IL PAZIENTE VIOLENTO: QUALI RESPONSABILITA’ PER LA PSICHIATRIA

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8 ottobre, 2012 - 14:59

Volevo riprendere brevemente un paio di punti introdotti prima dal prof. Nivoli, che ci ha mostrato come sia possibile dire cose importanti riuscendo ad essere interattivi, brillanti e spiritosi senza essere noiosi come spesso siamo noi psichiatri.

L’unica obiezione che ti faccio è che forse non serve andare nel carcere di massima sicurezza per incontrare queste tematiche, anche se penso invece sia stato un po’ un espediente per toglierci quelle difese che noi tutti abbiamo. Sono situazioni che possiamo infatti incontrare nel pronto soccorso, o quando abbiamo a che fare con i detenuti, o in quelle strutture che raccolgono i pazienti del territorio che conosciamo ma anche soggetti di cui non sappiamo praticamente niente.

Certo quindi che noi psichiatri saremmo molto contenti ad eliminare i problemi e le tematiche relative alla violenza ma questi aspetti ce li rifilano i magistrati e la società. Perché, quando poi questi pazienti commettono degli atti violenti verso sè o verso gli altri, noi non possiamo certo dire che non ci occupiamo della violenza e che qualcun’altro deve farsene carico.

L’abbiamo curato adeguatamente? L’abbiamo custodito e sorvegliato opportunamente? Perché gli abbiamo concesso il permesso?

La violenza quindi non andiamo certo a cercarla e ne faremmo volentieri a meno, però nonostante il nostro desiderio di alleanza terapeutica tutti ne siamo poi coinvolti. Usciamo quindi idealmente dal carcere di massima sicurezza e caliamoci nella società che ci chiede questi contatti e ci chiede di intervenire, di dare delle risposte non nel giro di mesi o anni ma di minuti. La legge ci dice che dovremmo assicurarci che la cura sia efficace ma di fatto dobbiamo anche essere sicuri che lui non "faccia fuori" gli altri o se stesso.

La violenza viene considerata dall’ O.M.S. un problema di salute pubblica globale, e quindi non è pensabile che il medico e lo psichiatra lo lascino da parte.

È chiaro che esistono diversi tipi di violenza, alcuni che ci coinvolgono maggiormente come quella rivolta contro se stessi (comportamento suicidiario, comportamento automutilante), ma come pure le forme di violenza interpersonali (ricordiamo che il neuropsichiatria infantile ha sempre a che fare con le violenze, molto spesso fisiche all’interno del "saldo" nucleo familiare). Quindi, in questo ambito, sono incluse violenze sui bambini, sul partner, sui più vecchi, nella comunità.

I dati che vi presento non arrivano da report di agenzie giudiziarie, ma sono espressione di un problema di salute pubblica globale. I tassi relativi al 2000 evidenziano una proporzione sul totale di suicidi particolarmente elevata. Questo ci coinvolge direttamente perché pochi sono disposti ad ammettere che il suicidio è la causa di morte in psichiatria. In tutte le discipline si muore, in tutte si viene giustamente chiamati a vedere se si è fatto il proprio dovere, ed anche in psichiatria accade soprattutto appunto per la condotta suicidiaria (anche se in genere per quanti pasticci si combinino è difficile far morire il paziente).

Epidemiologicamente si è poi riscontrata una prevalenza di questi atti violenti nei paesi con medio e basso reddito.

Per quel che riguarda gli omicidi le età più giovanili se ne fanno carico in quota maggiore, mentre nel caso dei suicidi l’aumento è significativo soprattutto dopo i 60 anni, nella popolazione maschile in particolare.

Se osserviamo i dati invece sull’affluenza nei reparti di emergenza si riscontra un 10% classificabile come comportamento violento, e ben un 20% di comportamento suicidiario.

La valutazione del rischio di violenza (molto rapida in termini di tempo) è data da una conoscenza per così dire "sintomatologica" del paziente e di un serie di caratteristiche demografiche per essere all’erta quando ci troviamo di fronte un paziente che rispecchia il tipico profilo: maschio, 15-25 anni, basse condizioni socio economiche, pochi sostegni sociali, anamnesi positiva a questo tipo di comportamento.

Cominciano ad esserci delle linee guida per il trattamento anche farmacologico di queste situazioni, però dobbiamo ricordare che la violenza si manifesta spesso quando la somministrazione acuta i.m. non è ancora avvenuta: noi dopo possiamo trattare ma ci sono quei 15-20 minuti nel pronto soccorso nei quali non c’è, di fatto, controllo farmacologico.

Infine, uno dei fattori più importanti nel caso di pazienti violenti in cura è proprio la non compliance, la non aderenza al trattamento sia anamnesticamente sia al momento del fatto criminoso.

Con questo breve intervento volevo sottolineare come non sia possibile togliere una fetta di comportamenti umani, nel caso la violenza, dal nostro lavoro. Tra l’altro se osservate i lavori attuali vi è un altro comportamento che rimane nello sfondo, ovvero il comportamento sessuale. Nelle anamnesi la sessualità del paziente è un discorso che arriva tardi, a volte...

Quindi lo psichiatra deve essere attrezzato opportunamente, affinchè il paziente violento non si trovi di fronte ad uno psichiatra violento, ben sapendo che si può essere violenti in molti modi.

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