud (1936), si può vedere come l'immedesimarsi da parte del bambino in un oggetto temuto riesce a trasformare l'angoscia in una attività piacevole. In questa identificazione difensiva, come peraltro in quasi tutte le difese, operano simultaneamente, a grappolo, vari altri meccanismi di difesa: in questo caso la negazione (di una realtà esterna spiacevole, l'aggressione) e la rimozione (di un sentimento interno spiacevole, l'ansia o la paura). La inversione dei ruoli da passivo in attivo, del resto, fu descritta dettagliatamente anche da S. Freud in Al di là del principio di piacere (1920), quando disse che il bambino, dopo aver subìto passivamente una esperienza spiacevole o traumatica (ad esempio una visita dentistica), in seguito può ripeterla attivamente, sottoponendo compiaciuto lo stesso trattamento a un suo compagno di giochi. Un simile meccanismo era stato descritto bene da S. Freud (1920) nel famoso "gioco del rocchetto", dove il nipote di Freud, esposto a separazioni dalla madre per lui dolorose, invertiva i ruoli nel gioco allontanando volutamente e più volte da se un rocchetto (al grido di "Fort! Da!" [Via! Qui!]) per poi gioire sempre nel recuperarlo, padroneggiando più volte la situazione in questa riedizione capovolta del trauma subìto. Anna Freud, elaborando questi temi, spiega bene come questi meccanismi siano normali e al servizio dello sviluppo (ad esempio per il padroneggiamento [mastering]), così pure come possano sconfinare nella patologia: ad esempio quando l'identificazione con l'aggressore può rappresentare uno stadio intermedio verso lo sviluppo della paranoia, in cui la colpa viene sistematicamente proiettata all'esterno, così che la costante aggressività verso gli altri ha una importante funzione rassicurante per il soggetto. In questo senso, il meccanismo della paranoia, già identificato da S. Freud (1910) nel caso del presidente Schreber, può essere alla base di molti casi di comportamento aggressivo, con patogenesi ben studiate anche al di fuori della psicoanalisi (si pensi solo alla teoria del capro espiatorio, che può spiegare innumerevoli casi di violenza nella storia dell'umanità).
Melanie Klein
Melanie Klein elabora le intuizioni di Abraham (1924) sui primi stadi dello sviluppo infantile, in particolare sulla fase "sadico-orale" (quindi con aspetti cannibaleschi) e sulle prime soddisfazioni e frustrazioni. La Klein sottolinea il ruolo degli impulsi distruttivi del bambino, mostrando come questi contribuirebbero all'anticipata comparsa del Super-Io e quindi anche dell'Io infantile che deve contenere e proiettare verso l'esterno una originaria autodistruttività. Le precoci esperienze di frustrazione possono associarsi ad un aumento delle pulsioni sadiche. Nella teoria kleiniana troviamo quindi un costante riferimento ad una precocissima distruttività, a fantasie arcaiche di sadismo orale, uretrale, anale, di distruzione e di annientamento, da cui il bambino deve proteggere anche se stesso. Questi concetti, e soprattutto quello di pulsione di morte, vengono spesso usati per spiegare tutto ciò che si oppone alla vita, sono vere e proprie forze distruttrici e produttrici di angoscia. Come nota Fornaro (1988, pp. 208-209), la pulsione di morte nella Klein non viene vista tanto in termini energetici o economici, quanto come "fantasia", ad esempio fantasia di fusione, divoramento, inglobamento e annullamento dell'oggetto, paura di distruggere e di essere a propria volta divorati e distrutti, e così via. Affascinanti appaiono a volte le intuizioni cliniche kleiniane a proposito di questa forza negativa, di questo "male" interiore che per esempio può sollevare molto il paziente nella misura in cui viene "proiettato" all'esterno oppure solamente esiste oggettivamente un male esterno o un nemico da dover combattere (Migone, 1996).
Naturalmente sono state mosse molte critiche al pensiero della Klein, dato che pare alquanto improbabile che siano presenti nel bambino, soprattutto ai primi mesi di vita, fantasie così differenziate (ambivalenza, invidia, ecc.). Rapaport (1958), ad esempio, a suo tempo parlò di una "mitologia dell'Es" a proposito della Klein, altri parlarono di adultomorfismo, e le critiche si sono accentuate nei tempi recenti.
La Klein quindi fu all'opposto di coloro che concepirono l'aggressività come reazione alla frustrazione, per lei la pulsione aggressiva era innata, primaria, originata da un istinto di morte con cui si deve sempre fare i conti. Anche vari autori non kleiniani hanno ritenuto di aderire ad un concetto di pulsione di morte per rendere conto a livello clinico di comportamenti psicopatologici altrimenti non facilmente spiegabili, e tra questi si possono includere, tra i tanti, Alexander (1929), Federn (1932), E. Weiss (1935) e Menninger (1938). L'ipotesi dell'aggressività come reazione alla frustrazione, già avanzata da Freud, fu ripresa invece, tra gli altri, da Wilhelm Reich e da Fenichel.
Wilhelm Reich
Per W. Reich (1933) l'aggressività, l'invidia, l'odio, e altre manifestazioni simili sono secondarie a una frustrazione della libido, non primarie. Non è assolutamente necessario per Reich ricorrere al concetto di pulsione di morte, cioè ricercare nella natura le colpe che invece appartengono alle costrizioni di una determinata società repressiva e violenta (come è noto, Reich intrecciava le sue idee psicoanalitiche con un discorso di trasformazione della società in senso socialista, che la liberasse dalla oppressione capitalista). Per Reich è importante capire in che modo i bisogni fondamentali dell'uomo vengono frustrati dalla società e come possono invece essere soddisfatti. L'angoscia nasce dall'energia libidica non scaricata appunto per le costrizioni sociali, secondo un modello idraulico della libido. Un individuo maturo, cioè con un carattere genitale, ha una vita sessuale soddisfacente, mentre nella evoluzione dell'umanità l'aggressività, la distruttività, l'angoscia ecc., così come le "corazze caratteriali" rigide e inibite, sono il prodotto di una progressiva limitazione sessuale causata dalla repressione sociale. Siamo quindi in piena teoria dell'aggressività come reazione alla frustrazione.
Otto Fenichel
Anche Otto Fenichel (pure lui – come W. Reich, e come anche A. Adler – appartenente al gruppo di analisti impegnati socialmente, assieme ad Annie Reich, Edith Jacobson, ecc., cioè sensibili ad una potenzialità liberatrice della psicoanalisi in senso politico-sociale) vede l'aggressività come reattiva e non come primaria, e nega l'esistenza di un istinto di morte. Sentiamo cosa scrive nel suo noto Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi, del 1945:
Naturalmente non si può negare l'esistenza e l'importanza degli impulsi aggressivi. Ma non possiamo provare che essi sempre e necessariamente appaiono per l'esteriorizzarsi di esigenze autodistruttive ancor più antiche. Forse l'aggressività, in origine, non era uno scopo istintivo in sé, caratterizzante una categoria di istinti, in contraddizione con altri, ma piuttosto un modo di lottare degli scopi istintivi contro disillusioni, o perfino spontaneamente. E' tanto probabile tentare di raggiungere la meta tramite la distruzione quanto più primitivo è il livello di maturazione dell'organismo, forse a causa di una tolleranza delle tensioni insufficientemente sviluppata (Fenichel, 1945, p. 73).
La distruttività quindi per Fenichel non è necessariamente intenzionale e specifica, quanto una reazione che può risultare poi inadeguata. La volontà di distruggere e la sua consapevolezza, cioè la vera aggressività, è una acquisizione secondaria:
Non soltanto l'amore ma anche l'odio presuppone una completa coscienza dell'oggetto, capacità che non si riscontra nei bambini piccoli. Questi distruggono gli oggetti, spingono ed urtano altri bambini e così via, probabilmente non perché abbiano una tendenza positiva a distruggere, ma perché non se ne curano; il loro interesse per gli oggetti è limitato alla possibilità che questi hanno di essere fonti di soddisfazioni o potenziali minacce, non è un piacere positivo di distruggere. La distruzione come scopo è di un tempo più maturo, o forse è un mezzo per ottenerne altri (come una qualità con la quale si persegue uno scopo nel caso di difficoltà o disillusioni) e poi apparirà, in seguito, come scopo in se stesso (Fenichel, 1945, pp. 102-103).
Il bambino quindi secondo Fenichel cerca solo di evitare un disagio, non di essere in prima istanza aggressivo. Anche il masochismo può essere visto in questa luce: la ricerca del dolore può in certi casi essere il male minore per evitare un danno maggiore o per controllare l'angoscia. Con riflessioni cliniche che paiono anticipare le intuizioni di un Kuhut (1971, 1972, 1977), Fenichel mette al centro della motivazione bisogni di sicurezza e di autostima, e certe modalità di rapporto con l'ambiente e di soddisfazione dei propri bisogni che vengono poi consolidate, laddove l'aggressività è sempre il fallimento di un rapporto o di un obiettivo desiderato.
Sulla linea di Fenichel si schierano anche tanti altri: Gillespie (1971) e Leo Stone (1971), che parteciparono al dibattito sull'aggressività (Lussier, 1972; Kestemberg, 1972) a cui fu quasi totalmente dedicato il 27° congresso della International Psychoanalytic Association (IPA) di Vienna del 1971, dibattito a cui parteciparono anche Brenner (1971), Eissler (1971), Rosenfeld (1971), Gaddini (1972), Rangell (1972), Parens (1973), Solnit (1972), ecc.; gli autori "culturalisti" come Kardiner (1939), che fanno notare il semplice fatto che esistono anche culture e popoli non violenti; Fromm (1973), che vedremo più in dettaglio, e gli psicoanalisti interpersonali o neofreudiani negli Stati Uniti (Sullivan, Fromm-Reichmann, Horney, Thompson, ecc.); gli "intersoggettivisti" come Stolorow, Brandchaft & Atwood (1987) che ad esempio vedono l'aggressività del borderline come una legittima risposta a incomprensioni da parte del terapeuta; Fairbairn (1954) e Guntrip (1968), della scuola inglese, che concepiscono la aggressività come una reazione alla mancanza di gratificazione della "ricerca dell'oggetto" da parte del bambino (object-seeking); Bowlby (1973) e gli autori che lo hanno seguito nella feconda linea di ricerca sulla teoria dell'attaccamento (vedi ad esempio de Zulueta, 1993); anche Kohut (1972) e il movimento della Psicologia del Sé, a partire dalla tradizione ortodossa (ma poi per prenderne le distanze), come vedremo, segue una strada simile; e così via. La linea teorica ortodossa è invece continuata da Hartmann e dalla sua Psicologia dell'Io.
Heinz Hartmann
Hartmann, Kris & Loewenstein (1949), i padri della Psicologia dell'Io e quindi continuatori della tradizione ortodossa in psicoanalisi, riprendono l'ipotesi di una pulsione aggressiva primaria così come fu formulata dall'ultimo Freud, e le attribuiscono pari dignità di quella libidica in una sorta di parallelismo tra le due pulsioni. A differenza della Klein, però, che la concepiva come derivata dall'istinto di morte e quindi anche persecutoria, Hartmann, Kris & Loewenstein la concepiscono come una forza propulsiva diretta verso l'esterno, paragonabile appunto a quella della libido (vedi Mitchell, 1993, pp. 355-356). In un notevole sforzo speculativo, essi sostengono che all'origine dello sviluppo il dualismo pulsionale possa non essere evidente, poiché le pulsioni libidiche e aggressive non sarebbero differenziate (vedi il concetto di "impasto pulsionale"), poi mano a mano esse si separano, ciascuno con una propria carica energetica. Dal punto di vista dinamico e strutturale, la maggior plasticità della pulsione aggressiva rispetto a quella libidica induce questi psicologi dell'Io ad assegnarle un'importanza sempre maggiore nella formazione e nel funzionamento dell'Io e del Super-Io. Infatti viene postulata l'esistenza di processi di neutralizzazione dell'aggressività e di controinvestimento, i quali concorrono al consolidamento dell'Io e del Super-Io come strutture autonome e provvedono loro l'energia necessaria per funzionare autonomamente.
Siamo in piena metapsicologia, come si può ben vedere, in un programma di elaborazione coerente del progetto teorico freudiano. Vediamo, a questo riguardo, come viene teorizzata da Hartmann, Kris & Loewenstein la genesi delle tendenze etero- ed auto-aggressive:
Il controinvestimento sembra essere un modo tipico di impiego dell'aggressività (una trasformazione dell'aggressività) per i fini dell'Io. A servizio dell'Io può essere utilizzata l'aggressività libera se la capacità di neutralizzazione è intatta. Se invece è menomata, non solo saranno pregiudicati i meccanismi di difesa, e quindi reso più difficoltoso il controllo delle pulsioni, ma sarà anche accresciuta, per effetto del libero fluire dell'energia aggressiva pulsionale che in precedenza era stata neutralizzata nel controinvestimento, la forza relativa delle pulsioni nei confronti dell'Io. Questa energia libera può quindi essere rivolta contro l'esterno. Contro di esso possono anche essere diretti tutti i tipi di tentativi di difesa che operano al più basso livello di integrazione, come la proiezione e altri. Una parte di quest'energia può essere rivolta contro di Sé e, in certe condizioni, può favorire l'autodistruzione (Hartmann, Kris & Loewenstein, 1964, p. 214).
Queste argomentazioni metapsicologiche presteranno il fianco alle critiche da parte degli ex-allievi di Rapaport, in primis Holt (1965), poi G.S. Klein (1976), Gill (1976, 1977), Schafer (1976), ecc., e dopo, a valanga, di tanti altri tra cui Ellenberger (1970), Sulloway (1979), e così via. Al di fuori della psicoanalisi, esse avevano scatenato le accuse di infalsificabilità di Popper, tacciando di pseudoscienza proprio quella che per Hartmann, Rapaport e gli altri psicologi dell'Io voleva essere proprio la costruzione di un edificio scientifico per la psicoanalisi. In particolare, venne ritenuto discutibile il concetto di neutralizzazione, poiché amplia molto, troppo, le trasformazioni dell'aggressività in fenomeni clinici quali produttività, creatività, autoaffermazione, e così via, allargando pericolosamente il divario tra teoria e clinica.
Erich Fromm
Un altro psicoanalista che si è interessato all'aggressività differenziando la sua posizione da quella freudiana è Fromm. Nel libro Anatomia della distruttività umanaFromm (1973) sostiene che esiste un'alternativa alla teoria istintivistica e a quella comportamentistica. Fromm distingue nell'uomo due tipi completamente diversi di aggressività. Il primo, che l'uomo ha in comune con gli animali, è l'impulso programmato filogeneticamente di attaccare o di fuggire quando sono minacciati i suoi interessi vitali; questa "aggressività difensiva" o "benigna" è al servizio della sopravvivenza della specie, è biologicamente adattiva, e si disattiva quando viene a mancare l'aggressione. L'altro tipo, che chiama "aggressività maligna", e cioè la crudeltà e la distruttività, è specifica della specie umana e praticamente assente nella maggior parte dei mammiferi; non è programmata filogeneticamente e non è biologicamente adattiva; non ha alcuno scopo e, se soddisfatta, procura piacere; è interpretata da Fromm come patologia caratteriale, dissentendo dunque dalla teoria freudiana dell'aggressività.
Heinz Kohut
Kohut, lo studioso del narcisismo e il padre dell'importante movimento della Psicologia del Sé (la cui cornice teorica ha fatto poi da sfondo a tutta la recente infant research a cui accenneremo dopo), è stato sempre attento alle dinamiche dell'aggressività, in particolare della "rabbia narcisistica". Non è certo questa la sede per esporre in dettaglio il pensiero di questo complesso autore sulla tematica del narcisismo, ma per avvicinarsi a capire il suo modo di concepire la pulsione aggressiva si può citare un episodio significativo che Kohut racconta nel saggio Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica, del 1972. Kohut (ibid., p. 136) ricorda che una volta Freud (1932, p. 177) criticò la tesi di un biografo di Guglielmo II che aveva seguito le idee di Adler nell'interpretare la sua tendenza ad offendersi e a ricorrere alla guerra. Guglielmo II era nato con un braccio deforme, e quel biografo ipotizzò una sua ferita narcisistica cronica come reazione a un senso di "inferiorità d'organo", reazione responsabile del suo carattere vendicavo e possibilmente anche dello scoppio della prima guerra mondiale. Secondo Freud invece questa interpretazione non era assolutamente corretta, poiché la ferita narcisistica non era il trauma di nascere con un braccio deforme, ma il rifiuto di lui da parte della sua orgogliosa madre che non poteva tollerare di avere un figlio imperfetto. Kohut naturalmente concorda con questa osservazione di Freud. Secondo Kohut, infatti, il fattore chiave per un sano sviluppo emotivo è il rispecchiamento empatico della madre (che è l'oggetto-Sé [self-object]) nei confronti del bambino, la sua approvazione ed ammirazione, fattori che permettono la trasformazione dell'investimento narcisistico del Sé grandioso ed esibizionistico arcaico (tramite quella che lui chiama "internalizzazione trasmutante") in modo tale da poter integrare la grandiosità e l'esibizionismo arcaici nel resto della organizzazione psichica: "Io credo che la distruttività umana, come fenomeno psicologico, sia secondaria; che essa sorga originariamente come fallimento da parte dell'ambiente oggetto-Sé di venire incontro ai bisogni empatici ottimali da parte del bambino" (Kohut, 1977, p. 116 ed. or.). Se vi è dunque un mancato rispecchiamento empatico da parte dell'oggetto-Sé, si crea una "scissione verticale" nella psiche, per cui il Sé arcaico grandioso-esibizionistico rimarrà latente e potrà a tratti rompere le difese e paralizzare l'Io con sensi di vergogna e rabbia intense. Sono insomma questi sentimenti arcaici che permangono in settori scissi della psiche quelli responsabili, secondo Kohut, di altrettanto arcaiche e primitive manifestazioni difensive di odio, aggressività o rabbia in occasione di determinate ferite narcisistiche. Del resto, questo è ben noto anche da studi di psicologia non psicoanalitica: ad esempio James Gilligan (1997, 2002), un noto studioso di psichiatria forense e dei fenomeni di terrorismo, ha intervistato molti detenuti autori di omicidi, violenze o atti terroristici e ha regolarmente trovato in essi un profondo senso di umiliazione, vergogna e minaccia alla identità personale come motivazione fondamentale a compiere gesti gravi anche senza alcun riguardo per le conseguenze penali.
Otto Kernberg
Kernberg (un autore che, tra l'altro, si è contrapposto a Kohut nella interpretazione del narcisismo) non solo ha studiato a fondo le dinamiche dell'aggressività (Kernberg, 1984, 1992) ma, da una prospettiva classica, ha anche proposto una revisione della teoria psicoanalitica delle pulsioni che si propone di integrare le teorie psicoanalitiche degli affetti e delle relazioni oggettuali. Kernberg (1982, 2001), con la sua revisione teoria, cerca di mantenersi equidistante sia da coloro che propongono di sostituire semplicemente le pulsioni con gli affetti, sia da coloro che scelgono di rimanere ancorati alla teoria tradizionale delle pulsioni. I primi rischiano di "accentuare gli aspetti superficiali del funzionamento inconscio (il ruolo dell'adattamento e la realtà) e di minimizzare la consapevolezza degli aspetti perturbanti dell'odio primitivo e della natura primitiva della precoce fantasia inconscia erotica e sadomasochistica" (Kernberg, 2001, p. 606; vedi anche 1984, pp. 187-189), mentre i secondi, ignorando la importante influenza delle relazioni oggettuali e degli affetti, impoveriscono la comprensione clinica "relegando le pulsioni a strutture mitiche" (ibid.), ereditate filogeneticamente e responsabili delle fantasie primarie (allo stesso modo con cui Lacan ha paragonato l'inconscio alla struttura di una lingua naturale). Kernberg quindi, con questa posizione di compromesso, se da una parte ribadisce il ruolo delle pulsioni, dall'altra sottolinea la straordinaria importanza degli affetti come modalità comunicativa tra madre e bambino: sono le tonalità emotive, positive e negative, quelle che poi si cristallizzeranno come sistemi motivazionali o "pulsioni" libidiche e aggressive, per cui Kernberg dà al concetto di pulsione un significato diverso da quello dato da Freud. Nella sua "teoria delle relazioni oggettuali" (Kernberg, 1975, 1976, 1980; vedi Migone, 1991, 1995 pp. 147-150), le tonalità affettive sono quelle che cementano le rapppresentazioni del Sé e dell'oggetto in unità che vanno a costruire il mondo rappresentazionale e poi si consolidano nella struttura tripartita (Io, Es e Super-Io). Questa proposta quindi vorrebbe dimostrare la falsità della dicotomia tra teoria delle pulsioni (psicoanalisi classica) e teoria delle relazioni oggettuali (psicoanalisi relazionale o interpersonale). La posizione di Kernberg, come vedremo, non è affatto incompatibile con quella di Westen (1997a), che tratteremo in seguito, che propone un modello per certi versi simile ma più ancorato alla recente ricerca neurobiologica e cognitiva.
Joseph Lichtenberg
Cruciale nella revisione della teoria psicoanalitica della motivazione, e quindi di una teoria della pulsione aggressiva, è stato l'apporto della ricerca in campo infantile, la cosiddetta infant reseach, i cui gli autori più noti sono Stern, Lichtenberg, Emde, Greenspan, Beebe, Lachmann, ecc., in genere tutti nordamericani. I limiti di un modello della mente umana, fondamentalmente monadica e interessata alla mera soddisfazione tramite scarica pulsionale, già evidenziati da vari autori a livello teorico e dietro alla spinta del lavoro clinico, sono diventai ancor più evidenti e supportati dai dati empirici, dove si è dimostrata una progressiva apertura alle spinte motivazionali plurime, con uno spostamento di enfasi sull'importanza dei rapporti interpersonali fin dalle prime fasi dello sviluppo.
Lichtenberg (1983, 1989) è uno degli autori che hanno compiuto un importante passo avanti in questo lavoro di confronto e di sistematizzazione fra clinica e ricerca, nella sua elaborazione di una teoria della motivazione strutturata. La tesi di Lichtenberg (1989) è che la motivazione sia meglio concettualizzabile come una serie di sistemi volti a promuovere la realizzazione e la regolazione di bisogni di base. Egli ha delineato cinque sistemi motivazionali (e vedremo in che modo l'aggressività può essere rappresentata all'interno di essi), ognuno con probabili correlati neurofisiologici distinti, costruito intorno ad un bisogno fondamentale, basato su comportamenti chiaramente osservabili che iniziano nel periodo neonatale. Nel corso dell'infanzia ogni sistema motivazionale contribuisce alla regolazione del Sé, in interazioni regolate reciprocamente con le persone che si prendono cura del bambino. Momento per momento, l'attività di ognuno dei sistemi può intensificarsi tanto da costituire l'aspetto motivazionale prevalente de Sé, e più sistemi possono attivarsi simultaneamente, proprio come note di un pentagramma musicale. I cinque sistemi motivazionali sono i seguenti: 1) il bisogno di regolazione fisica di esigenze fisiologiche; 2) il bisogno di attaccamento-affiliazione; 3) il bisogno esplorativo-assertivo; 4) il bisogno di reagire avversivamente attraverso l'antagonismo o il ritiro; 5) il bisogno di piacere sensuale e di eccitazione sessuale.
Parrebbe quindi che una spinta aggressiva possa essere rappresentata all'interno del quarto sistema, quello "avversivo", che – precisa Lichtenberg – permette al bambino di imparare ad utilizzare la rabbia in modo adattivo, a rispondere avversivamente al pericolo, e ad impegnarsi nelle controversie e a risolverle. Questo sistema produce risposte che possono ricadere in due grandi categorie, quella dell'antagonismo e quella del ritiro, ed è possibile differenziare nel bambino emozioni o situazioni che stimolano l'uno o l'altro dei due comportamenti; i due affetti di questo sistema sono la rabbia e la paura, "detonatori" rispettivamente dell'antagonismo e del ritiro. A prima vista, potremmo meglio identificare la pulsione aggressiva nel primo di questi due sottosistemi, quello deputato all'antagonismo, ma va ricordato che il sistema avversivo per Lichtenberg presenta una differenza dagli altri quattro sistemi motivazionali. Mentre negli altri sistemi lo scopo dell'azione è quello di ricreare una emozione piacevole sperimentata in precedenza, nel sistema avversivo il bambino non cerca di risperimentare pianto, rabbia, disgusto ecc., ma "nel cercare di alleviare la sofferenza che può presentarsi in ognuno degli altri sistemi" (Lichtenberg, 1989, p. 224). Il sistema avversivo quindi permetterebbe non solo di scaricare una eventuale tensione accumulata, ma servirebbe anche come segnale per richiamare l'attenzione delcaregiver e soddisfare meglio i bisogni degli altri sistemi motivazionali (vedi Lingiardi & Gazzillo, 2001, p. 95). In questo senso, sembra che anche per Lichtenberg non sussista una pulsione aggressiva autonoma, fine a se stessa, il che peraltro è coerente con la matrice teorica sposata da Lichtenberg, quella della psicologia del Sé.
Drew Westen
Westen è uno psicoanalista ricercatore nordamericano metodologicamente molto sofisticato ed attento alla ricerca accademica in vari campi, come la psicologia piagetiana e neopiagetiana, comportamentista, cognitivista, neurofisiologica, ed evoluzionista (vedi ad esempio Westen, 1999). Recentemente ha abbozzato una teoria della motivazione basata sulla contemporanea teoria degli affetti. Nel lavoro Towards a clinically and empirically sound theory of motivation (Westen, 1997a) critica la tendenza degli psicoanalisti a postulare l'esistenza di ampi e relativamente pochi sistemi motivazionali (ad esempio la libido, l'aggressività e l'attaccamento) coi quali si pretende di spiegare comportamenti molto diversi tra loro senza specificare quali siano gli stimoli attivanti questi sistemi motivazionali. E' indispensabile infatti, affinché un sistema motivazionale si manifesti, che esso venga attivato in modo specifico, poiché "la selezione naturale opera al livello di meccanismi specifici attivati da stimoli precisi, e non al livello di ampi obiettivi istintuali; questi ultimi sono costrutti selezionati dai teorici, non dalla natura" (Westen, 1997a, p. 527). Come sintetizzano bene Lingiardi & Gazzillo (2001, pp. 86-91), il modello motivazionale di Westen può essere riassunto in questo modo: una storia di associazioni apprese tra alcune rappresentazioni e specifici stati emotivi determina l'esperienza di uno o più affetti, i quali motivano l'individuo alla azione secondo il principio della ricerca del piacere e dell'evitamento del dispiacere. Ne possono scaturire altri affetti che, a seconda che siano piacevoli o spiacevoli, rinforzano positivamente o negativamente i comportamenti e i processi cognitivi che li hanno determinati, come postulato dalle leggi del condizionamento operante di Skinner o dalla legge dell'effetto di Thorndike. Nelle parole di Westen, quindi, gli affetti possono essere definiti come
meccanismi per la ritenzione selettiva di riposte comportamentali e mentali, incluse difese, formazioni di compromesso e strategie consce di coping. Gli affetti in quanto motivazioni hanno una "base biologica" come le pulsioni della teoria classica, dato che si sono evoluti come soluzioni a problemi dell'adattamento, e le strutture neurali che li mediano sono registrate nel nostro DNA; ma forniscono un meccanismo flessibile per la motivazione umana, associandosi, tramite l'esperienza, con rappresentazioni di stati percepiti, temuti, desiderati, o valorizzati in altro modo (Westen, 1997a, p. 542).
Per Westen (1997a, 1997b) dunque all'apice della gerarchia della motivazione vi sarebbe semplicemente il principio della ricerca del piacere e dell'evitamento del dispiacere, per cui non vi sarebbe assolutamente bisogno di postulare una pulsione aggressiva, e neppure di postulare, come fa Lichtenberg, un sistema avversivo a se stante, poiché il quarto e il quinto dei sistemi motivazionali della teoria di Lichtenberg (cioè quelli che con Westen possiamo chiamare l'evitamento del dolore e la ricerca del piacere) costituiscono il meccanismo di base della motivazione tout court. Westen inoltre critica l'idea di Lichtenberg, tradizionalmente psicoanalitica, secondo cui le motivazioni si originerebbero solo nell'infanzia, in quanto ciò è un assunto non dimostrato empiricamente (anzi, è dimostrato che esperienze successive possono avere un ruolo importante), e critica anche la miscellanea di concetti – per Westen poco chiara – presi dalla psicologia del Sé e dal modello di Stern (1985) che stanno alla base dell'approccio di Lichtenberg.
Peter Fonagy
Fonagy, uno psicoanalista londinese che ha compiuto importanti studi sulla teoria dell'attaccamento, ha proposto una eziopatogenesi dell'aggressività e della violenza come conseguenza di un mancato sviluppo di quella che lui chiama "funzione riflessiva", detta anche funzione metacognitiva, cioè della capacità del bambino di costruire una "teoria della mente" propria ed altrui. Il bambino svilupperebbe due aspetti del Sé in successione (Fonagy, Moran & Target, 1993; Fonagy & Target, 1993-2000): dapprima si formerebbe un "Sé pre-riflessivo o fisico" che sperimenta il mondo in modo immediato, concreto, e in seguito un "Sé riflessivo o psicologico", capace di vedere sé stesso e il mondo oggettuale alla luce di sentimenti, credenze, intenzioni e desideri, e di riflettere sull'esperienza in termini psicologici. Il Sé pre-riflessivo è presente in una forma primitiva dalla nascita e si sviluppa completamente attorno ai sei mesi (Stern, 1985), mentre il Sé riflessivo (quello che sarà responsabile della funzione riflessiva) evolve lentamente nei primi due anni di vita.
Uno degli aspetti più interessanti delle ricerche di Fonagy è quello di aver mostrato come il Sé riflessivo, e quindi la funzione metacognitiva, sia un importante fattore protettivo nei confronti della comparsa di comportamenti aggressivi (e anche di psicopatologia adulta, soprattutto di tipo borderline [Fonagy, 1991, 1996]). Inoltre Fonagy ha dimostrato che lo sviluppo della funzione riflessiva dipende in modo specifico dalla capacità della madre di riconoscere e comprendere gli stati mentali del bambino, il suo mondo interno, cioè i suoi sentimenti, pensieri, desideri e intenzioni. Il caregiver quindi, affinché si sviluppi appieno questa importante funzione nel bambino, dovrebbe saper fungere da specchio, mostrando di comprendere gli stati intenzionali del bambino: è solo così che il bambino impara a leggere i propri stati mentali e anche quelli degli altri.
Ma in che modo la deficitaria formazione della funzione riflessiva nel bambino costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo dell'aggressività? E' la mancanza di mentalizzazione, cioè di strutture psichiche adeguate che gli permettano di comprendere se stesso e le intenzioni degli altri, quella che può spingere il bambino ad usare il corpo, e quindi anche l'aggressività, come se in un certo senso il corpo prendesse il posto della mente (Fonagy, Moran & Target, 1993). Non solo, ma se il bambino viene maltrattato o trascurato può non potersi permettere di pensare che nella mente dei suoi genitori, cioè delle sue figure di attaccamento delle quali ha un profondo bisogno, alberghino intenzioni cattive nei suoi confronti, per cui può non sentirsi sicuro nel rappresentarsi mentalmente i pensieri del caregiver nei suoi confronti o in generale nel vedere le persone nell'atto di pensare (è dimostrata, tra l'altro, una correlazione tra lo sviluppo della funzione riflessiva e un attaccamento sicuro, nel senso che quest'ultimo, a differenza di altri stili di attaccamento, ne permette la crescita). Se invece un bambino viene trascurato dalla propria madre ma possiede una adeguata funzione riflessiva, può pensare che la madre non ha intenzioni negative nei suoi confronti (con tutte le conseguenze che ne deriverebbero), ma che, ad esempio, "è depressa" o "è presa da un altro problema" (come hanno mostrato varie ricerche, ad esempio quelle di Liotti [1992, 1994, 2001], spesso un fattore di distrazione che impedisce alla madre di prestare la necessaria attenzione emotiva al proprio figlio, e che quindi può interferire nella propria funzione riflessiva, è un lutto o una perdita subita nel periodo della nascita del figlio stesso).
Le intuizioni cliniche su cui le ricerche di Fonagy si basano sono state anticipate in passato da vari autori, con accenti diversi, tra cui i seguenti: Bion (1962, 1963), coi concetti di rêverie, della funzione della madre come "contenitore" e del ruolo della identificazione proiettiva (vedi Migone, 1988, 1995 cap. 7); Winnicott (1971), con il concetto di "identificazioni incrociate" tra madre e bambino; Loewald (1978), quando suggeriva che la riflessione su di sé fosse basata sull'internalizzazione del gioco di specchi della diade madre-bambino; la Fraiberg (1982), quando parlava delle strategie difensive primitive infantili di evitamento e aggressività; e così via. Quello che differenzia Fonagy da altri psicoanalisti non è solo la sua maggiore sistematizzazione teorica, ma soprattutto il fatto che le sue ricerche poggiano su un solido impianto sperimentale e sul vasto corpus di conoscenze e di studi accademici che fanno capo alla teoria dell'attaccamento fondata da Bolwby e sviluppata poi dalla Ainsworth (soprattutto per quanto riguarda gli stili di attaccamento) e dalla Main (soprattutto per quanto riguarda quelli che Bowlby chiamava "modelli operativi interni" o internal working models [IWM]).
Conclusioni
Una rivisitazione storica delle ipotesi psicoanalitiche sulla emozione aggressiva è molto difficile perché corre continuamente il rischio di allargarsi e di includere altri importanti aspetti, in primis quello della teoria della motivazione e poi immediatamente quello, ad essa connesso, della teoria della mente. La scelta degli autori selezionati per questa sintetica rassegna, come si è detto, è stata altamente arbitraria, e non è possibile neppure citare coloro che sono stati omessi perché il rischio di trascurarne altri semplicemente aumenterebbe.
E' possibile trarre delle conclusioni dopo questa carrellata storica di ipotesi psicoanalitiche sulla origine della emozione aggressiva? L'esistenza di una autonoma pulsione deputata alla scarica di una aggressività fine a se stessa, e a maggior ragione di una pulsione di morte o di una aggressività auto-diretta (ed eventualmente proiettata all'esterno), pare criticata dalla maggioranza degli autori, se non altro perché difficilmente un tale sistema motivazionale avrebbe potuto selezionarsi su base evoluzionistica. Del resto, nel "Documento di Siviglia sulla Violenza" stilato il 16-5-1986 all'Ottavo Congresso Mondiale della International Society for Research on Aggression dai più eminenti studiosi dell'aggressività (psicologi, etologi, biologi, sociologi, antropologi, zoologi, ecc.), si legge: "Non esistono prove che la guerra, come ogni altro comportamento umano violento, sia frutto di un istinto, di un programma inscritto nella natura umana".
Ben diversa è invece l'emozione aggressiva come reazione adattiva in difesa della sopravvivenza o al servizio di importanti bisogni vitali o di altri sistemi motivazionali innati. Sulla esistenza di questo comportamento non vi sono dubbi, anche se, come si è visto, molti autori hanno preferito sottolineare un aspetto innato di questa reazione, e altri l'importanza della cultura o dell'apprendimento. Ma questa può essere una falsa dicotomia, nel senso che rischia di riproporre l'una o l'altra delle due ipotesi di base nelle quali si possono schematicamente suddividere tutte quelle che abbiamo preso in rassegna, cioè della aggressività come causata da un fattore interno (aggressività innata) o da un fattore esterno (aggressività reattiva). Questa dicotomia è falsa perché presuppone un superata concezione della mente, che invece, ab origine, è sempre costruita da un intreccio tra fattori innati e esperienziali, come la recente ricerca sul cervello, sul rapporto corpo-mente e sulla nascita della coscienza ha ben documentato (tra i tanti autori, basti citare Edelman, 1992). Ci sembrano quindi più convincenti le ipotesi esplicative avanzate dagli ultimi autori della nostra rassegna, se non altro perché, a differenza di Freud e dei primi psicoanalisti, hanno potuto avere a disposizione i dati della recente ricerca scientifica sul cervello e sullo sviluppo infantile.
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